La sentenza della Corte Costituzionale sulla fecondazione assistita, spiegata
È quella che riguarda la possibilità dell'uomo di cambiare idea dopo la fecondazione dell'ovulo, ed è una questione complicata
Lunedì la Corte Costituzionale si è espressa su una questione complessa e discussa da tempo relativa alla fecondazione assistita, l’insieme di tecniche che permette di fare figli a chi non ci riesce in modo naturale. La questione riguarda la possibilità per l’uomo di togliere il consenso alla pratica dopo che l’ovulo è già stato fecondato. La legge italiana prevede che non possa farlo: se lui e la compagna hanno creato un embrione con la fecondazione assistita, lo hanno congelato per usarlo in un momento successivo e poi si separano, la donna può impiantarlo nel proprio utero per iniziare una gravidanza anche contro la volontà del suo ex compagno, e chi nascerà sarà giuridicamente figlio di entrambi.
Il divieto di revocare il consenso alla fecondazione assistita dopo che l’ovulo è stato fecondato è contestato da tempo soprattutto perché può obbligare una persona a diventare genitore contro la propria volontà. Per questo è stato oggetto di alcune sentenze, sia in Italia che all’estero, con esiti diversi.
Nel caso di lunedì, la Corte Costituzionale era stata chiamata a esprimersi dal tribunale di Roma, che aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale sul divieto (in altre parole la Corte doveva dire se il divieto fosse contrario o no alla Costituzione). Lunedì la Corte ha dato il proprio parere e ha definito il divieto legittimo e fondato, basandosi soprattutto su due principi: la libertà della donna di decidere se diventare madre, indipendentemente dalla volontà dell’ex compagno, e la tutela della «dignità dell’embrione» in quanto «ha in sé il principio della vita».
La sentenza è stata accolta da alcuni come un passo avanti sulla libertà della donna, ma la questione è più complessa di così.
Il divieto di revocare il consenso è contenuto nell’articolo 6 della legge 40 del 2004, quella che in Italia regolamenta la possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita. In astratto si parla del consenso di una qualsiasi delle persone della coppia: ma tenendo conto che la legge italiana permette la procreazione assistita solo alle coppie eterosessuali, e che non sono ancora mai emerse controversie legate a uomini trans in grado di portare avanti una gravidanza, nel concreto si parla del consenso dell’uomo all’impianto in utero dell’embrione da parte della donna con cui lo ha creato.
Il caso che ha portato alla sentenza della Corte Costituzionale riguardava un uomo e una donna che nel 2017 avevano fatto ricorso alla fecondazione assistita per poter avere figli. A suo tempo l’embrione era stato congelato perché la donna, che aveva l’endometriosi, non poteva impiantarlo subito perché doveva sottoporsi ad alcune cure. Due anni dopo i due si erano separati e con la separazione non c’era più alcun progetto condiviso di diventare genitori. Nel 2020 la donna si era però rivolta alla clinica per procedere comunque con l’impianto in utero dell’embrione.
Alla richiesta della donna si erano opposti sia l’ex marito che la clinica in cui era stato avviato il trattamento: il caso era finito al tribunale di Roma, che aveva rinviato la questione alla Corte Costituzionale.
Secondo la difesa dell’uomo, il divieto di revocare il consenso dopo che l’ovulo è stato fecondato «incide sul diritto all’autodeterminazione», «non tutela il diritto di scelta all’assunzione del ruolo genitoriale» e vìola gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quelli sui diritti inviolabili, la dignità e la libertà personale dell’individuo e l’impossibilità di sottoporlo a trattamenti sanitari contro la sua volontà, se non per disposizioni di legge. Il divieto, sempre secondo la difesa dell’uomo, violerebbe anche l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che prevede che ogni persona abbia diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, senza ingerenze da parte di un’autorità pubblica.
La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità sollevata dal tribunale di Roma. Ha stabilito inoltre che il divieto per l’uomo di revocare il consenso alla fecondazione assistita dopo che l’ovulo è già stato fecondato è legittimo. Nella pratica, quindi, non cambia nulla.
Dei due principi utilizzati dai giudici della Corte Costituzionale per difendere il divieto in vigore, il primo riguarda la libertà della donna. Secondo la Corte, il suo livello di coinvolgimento fisico e psicologico nella fecondazione assistita è molto maggiore rispetto a quello dell’uomo. La donna deve sottoporsi al prelievo degli ovuli, con una procedura invasiva che richiede un’anestesia e che è molto più complicata del prelievo dello sperma dell’uomo (che concretamente non è altro che un’eiaculazione). L’eventuale prosecuzione della fecondazione assistita prevede inoltre l’impianto dell’embrione e la gravidanza, che l’uomo non deve portare avanti.
Secondo i giudici questa differenza è sufficiente per trarre almeno due conclusioni. La prima è che la revoca del consenso dell’uomo alla fecondazione assistita potrebbe avere ripercussioni molto negative sulla salute psicofisica della donna, che aveva accettato di sottoporsi a una procedura così invasiva anche in virtù di quel consenso. La seconda è che, a differenza di quello che sosteneva la difesa, l’eventuale impianto in utero dell’embrione non può essere visto come un “trattamento sanitario obbligatorio” per l’uomo, che è una cosa che non si può fare ad eccezione di casi molto particolari.
I giudici hanno inoltre ricordato che le linee guida diffuse dal ministero della Salute nel 2015 sulla fecondazione assistita dicono che la donna «ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati».
