Senza aeroporto, senza energia e senza acqua

A Catania negli ultimi dieci giorni si sono accumulati enormi problemi in un contesto già di per sé complicato: e intanto intorno la Sicilia brucia

Un incendio a Mascali, in provincia di Catania, il 25 luglio (© Vito Finocchiaro/ZUMA Press Wire)
Un incendio a Mascali, in provincia di Catania, il 25 luglio (© Vito Finocchiaro/ZUMA Press Wire)

All’aeroporto internazionale Fontanarossa di Catania i passeggeri in partenza attendono l’imbarco in due tendoni di 54 metri quadrati ciascuno, rinfrescati con dei condizionatori. L’Aeronautica militare li ha montati davanti al terminal C: di solito è riservato alla compagnia low cost easyJet, ma in questi giorni ospita tutti i voli in partenza e in arrivo allo scalo siciliano. Il resto dell’aeroporto è chiuso dalla notte del 17 luglio, quando nella zona degli arrivi del terminal A si è sviluppato un incendio che secondo i vigili del fuoco che sono intervenuti sarebbe partito dal cavo di una stampante. Tre giorni dopo ci sono stati anche improvvisi blackout in città che hanno causato a loro volta una mancanza di acqua in molti quartieri.

Il terminal incendiato (ANSA/VIGILI DEL FUOCO)

I pochi voli che adesso partono da Fontanarossa lo fanno dal terminal più piccolo, che è anche l’ultimo arrivato: è stato inaugurato nel 2018 e si estende su 3.800 metri quadrati contro i quasi 45mila del terminal A.

L’associazione di consumatori ADOC ha denunciato che «viaggiatori e turisti sono lasciati senza informazioni e senza servizi» e costretti a file «interminabili». Chi scende dagli aerei che atterrano a Fontanarossa deve invece attendere la consegna del bagaglio all’aperto, sotto le scalette dell’aereo, in un clima torrido. Alle 15 del 24 luglio la Protezione Civile ha registrato il picco di temperatura a 47,6 gradi.

A dieci giorni dall’incendio l’aeroporto non ha ancora riaperto: il presidente della Regione Renato Schifani ha detto che «la piena normalità si avrà qualche giorno dopo il primo agosto, appena termineranno le operazioni di bonifica e ripristino del terminal A». Il ministro per la Protezione Civile, Nello Musumeci, ha dato la responsabilità del disastro al cambiamento climatico, ma molti contestano sia l’inerzia delle istituzioni locali e nazionali, sia la gestione della SAC, la società responsabile dell’aeroporto. Musumeci oltre a essere ministro è anche originario del catanese, è stato presidente della provincia e della Regione, e vicesindaco di Catania tra il 2005 e il 2007. Sull’incidente all’aeroporto la procura di Catania ha aperto un’indagine per incendio colposo.

Catania è la seconda città per numero di abitanti della Sicilia, circa 300mila che arrivano a un milione e 200mila se si conta l’intera provincia, ed è il principale polo industriale dell’isola. L’aeroporto di Fontanarossa è il secondo del Sud per numero di passeggeri dopo quello di Napoli, il quarto in Italia: vi passano dieci milioni di passeggeri all’anno e 246 aerei al giorno. Prima dell’incendio l’afflusso era di circa 39mila persone ogni giorno, in gran parte turisti diretti verso le spiagge della Sicilia orientale. La sua parziale chiusura è un disastro economico per la città, che si trova a far fronte a disdette negli alberghi e strutture ricettive che rimangono vuote. Secondo l’Assoesercenti Sicilia si perdono 40 milioni di euro al giorno.

«A essere coinvolti non sono solo i turisti, ma ditte di trasporto, auto a noleggio con conducente, taxi, hotel, b&b, ristoranti e agenzie di viaggio», dice il presidente di Assoesercenti Sicilia, Salvo Politino. La gran parte dei voli è stata dirottata verso gli aeroporti di Trapani e di Palermo, dove il 25 luglio lo scalo è stato chiuso a sua volta per alcune ore per il fumo degli incendi che divampavano sulle colline attorno alla città. Vuol dire che chi arriva a Trapani deve farsi un viaggio di cinque ore in autobus verso Catania, mentre chi atterra a Palermo ha due possibilità: fare tre ore di bus con il rischio di trovare un incendio lungo la strada, o prendere un treno e cambiare a Messina, impiegando cinque ore per percorrere 210 chilometri.

