La fantasiosa nascita del campionato di calcio giapponese
Trent’anni fa il campionato locale divenne professionistico, e lo fece in modo tanto ambizioso quanto originale
di Pietro Cabrio
Prima degli anni Novanta il calcio in Giappone era poco più di un passatempo aziendale sostenuto dalle grandi compagnie come Nissan, Panasonic, Mitsubishi, Toyota e Yomiuri. Queste aziende davano i loro nomi a squadre (come si usa tuttora nel baseball, lo sport nazionale) formate per buona parte dagli stessi dipendenti. Giocavano in ambito amatoriale, o al massimo semi-professionistico, ed erano sostenute da una tradizione scolastica piuttosto diffusa che risaliva alla fine dell’Ottocento, quando, come in tante altre parti del mondo, gli inglesi portarono e diffusero il gioco nel paese.
Agli inizi del Novecento il Giappone cominciò a giocare in blu (o meglio in samurai blu), diventando così una delle poche nazionali al mondo a non avere la prima divisa con i colori della propria bandiera. Nemmeno la Federazione locale, però, sa dire con esattezza quale fu il motivo per cui venne fatta quella scelta. La versione più accreditata dice che negli anni Venti la squadra dell’Università di Tokyo fungeva anche da Nazionale, e usava maglie azzurre e pantaloncini bianchi. Nel 1921 questa squadra universitaria fece una bella figura ai Giochi dell’Estremo Oriente e così si decise all’unanimità di tenere il blu come colore principale, che peraltro nella cultura giapponese è considerato il colore della giovinezza.
Con gli avvenimenti traumatici di metà Novecento – la guerra e poi le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki – il calcio in Giappone risentì dell’isolamento del paese e poi di una difficile ricostruzione. Dopo la Seconda guerra mondiale, man mano che il Giappone si avvicinava alla ripresa economica e riallacciava i rapporti con i paesi esteri, la tradizione calcistica venne ripresa e affidata ai grandi conglomerati che si spartivano l’economia nazionale e offrivano alla società, come sorta di compensazione, il sostegno all’attività sportiva.
Nella ripresa del calcio giapponese furono fondamentali alcuni professionisti stranieri, in special modo europei, che finiti in Giappone per ragioni non necessariamente legate al calcio aiutarono il movimento a strutturarsi e a essere competitivo. Uno di questi fu il tedesco Dettmar Cramer, ex calciatore, poi giornalista e poi allenatore che negli anni Sessanta fu assunto dalla Federazione giapponese per preparare la Nazionale alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Cramer portò metodi e conoscenze che servirono a migliorare tutto il movimento, e alle Olimpiadi la Nazionale fece una discreta figura.
I legami tra calcio tedesco e giapponese proseguirono nei decenni successivi. Tra gli anni Ottanta e Novanta, ossia in un periodo in cui il professionismo sportivo iniziò a diffondersi su larga scala in tutto il mondo, la Federazione e gli investitori giapponesi interessati a creare un sistema professionistico presero come modello la struttura del campionato tedesco. Imposero una serie di garanzie (economiche, infrastrutturali e sociali) per l’ottenimento dello status professionistico e si diedero come obiettivo a lungo termine la creazione di un sistema composto da cento club professionistici.
Nei primi anni Novanta, dopo che il Giappone era diventato la sede fissa della Coppa Intercontinentale — e anche sulla scia del successo ottenuto del cartone animato Holly e Benji — si decise di creare la prima lega professionistica, la J1 League, che iniziò ufficialmente il 15 maggio del 1993 con la partita tra Verdy Kawasaki e Yokohama Marinos. Negli anni successivi vennero poi aggiunte altre due leghe minori: la J2 League e la J3 League, che nel 2024 arriveranno ad avere venti partecipanti ciascuna.
Inizialmente le squadre di J1 League erano soltanto dieci, selezionate per partecipare tra quelle già esistenti nel vecchio sistema, o create appositamente. Il nuovo campionato avrebbe infatti dovuto rappresentare i grandi centri del paese e coinvolgere le realtà che fin lì si erano più distinte. Le grandi compagnie industriali rimasero proprietarie delle squadre, e lo sono tuttora, ma non vennero più citate nei loro nomi, che invece furono ripensati traendo ispirazione dal calcio europeo e in particolare da quello italiano, all’epoca considerato il migliore e tra i più seguiti al mondo, i cui colori finirono anche per rappresentare il campionato stesso.
