Perché il caso del suicidio assistito di Gloria è importante
Per la prima volta l’ASL ha ritenuto «trattamenti di sostegno vitale» anche i farmaci che prendeva, al pari di un respiratore
Domenica è morta Gloria, una paziente oncologica di 78 anni che aveva fatto richiesta di suicidio assistito, la pratica con cui a determinate condizioni ci si auto-somministra un farmaco letale. La morte di Gloria, il cui cognome non è noto, è rilevante per almeno due ragioni: la prima è che Gloria è la seconda persona in Italia che ha potuto ottenere la verifica dei propri requisiti e le indicazioni sul farmaco da assumere senza passare per un tribunale, come successo in altri casi. La seconda è che l’azienda sanitaria locale che ha valutato il suo caso ha riconosciuto come “trattamenti di sostegno vitale” i «farmaci antitumorali mirati» che assumeva, e senza i quali sarebbe morta.
In sintesi, secondo i medici la chemioterapia era da intendersi come un “trattamento di sostegno vitale” al pari di un ventilatore o un respiratore automatico.
È un aspetto importante perché essere tenuti in vita da “trattamenti di sostegno vitale” è uno dei quattro requisiti necessari in Italia per poter accedere al suicidio assistito, e sulla sua definizione c’è dibattito da tempo. Anche per via di un’importante sentenza che ha esteso questa definizione ad altri trattamenti sanitari, per esempio farmacologici, che se interrotti possono portare alla morte del paziente, proprio come nel caso di Gloria.
I requisiti per poter far ricorso al suicidio assistito sono in tutto quattro: il fatto che la persona che fa richiesta sia in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, che sia affetta da una patologia irreversibile, che questa patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ritiene intollerabili (un criterio soggettivo e individuale) e, appunto, che sia tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale».
In Italia manca una legge nazionale sul fine vita. Questi requisiti non sono quindi contenuti in una legge, ma nella sentenza 242 della Corte Costituzionale, anche nota come “sentenza Cappato”, quella che nel 2019 ha reso legale in determinate condizioni il ricorso al suicidio assistito. Fu una sentenza storica, arrivata dopo anni di iniziative, di appelli e di disobbedienze civili: ma non essendo una legge, la sentenza stabilisce quando il suicidio assistito non è punibile, senza dare indicazioni chiare su come attuarlo e su cosa siano esattamente i trattamenti di sostegno vitale.
Nei casi in cui fin qui era stato richiesto l’accesso al suicidio assistito le aziende sanitarie locali avevano identificato il «trattamento di sostegno vitale» con la presenza di dispositivi fisici di idratazione e alimentazione artificiale: ventilatori, respiratori meccanici o PEG (Gastrostomia Endoscopica Percutanea, un dispositivo plastico che collega l’apparato gastrico all’esterno attraverso la parete addominale per permettere l’alimentazione artificiale).
Ci sono stati casi di persone ritenute prive del requisito di «trattamento di sostegno vitale», e che per questo non hanno potuto accedere legalmente al suicidio assistito in Italia. Un caso è stato quello di Daniela (che come Gloria non ha diffuso il proprio cognome), la prima persona a fare richiesta di suicidio assistito in Italia dopo la sentenza Cappato. Daniela era una donna di 37 anni affetta da un tumore incurabile in fase terminale: a febbraio del 2021 aveva fatto richiesta alla propria ASL di verificare le sue condizioni per poter accedere al suicidio assistito.
L’ASL si era rifiutata di farlo sostenendo – senza una visita – che non fosse tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Insomma, per la ASL i trattamenti farmacologici che prendeva Daniela non erano da ritenere trattamenti di sostegno vitale, a differenza del caso di Gloria. Daniela aveva quindi fatto ricorso al tribunale di Roma chiedendo la verifica dei requisiti, come previsto dalla sentenza Cappato, ma era morta due settimane prima della prima udienza fissata.
La mancanza del requisito del trattamento di sostegno vitale è stata inoltre al centro di una serie di casi di disobbedienza civile dell’ultimo anno. Tre sono stati quelli di Elena Altamira, Romano e Massimiliano (di Romano e Massimiliano non è noto il cognome): una donna di 69 anni affetta da una patologia polmonare irreversibile, un uomo di 82 malato di Parkinson e un uomo di 44 affetto da sclerosi multipla e paralizzato in gran parte del corpo. In tutti questi casi parliamo di persone che non erano tenute in vita da “trattamenti di sostegno vitale” intesi come in precedenza e che quindi, pur avendo patologie irreversibili, fonti di profonde sofferenze ed essendo in grado di intendere e di volere, erano dovute andare all’estero per morire nel modo in cui avevano scelto.
Erano stati accompagnati in Svizzera da Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, da Chiara Lalli, giornalista e bioeticista, e da Felicetta Maltese, attivista dell’associazione Luca Coscioni. Cappato, Lalli e Maltese si erano successivamente autodenunciati per il reato di aiuto al suicidio, che punisce con una pena da 5 a 12 anni di carcere «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Per ora nessuno dei tre casi ha ancora avuto un seguito.
Il caso di disobbedienza civile che finora ha avuto uno sviluppo più concreto sulla definizione di “trattamenti di sostegno vitale” è stato però quello di Paola, una donna di 89 anni affetta dal morbo di Parkinson a uno stadio «che le impediva quasi completamente di muoversi e anche di parlare», aveva detto l’associazione Luca Coscioni. Paola era stata accompagnata in Svizzera lo scorso febbraio da Maltese e da Virginia Fiume, attivista e co-presidente del movimento EUMANS, che si occupa di diritti umani.
Nel caso di Maltese e Fiume, la procura di Bologna, la città in cui si erano successivamente autodenunciate, aveva chiesto l’archiviazione del caso motivando la propria richiesta proprio con una definizione più ampia di “trattamento di sostegno vitale”, intesa come «comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida».
Nel motivare la richiesta di archiviazione, la procura di Bologna si è esplicitamente riferita all’importante sentenza che per la prima volta aveva esteso il concetto di “trattamento di sostegno vitale” anche ai farmaci. Quella sentenza fu pronunciata a luglio del 2020 dalla Corte di Assise di Appello di Genova: confermò l’assoluzione dal reato di aiuto al suicidio di Marco Cappato e Mina Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, per aver accompagnato in Svizzera Davide Trentini, un uomo di 53 anni malato di sclerosi multipla che il 13 aprile del 2017 aveva fatto ricorso al suicidio assistito a Basilea.
Nella sentenza i giudici scrissero che il fatto non sussisteva perché anche in assenza di un respiratore, un ventilatore o di una PEG, la situazione di Trentini era da intendersi come dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Anche se la patologia di Trentini «non richiedeva il ricorso a macchinari», scrissero i giudici, «il trattamento farmacologico era per lui essenziale per la sopravvivenza, perché se non lo avesse assunto si sarebbe fatalmente alterato il delicato equilibrio che gli permetteva di sopravvivere». A suo tempo la sentenza della Corte di Assise di Appello di Genova fu considerata importante per il precedente che creava, e il caso di Gloria in Veneto ne è un esempio. Non ci sono invece ancora state pronunce sulla richiesta di archiviazione di Fiume e Maltese.
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