Questo primo insieme di motivazioni insiste molto sulla libertà della donna e sulla tutela delle sue volontà: per questo, la sentenza della Corte Costituzionale è stata accolta anche come un passo avanti sui diritti e sull’autodeterminazione della donna. Ma c’è un secondo insieme di ragioni per cui i giudici hanno stabilito che è giusto che l’uomo non possa cambiare idea sull’impianto in utero dell’embrione dopo la fecondazione dell’ovulo: è la parte più discussa e contestata da alcuni bioeticisti che nel tempo si sono occupati della questione. Ed è anche il motivo per cui, in sentenze di tribunali esteri, è stata data ragione all’uomo, difendendo la sua libertà di autodeterminarsi a non diventare padre e a revocare il consenso in qualsiasi momento della procedura di fecondazione assistita.
Nella sentenza della Corte Costituzionale i giudici hanno sostenuto che quando l’uomo firma il consenso informato alla fecondazione assistita accetta automaticamente una serie di conseguenze, compresa quella dell’impianto dell’embrione e di eventuali responsabilità che ne conseguono, come quella di avere un figlio. Per questo, secondo i giudici, l’irrevocabilità del consenso serve a tutelare l’eventuale nato e a «sottrarre il [suo] destino giuridico ai mutamenti» della volontà delle persone che hanno contribuito a formare l’embrione da cui è originato.
I giudici, in altre parole, hanno detto due cose: che l’uomo non può cambiare idea una volta superata una certa fase del trattamento di fecondazione assistita, e che superata quella fase l’embrione deve essere visto come un essere umano in divenire, e quindi da tutelare. I giudici hanno parlato esplicitamente di «dignità dell’embrione crioconservato» e del fatto che la fecondazione assistita «mira a favorire la vita».
Secondo alcuni bioeticisti, questo ragionamento è troppo concentrato sulla tutela dell’embrione a discapito del diritto dell’uomo di decidere in ogni momento se voglia o meno diventare genitore. Il rischio è di «assicurare una tutela prevalente del diritto alla vita e allo sviluppo dell’ovocita fecondato […] rispetto a qualsiasi altro interesse proveniente dai vari soggetti coinvolti», come ha detto Gianni Baldini, che insegna Biodiritto all’Università di Firenze, commentando proprio il caso su cui la Corte si è espressa lunedì.
In altri paesi il consenso può essere tolto in qualsiasi momento della procedura di fecondazione assistita. L’idea è che il diritto delle persone esistenti sia prevalente sul presunto diritto dell’embrione a diventare persona. Uno di questi paesi è il Regno Unito, da cui anni fa era partito un caso finito nel 2007 alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che era arrivata a conclusioni contrarie rispetto alla Corte Costituzionale italiana. La Corte Europea aveva dato ragione all’uomo proprio basandosi sul fatto che nella legge britannica sulla procreazione assistita è indicato chiaramente che il consenso può essere revocato anche dopo la fecondazione dell’ovulo (ma non dopo l’impianto in utero).
Secondo la Corte Europea, procedere con l’impianto in utero dell’embrione contro la volontà dell’uomo avrebbe violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (cioè il trattato internazionale che istituì la stessa Corte). La Corte aveva ritenuto che sarebbe stato illegittimo obbligare l’uomo a diventare genitore contro la propria volontà, con tutte le responsabilità legali ed economiche che questo comporta, sulla base di un consenso dato anni prima e non più aggiornato.
– Leggi anche: Le donazioni di ovuli e spermatozoi devono essere anonime?
L’irrevocabilità del consenso è per ovvie ragioni una questione molto complessa e delicata, in cui si sovrappongono diversi interessi: la libertà della donna di autodeterminarsi a diventare madre, la tutela dell’uomo di autodeterminarsi a non diventare padre (se questo è il caso), i diritti e le tutele del nato a seguito della fecondazione assistita, e infine il modo in cui si considera l’embrione congelato (il livello di “personalizzazione” dell’embrione è una questione ampiamente discussa anche in altri ambiti, come il diritto all’aborto).
Per capire bene la sentenza della Corte Costituzionale di lunedì bisogna anche tenere a mente un’altra cosa: il divieto di togliere il consenso dopo che l’ovulo è stato fecondato è stato introdotto quando era in vigore anche un altro divieto, quello di congelare gli embrioni, che inizialmente andavano impiantati «non appena possibile». Quel divieto fu rimosso nel 2009, cambiando completamente gli scenari possibili: congelando gli embrioni, infatti, potevano crearsi situazioni in cui dalla fecondazione al suo eventuale impianto passava molto tempo, in cui nel frattempo potevano esserci separazioni, divorzi o cambi di idee sul progetto genitoriale.
In Italia la procreazione assistita è permessa solo alle coppie eterosessuali, sposate o conviventi. La legge 40 del 2004 fu approvata durante il secondo governo Berlusconi, è tra le più restrittive d’Europa ed è ampiamente criticata per i vari divieti che contiene. Parte di questi divieti, incluso quello di fecondazione eterologa (cioè praticata col ricorso alla donazione esterna di gameti, ovuli o spermatozoi), sono stati rimossi grazie a ricorsi e a sentenze di tribunali. Restano però ancora in vigore il divieto di accesso alle tecniche di procreazione assistita per persone single e coppie dello stesso sesso, quello di ricorrere alla gestazione per altri (quando una persona porta avanti una gravidanza per conto di altre persone) e quello di donare gli embrioni alla ricerca scientifica.
– Leggi anche: Come parlare della donazione ai figli nati con la fecondazione eterologa