La squadra della Mazda divenne il Sanfrecce Hiroshima. Nello stemma erano rappresentate tre frecce incrociate, simbolo di forza e tenacia, e il nuovo nome prese ispirazione da lì unendo “san”, che in giapponese indica il numero tre, e “frecce” scritto in italiano per motivi puramente stilistici. Una cosa simile fece la squadra della Panasonic ad Osaka, che divenne il Gamba Osaka. In questo caso il nome italiano fu scelto per l’assonanza con il termine giapponese “ganbaru”, un incoraggiamento che in italiano è paragonabile a “forza!” (o, appunto, “in gamba!”). Nel 1995 a Osaka fu fondata un’altra squadra professionistica che prese ispirazione dallo spagnolo e si chiamò Cerezo Osaka, ossia “ciliegio” in spagnolo, come il simbolo della città.
Le altre squadre del primo campionato professionistico giapponese furono i Nagoya Grampus Eight, di proprietà della Toyota, e gli Urawa Red Diamonds, i “diamanti rossi” come il simbolo del gruppo proprietario, Mitsubishi. Altre due non esistono più nelle loro forme originali. I Verdy Kawasaki, la squadra un tempo più vincente del paese, divennero i Tokyo Verdy, mentre gli Yokohama Flügels (“ala” in tedesco) si unirono all’altra squadra della città, quella di proprietà della Nissan, e insieme divennero gli Yokohama F·Marinos (dove la F ricorda i Flügels e “marinos” sta per “marinai” in spagnolo).
Alle dieci squadre fondatrici se ne aggiunsero gradualmente altre fino ad arrivare alle attuali diciotto, distribuite in tutto il paese. A Kobe c’è il Vissel, la squadra del gruppo Rakuten il cui nome è l’unione tra le parole inglesi “vittoria” e “vessillo”. A Hiratsuka, città costiera nota per essere meta di villeggiatura, c’è il Bellmare. A Fukoka gioca l’Avispa, che ha un nome in spagnolo (“vespa”) come il Kashiwa Reysol, mentre a Kawasaki, città dell’area metropolitana di Tokyo, c’è il Frontale, un nome ripreso dall’italiano per richiamare aggressività e coraggio: i suoi colori, l’azzurro e il nero, sono invece stati presi dalla squadra brasiliana del Gremio.
La fantasia dei nomi, la ricchezza di colori e simboli sono divenute negli anni l’aspetto più riconoscibile del calcio giapponese. Ma l’istituzione di un campionato professionistico in un paese che non ne aveva mai avuto uno fu anche e soprattutto un progetto solido, ambizioso e ben pianificato, che partì subito forte.
Fin dal 1993 le squadre poterono contare sul contribuito di diversi grandi ex giocatori che avevano ancora qualcosa da dare, come i brasiliani Zico e Dunga, l’inglese Gary Lineker, l’argentino Ramon Diaz e gli italiani Salvatore Schillaci e Daniele Massaro. Ma in mezzo ai campioni arrivati a fine carriera, nel corso degli anni la J1 League lanciò le carriere di allenatori e calciatori poi diventati molto conosciuti, come Arsène Wenger, che prima di allenare l’Arsenal lavorò con la squadra della Toyota a Nagoya, o il brasiliano Hulk, che passò dal Giappone prima di arrivare nel calcio europeo.
A trent’anni di distanza il campionato giapponese è il migliore in Asia e contribuisce al sostegno di una Nazionale che si qualifica ai Mondiali da sette edizioni consecutive. In questo è stato aiutato anche dai Mondiali ospitati nel 2002 insieme alla Corea del Sud, che contribuirono alla popolarità del calcio e al rinnovamento delle strutture. Nel sistema esistente i giocatori stranieri servono solo a integrare le rose delle squadre, dato che queste sono sostenute da settori giovanili molto efficienti che da tempo crescono decine di giocatori che poi continuano le loro carriere in Europa.
Il radicamento del calcio in Giappone, in cui la J1 League ha avuto un ruolo fondamentale, si nota anche dal livello di competitività del campionato, talmente omogeneo che solo una squadra (i Kashima Antlers) è riuscita a vincere il titolo nazionale tre volte di fila. Quasi tutte le squadre sono retrocesse almeno una volta negli ultimi trent’anni, e negli ultimi dieci ci sono state cinque vincitrici diverse.
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