La Fiavet Sicilia, l’organizzazione di rappresentanza degli operatori del turismo, ha protestato perché le agenzie sono costrette ad «anticipare le somme impiegate per spostamenti più lunghi dovuti al cambio del luogo dell’atterraggio, degli orari e degli alberghi». Inoltre, da Trapani le partenze dei bus per Catania non sono sincronizzate con gli arrivi dei voli dirottati, per cui le agenzie sono costrette a noleggiare mezzi privati per andare a prendere i turisti. Il presidente della Fiavet Sicilia, Gianluca Glorioso, ha scritto una lettera alla SAC, la società che gestisce l’aeroporto, e all’Ente nazionale di aviazione civile (ENAC) per chiedere quando l’aeroporto riaprirà e per avere «un’informazione precisa sulle navette da e per gli aeroporti».

Alle 21:30 del 24 luglio la SAC ha diramato un comunicato stampa in cui ha spiegato che per pulire e bonificare il terminal A sono state chiamate squadre di tecnici provenienti da cinque aziende diverse, tra cui Belfor che ha già lavorato sul terminal 3 di Fiumicino a seguito dell’incendio del 2015. Non è stata però in grado di dire quando l’aeroporto tornerà a funzionare come prima: la riapertura viene rimandata di settimana in settimana. «Può un aeroporto internazionale come quello di Catania entrare in crisi per un incendio circoscritto?» dice il presidente di Assoesercenti, Politino. «Gli investimenti sulla sicurezza, sotto il profilo professionale, sono all’altezza delle esigenze di una infrastruttura strategica? Come mai la SAC, che gestisce anche l’aeroporto di Comiso, non ha subito dirottato i voli proprio sullo scalo del Ragusano evitando disagi?».

In mezzo a tutto questo, tre giorni dopo l’incendio all’aeroporto molti quartieri di Catania e una decina di comuni della provincia sono senza corrente elettrica perché il caldo ha sciolto i cavi dell’elettricità. Il blackout ha fermato anche gli impianti idrici, e così buona parte della città si trova da giorni senza acqua, senza energia elettrica, isolata e anche circondata dagli incendi. In questi giorni infatti in molte parti della Sicilia ci sono vasti incendi: il Corpo forestale dello Stato ha censito 388 roghi in tutta l’isola, molti nel catanese, ai piedi dell’Etna, lungo l’autostrada per Messina e in molti terreni incolti nelle campagne.

In un primo momento si era pensato che la rete non avesse retto l’eccessiva domanda di energia elettrica, causata dai troppi condizionatori accesi in case e uffici. Poi E-Distribuzione, la società dell’Enel che gestisce la rete, ha comunicato che a provocare il blackout è stato il caldo, che ha sciolto diversi cavi interrati sotto l’asfalto rovente.

La mancanza di elettricità ha messo fuori uso anche gli impianti di pompaggio dell’acqua, che non hanno funzionato per giorni. Martedì scorso la Sidra, la società che gestisce il servizio idrico a Catania, ha fatto sapere che la fornitura di energia agli impianti è tornata «pressoché alla normalità», aggiungendo però che rimangono temporanei cali di tensione. Insomma, alcune zone della città sono ancora senza acqua.

I tecnici di E-Distribuzione hanno scavato in diversi punti sotto l’asfalto per cercare di capire dove i cavi si erano sciolti. Di per sé il caldo non dovrebbe compromettere il buon funzionamento dei cavi, ma l’Enel ha ammesso che la rete elettrica a Catania non è adeguata e avrebbe bisogno di più manutenzione. E ha annunciato che 412 milioni del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, saranno utilizzati per ammodernarla e potenziarla.

