In Israele non se ne esce
La riforma della giustizia di Netanyahu sta facendo discutere dell'identità stessa del paese, e sembra che nessuno dei due schieramenti coinvolti voglia fare passi indietro
In Israele la riforma del sistema giudiziario proposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu ha innescato una grave crisi politica che sta coinvolgendo l’intero sistema istituzionale israeliano. Da una parte c’è Netanyahu e i partiti di estrema destra e ultraortodossi che lo sostengono, e che pensano che la riforma sia necessaria per limitare il potere dei giudici, ritenuto eccessivo e usato per fini politici per ostacolare l’attività del governo. Dall’altra c’è l’opposizione, una parte della stessa coalizione di governo (che sulla riforma è divisa) e le centinaia di migliaia di persone che protestano da oltre sette mesi, secondo cui la riforma è una minaccia alla tenuta della democrazia israeliana con tutto quello che questo comporta anche su altri piani: per esempio quello dei diritti umani e dei rapporti di Israele col resto del Medio Oriente.
Sembra che la crisi innescata dalla riforma stia dividendo in due Israele su una questione molto più ampia e profonda della sola giustizia: cioè sull’identità stessa del paese e sui principi su cui si basa lo stato israeliano. Israele si trova nel mezzo di una «crisi di identità», ha scritto l’analista israeliano Shalom Lipner, in una situazione assai complicata perché a questo punto nessuna delle due parti sembra essere disposta a fare passi indietro.
Anzitutto il problema riguarda Netanyahu e la possibilità che accetti di modificare la riforma, che prevede di togliere poteri alla Corte suprema per affidarli al governo (lunedì ne è stata approvata la prima parte). La riforma è stata infatti presentata come un obiettivo imprescindibile per i partiti di estrema destra e ultraortodossi che fanno parte del governo e che lo appoggiano. Se la proposta di legge dovesse fallire, è probabile che la tenuta dell’esecutivo sarebbe a rischio. Come ha scritto sempre Lipner, la permanenza al potere di Netanyahu «dipende intrinsecamente dalla capacità di continuare a soddisfare gli appetiti dei membri della sua coalizione»,su cui Netanyahu ha sempre investito.
Netanyahu non ha quindi molto spazio di manovra, benché la sua riforma sia impopolare anche all’interno della sua stessa coalizione: nei momenti immediatamente precedenti alla votazione di lunedì ci sono state liti e discussioni molto accese tra gli stessi deputati conservatori della coalizione di governo.
La prima parte della riforma, quella approvata lunedì, impedisce alla Corte suprema di bloccare le decisioni del governo sulla base del concetto legale di “irragionevolezza”, cioè intervenire sui provvedimenti approvati dal governo e abolirli se vengono ritenuti in qualche modo “irragionevoli”. È uno strumento che negli ultimi anni la Corte ha usato in più occasioni, e che secondo molti israeliani serve a garantire l’equilibrio tra poteri in grado di mantenere la tenuta della democrazia (Israele non ha una Costituzione e la Corte suprema rappresenta un importante contrappeso al potere del governo in carica).
C’è un altro motivo per cui a Netanyahu non conviene retrocedere sulla sua riforma. Riguarda soprattutto la seconda parte, che non è ancora stata approvata e prevede modifiche alla commissione che nomina i giudici della Corte Suprema e dei tribunali inferiori.
Attualmente i giudici sono selezionati da una commissione di nove membri di cui solo quattro sono scelti dal governo: la riforma porterebbe a 11 i membri totali e a 8 quelli di nomina politica, dando sostanzialmente al governo il controllo delle nomine dei giudici. Questa parte della riforma potrebbe dare a Netanyahu garanzie sulla possibilità di non venire rimosso dal proprio incarico a causa dei procedimenti giudiziari che lo riguardano (tra le altre cose Netanyahu è sotto processo per corruzione e truffa). Questa parte della riforma prevede anche l’affidamento di alcuni poteri ai tribunali rabbinici (cioè i tribunali religiosi ebraici), che potrebbero seguire certi procedimenti civili.
Per ragioni diverse nemmeno chi si oppone alla riforma sembra disposto a fare passi indietro. Per chi contesta Netanyahu l’eventuale approvazione del testo cambierebbe in maniera significativa l’intero sistema di valori su cui si basa Israele, perché smantellerebbe l’equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario e rischierebbe di trasformare lo stato in un’autocrazia religiosa, in cui partiti ultraortodossi e di estrema destra sono in grado di “dettare legge” su molte questioni.
Sul quotidiano israeliano Haaretz, l’analista israeliano Yossi Verter ha scritto che Netanyahu «si è sganciato dall’Israele democratico, liberale, progressista, illuminato e occidentale» per «stringere un patto di sangue con lo Stato razzista, messianico, ultraortodosso e nazionalista della Giudea».
A questo proposito molte delle persone che hanno protestato in questi giorni hanno detto di manifestare per motivi anche scollegati dall’immediata questione della riforma della giustizia: ad esempio per la difesa dei diritti delle donne, della comunità LGBT+ o della popolazione israeliana araba. Sono tutte categorie che secondo molti israeliani è possibile rispettare e tutelare solo in presenza di un sistema politico democratico, lontano dal tipo di società sostenuto dai partiti di estrema destra e ultraortodossi che appoggiano Netanyahu e la sua riforma.
Altre preoccupazioni riguardano le conseguenze che la riforma potrebbe avere sull’attuazione di politiche ostili e violente nei confronti dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, il territorio che Israele occupa dal 1967 ma che secondo la maggioranza della comunità internazionale appartiene ai palestinesi. Senza contrappesi, il governo potrebbe agire in maniera indisturbata perseguendo obiettivi sempre più radicali.
Questi obiettivi sono sostenuti in modo molto esplicito da alcuni partiti della coalizione del governo di Netanyahu. Uno di questi è Otzma Yehudit (Potere ebraico), di estrema destra e convinto sostenitore della riforma della giustizia. Yehudit sostiene che «i nemici di Israele» debbano emigrare «per preservare il carattere ebraico dello Stato di Israele», e chiede l’annessione della Cisgiordania, dove vivono più di 2,5 milioni di palestinesi e in cui negli ultimi mesi si sono nuovamente intensificati scontri e uccisioni in operazioni militari israeliane. Su Haaretz l’analista Yaakov Or ha definito la riforma del sistema giudiziario di Netanyahu un «cavallo di troia per l’annessione della Cisgiordania».
Parlando della riforma, lo scrittore e storico israeliano Noah Harari ha parlato del rischio che sorga «una dittatura ebraica suprematista in Israele, che sarebbe terribile per i cittadini israeliani, ma anche per i palestinesi, per le tradizioni ebraiche, e potenzialmente anche per l’intero Medio Oriente».