L’assalto alla caserma Moncada di Santiago di Cuba, dove iniziò la rivoluzione cubana
L'operazione guidata da Fidel Castro, compiuta 70 anni fa, fu un disastro militare ma poi si rivelò un successo politico
Il 26 luglio a Cuba si festeggia il Día de la Rebeldía Nacional (giorno della ribellione nazionale), e il “Movimento 26 luglio” è anche il nome dell’organizzazione politica che fece la rivoluzione cubana nel 1959. La data a cui si fa riferimento è quella del 26 luglio 1953, settant’anni fa, quando Fidel Castro guidò l’attacco alla caserma Moncada di Santiago di Cuba, la seconda città più importante dell’isola (la prima è L’Avana, la capitale). L’operazione, che avrebbe dovuto essere l’inizio di un’insurrezione su ampia scala contro il regime del dittatore Fulgencio Batista, fallì. Fidel Castro e suo fratello Raúl furono arrestati e poi condannati a 15 anni di prigione, ma l’assalto si trasformò di fatto in un successo politico: rese celebri Castro e le sue ambizioni rivoluzionarie e oggi è considerato l’inizio della rivoluzione che riuscì a rovesciare il regime.
Fidel Castro al tempo era un giovane avvocato e un militante del Partito Ortodosso, formazione nazionalista e riformista presente sull’isola dal 1947, con al suo interno alcune correnti marxiste che diventarono maggioritarie dopo il colpo di stato del generale Batista nel 1952. Batista aveva dominato la scena politica cubana già prima del golpe, a partire dagli anni Quaranta quando fu eletto presidente, e poi continuò negli anni Cinquanta da dittatore. Nonostante le tendenze autoritarie, Batista aveva il sostegno politico ed economico del governo statunitense per il suo ruolo nella repressione del movimento comunista locale.
Dopo un tentativo di denunciare Batista in tribunale per aver violato la Costituzione, Fidel Castro si convinse della necessità di un’insurrezione armata: elaborò quindi un piano segreto, il cui obiettivo era stato condiviso solo con tre persone, per attaccare la caserma Moncada, che ospitava circa 400 soldati. La Moncada fu scelta per motivi simbolici (nella storia di Cuba insurrezioni e rivoluzioni erano sempre partite da Santiago, per diverse ragioni) e per questioni logistiche: la caserma e la città erano sufficientemente isolate dal grosso dell’esercito di Batista, che sarebbe dovuto arrivare dall’Avana.
Secondo i piani di Castro, questo avrebbe dato il tempo di organizzare le difese e di ricevere l’appoggio dalla popolazione di Santiago, che sarebbe dovuta insorgere dopo la conquista della caserma.
I preparativi per l’operazione furono piuttosto dilettanteschi, come era inevitabile per un gruppo di giovani che aveva esperienze militari molto limitate e che proveniva per lo più dalle fila del partito. Fu organizzata una colletta per coprire le spese: l’acquisto di armi, uniformi e auto (qualcuna fu rubata) e l’affitto di due abitazioni che avrebbero dovuto fare da base a Santiago. La madre di Fidel Castro contribuì con 116 dollari, pur non sapendo a cosa fossero destinati, e fra i principali finanziatori ci fu Naty Revuelta, proveniente da un ricca famiglia cubana e amante di Fidel (ebbero insieme una figlia, Alina Fernandez Revuelta, oggi attivista anticomunista a Miami, negli Stati Uniti). Sul mercato si trovarono solo fucili da tiro sportivo di piccolo calibro, pistole e doppiette da caccia, ma nessuna arma da guerra.
Come data fu scelta domenica 26 luglio perché era quella del Carnevale di Santiago: la festività e le celebrazioni avrebbero permesso ai 135 guerriglieri di arrivare in città senza dare nell’occhio, mentre si supponeva che molti dei soldati della caserma sarebbero stati altrove per partecipare alla festa (come in effetti avvenne). Nonostante i dettagli fossero stati tenuti segreti fino al giorno precedente, i servizi segreti di Batista erano venuti a conoscenza di un imminente attacco, pur non sapendo la data, e avvertirono i comandi della caserma.
Nelle ore precedenti all’assalto Fidel Castro spiegò ai guerriglieri il piano che prevedeva la divisione in tre gruppi: uno maggiore da 60-70 uomini avrebbe assaltato la caserma, altri due minori avrebbero preso i vicini ospedale e palazzo di Giustizia, da dove avrebbero appoggiato l’azione sparando coi fucili.