In alcune zone della città, come nel centrale viale Rapisardi, i cittadini sono rimasti al buio e senz’acqua per diversi giorni. Sono stati costretti a mettersi in fila alle fontanelle pubbliche per fare scorta di acqua con bottiglie e bidoncini. Gli abitanti dei quartieri Cibali e Nesima hanno lanciato una petizione on line su Change.org per chiedere al comune di risolvere l’emergenza e all’Enel di potenziare la rete elettrica. «Questa situazione ha reso inutilizzabili frigoriferi, dispositivi medici, strumenti di comunicazione, di lavoro e finanche condizionatori, per chi ne disponesse o ne sentisse il bisogno», hanno scritto. «Chi è fragile sta rischiando moltissimo per la propria salute. Questa situazione è umanamente inaccettabile». La mattina del 28 luglio erano state raccolte quasi 8mila firme.

«In alcune zone dove vivono famiglie numerose la situazione è critica perché non ci si può lavare e andare in bagno, non si può conservare nulla in frigorifero e con il caldo il cibo va a male presto. Ma i problemi maggiori sono per chi ha la necessità di conservare medicinali in frigo o è degente a casa e magari è attaccato a una macchina», dice Marta Silvestre, una giornalista del quotidiano online Meridionews.

Gli ospedali hanno ridotto i servizi al 50 per cento per evitare che saltasse la corrente nelle terapie intensive. «Avrebbero dovuto controllare l’invecchiamento dei cavi e sostituire quelli più compromessi, e fare dei distacchi programmati nei giorni più caldi, avvisando i cittadini», ha detto Marco Tina, docente di Sistemi elettrici per l’energia all’università di Catania. A suo parere, non è un caso che il blackout ci sia stato proprio a Catania, perché «il terreno lavico non permette ai cavi di scambiare il calore con l’esterno, ed è così da sempre». Secondo Tina è stato un «fenomeno prevedibile che poteva essere evitato, visto che l’aumento delle temperature è in corso da anni e l’ondata di calore era stata annunciata».

Il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, rispondendo il 26 luglio a un question time alla Camera dei deputati, ha detto che «il ministero dei Trasporti non ha la gestione dell’aeroporto di Catania, possiamo dare tutt’al più qualche consulenza». La ministra del Turismo, Daniela Santanchè, ha proposto invece al Consiglio dei ministri di stanziare 10 milioni di euro «per il rimborso dei biglietti aerei e delle prenotazioni» dei turisti, ma non è stato ancora approvato nessun provvedimento.

A giudicare da tutto questo non si direbbe, eppure negli anni Ottanta Catania ebbe un importante sviluppo economico ed era una città attraente per molti giovani, che ci andavano per lavorare o studiare all’università. Nella zona industriale costruita a sudest dell’aeroporto si insediarono multinazionali come STMicroelectronics, Nokia, Alcatel, Vodafone e un migliaio di piccole aziende dell’indotto. Nel 2007 un decreto regionale definì l’area industriale “Etna valley”, un nome che evocava la “Silicon valley” californiana, dove nacquero e hanno ancora la loro sede alcune delle società tecnologiche più importanti al mondo, tra cui Apple, Facebook e Google. Nonostante il distretto dell’elettronica e dei semiconduttori si sia molto ridimensionato rispetto a vent’anni fa, perché la produzione si è spostata verso i paesi asiatici, l’area industriale conta ancora quasi 400 imprese ed è la più grande di tutta la Sicilia.

«La provincia di Catania genera 20 miliardi di PIL, è quella con il più alto tasso di industria manifatturiera in Sicilia e nel 2022 ha esportato più di 2 miliardi di euro di beni», ha detto il presidente di Confindustria Catania, Antonello Biriaco.

Secondo Fabio Impellizzeri, presidente dell’associazione di aziende Zic Re-Industria Catania, c’è una grande distanza tra il modo in cui vengono gestite le aziende e l’abbandono degli spazi pubblici intorno. «Riceviamo spesso visite di rappresentanti di aziende che vengono dalla Cina, dalla Germania, dai Paesi extraeuropei» ha detto Impellizzeri. «Arrivano nella zona industriale, poi entrano nelle nostre aziende. Sapete qual è la prima cosa che ci dicono? Che pensano di aver lasciato alle spalle Beirut, con tutto il rispetto, per entrare in Svizzera. E ci chiedono come sia possibile che aziende ben organizzate e strutturate possano risiedere in un tale contesto di degrado».