Una decina di cospiranti disertarono prima della partenza della carovana di 16 auto, che ebbe subito problemi. Una vettura si fermò in avaria, altre sbagliarono strada o si persero e non arrivarono mai all’obiettivo. Il gruppo maggiore guidato da Fidel Castro puntava sull’effetto sorpresa, ma incrociò un’inattesa pattuglia: iniziò una sparatoria che allertò i soldati della caserma. Il secondo gruppo, in cui era presente il fratello Raúl, occupò il palazzo di Giustizia, ma scoprì di non avere da lì un angolo di tiro buono per sparare alla caserma e risultò quindi inutile. Il terzo incontrò resistenza all’ospedale. Solo una delle auto, con cinque occupanti, riuscì a entrare nella caserma ma diventò un facile bersaglio per i soldati all’interno, molto più numerosi e meglio armati: tre assaltanti morirono negli scontri, altri due furono catturati e uccisi in seguito.
Fidel Castro rimase fuori dalla caserma Moncada: dopo circa venti minuti dall’inizio dell’operazione, che stava diventando “suicida”, ordinò la ritirata. I vari gruppi però non erano in comunicazione fra loro e solo chi era fisicamente vicino a Castro o chi decise autonomamente di andarsene seppe della ritirata: il gruppo dell’ospedale, guidato da Abel Santamaría, continuò la battaglia fino a quando fu costretto ad arrendersi.
Nell’operazione nel complesso furono uccisi 18 soldati dell’esercito di Batista e 9 guerriglieri. I morti sarebbero diventati però molti di più nelle ore e nei giorni successivi, perché il colonnello Alberto del Rio Chaviano, al comando della caserma, ordinò che tutti i prigionieri fossero uccisi: le esecuzioni immediate furono 42, altri 10 insorti furono catturati e uccisi in seguito.
Fidel Castro fu trovato e arrestato cinque giorni dopo, così come il fratello Raúl: la grande indignazione popolare per le esecuzioni dei prigionieri fece sì che il dittatore Batista in prima persona ordinasse che non si usasse violenza nei suoi confronti. Fu istituito un processo che grazie alla grande abilità oratoria di Castro si trasformò in un atto d’accusa contro la dittatura, denunciando in particolare le violenze, le torture e le uccisioni dei guerriglieri. Furono discorsi che Castro poi rielaborò nel libro La storia mi assolverà, aggiungendo anche parti non pronunciate e frasi diventate celebri.
Nascemmo in un paese libero che ci lasciarono i nostri padri, e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno […]. In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo, così come non temo la furia del tiranno miserabile che ha preso la vita a settanta fratelli miei.
[…] Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà.
Fidel, Raúl e altri 28 combattenti furono condannati al carcere. La pena per Castro fu di 15 anni. Dopo 22 mesi passati in una prigione considerata “modello” Batista concesse la grazia a tutti gli assalitori in parte su pressione dell’opinione pubblica e in parte perché probabilmente non considerava davvero una minaccia il gruppo di Castro. Tornato all’Avana, però, Castro iniziò a dare interviste e fare dichiarazioni pubbliche aumentando il proprio seguito: fondò il “Movimento 26 luglio”, che gestiva in modo piuttosto autocratico.
Di fronte a una aumentata repressione del dissenso, nel 1955 Castro se ne andò da Cuba, prima negli Stati Uniti e poi in Messico, da dove progettò la rivoluzione. Rientrato clandestinamente nel suo paese, Castro diede inizio alla guerriglia di cui facevano parte tra gli altri Ernesto “Che” Guevara, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: cinque anni e mezzo dopo quel 26 luglio, il 1 gennaio 1959, i guerriglieri castristi entrarono a L’Avana vittoriosi. Qualche giorno dopo, l’8 gennaio 1959, Raúl Castro conquistò anche la caserma Moncada di Santiago. Un anno più tardi la struttura militare fu riconvertita in una scuola per 2mila bambini, ancora oggi funzionante e recentemente ristrutturata proprio in occasione delle celebrazioni per i 70 anni dell’assalto. All’interno del complesso c’è anche un museo che ricorda l’operazione di quel 26 luglio.
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