La tecnica per far piovere di più
Il cloud seeding, che stimola artificialmente le precipitazioni, è visto con scetticismo ma è sempre più richiesto per mitigare gli effetti della siccità
Il cloud seeding, in italiano qualcosa come “inseminazione delle nuvole”, è una tecnica di stimolazione artificiale delle piogge basata sulla diffusione di getti di ioduro d’argento o di ghiaccio secco (anidride carbonica allo stato solido) all’interno di determinate nuvole, da aerei appositi o tramite cannoni da terra. È nota in meteorologia fin dagli anni Cinquanta, ma esistono da tempo dubbi e perplessità sulla sua efficacia e sulla sua concreta utilità. Per questo motivo, nel corso dei decenni, il suo utilizzo è sostanzialmente rimasto un fenomeno di nicchia.
Da qualche tempo, anche a causa dell’intensificazione dei fenomeni associati al cambiamento climatico, il cloud seeding è tuttavia considerato da un crescente numero di agenzie governative, agricoltori e imprenditori un modo relativamente abbordabile di mitigare alcuni effetti a breve termine dei prolungati periodi di siccità. Ad aziende che offrono servizi di questo tipo ricorre da tempo il governo degli Emirati Arabi Uniti, un paese molto poco piovoso. Ma ultimamente la richiesta è aumentata anche negli Stati Uniti occidentali e in Messico, dove il cloud seeding è visto come un’alternativa più economica a tecnologie più impegnative come la desalinizzazione dell’acqua pompata nell’entroterra dall’Oceano Pacifico o dal Golfo del Messico.
In Italia, dove esperimenti di stimolazione artificiale della pioggia furono condotti per alcuni anni in Puglia, Sicilia, Sardegna e Basilicata, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il cloud seeding è generalmente tradotto come “inseminazione delle nuvole”. La sperimentazione diede buoni risultati soltanto nel primo anno, in Puglia: una media del 30 per cento in più di precipitazioni rispetto alla media cinquantennale nell’area di intervento. Dopo il primo anno una prolungata siccità condizionò i risultati dell’esperimento, riducendo drasticamente la presenza di sistemi nuvolosi adatti a stimolare le precipitazioni e mostrando uno dei principali limiti di questa tecnica.
In sostanza ogni attività di cloud seeding richiede prima di tutto l’individuazione di nuvole sufficientemente cariche di umidità e adatte anche per altre caratteristiche, in cui iniettare le sostanze in grado di favorire la condensazione del vapore e aumentare le precipitazioni. «È come prendere una spugna gocciolante e strizzarla», ha spiegato al Wall Street Journal Jonathan Jennings, meteorologo della West Texas Weather Modification Association, un’associazione che su autorizzazione dello stato del Texas si occupa fin dagli anni Novanta di un progetto di induzione delle piogge in sei contee occidentali.
Secondo dati condivisi dall’associazione il cloud seeding è in grado di aumentare del 15 per cento le piogge annuali in una determinata area, rispetto ai livelli normali. E questo aumento si traduce in circa 50 mm di precipitazioni in più all’anno: acqua che può essere utilizzata per irrigare le coltivazioni durante i periodi di siccità e in generale per ricaricare le falde acquifere sotterranee, a cui attingono agricoltori, allevatori e residenti nelle zone rurali del Texas occidentale. Altri utilizzi del cloud seeding – meno comuni ma in alcuni casi di lunghissima durata, come in Colorado – riguardano l’induzione di nevicate più abbondanti nelle stazioni sciistiche.
L’idea del cloud seeding risale alla fine della Seconda guerra mondiale: nel novembre 1946 il chimico e meteorologo statunitense Vincent Schaefer, dopo aver condotto diversi studi ed esperimenti sulla formazione del ghiaccio in alta quota, riuscì a stimolare la formazione di cristalli di ghiaccio tramite la dispersione di ghiaccio secco all’interno di una nube nelle montagne del Berkshire, in Massachusetts. Schaefer lavorava da anni nell’impianto di ricerca industriale della General Electric, a Schenectady, nello stato di New York, e lì aveva avuto l’opportunità di collaborare stabilmente con il fisico e chimico statunitense Irving Langmuir, che nel 1932 aveva vinto il premio Nobel per le sue ricerche nell’ambito della chimica delle superfici.
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Ogni nube è formata da miliardi di goccioline d’acqua, che evapora da oceani, mari, corsi d’acqua, suolo e vegetazione. Perché si formi la pioggia è necessario che il vapore acqueo portato verso l’alto dalle correnti ascensionali e contenuto nell’atmosfera terrestre si condensi intorno ai nuclei di condensazione: minuscole particelle igroscopiche – cioè in grado di assorbire molecole d’acqua – che permettono alle goccioline di cui è composta la nube di aumentare di volume. Questo fa sì che la forza di gravità esercitata sulle goccioline diventi a un certo punto maggiore delle forze ascensionali che agiscono all’interno della nube, determinando l’effettiva caduta della pioggia (o della neve, a seconda della temperatura in quota).
In pratica Schaefer scoprì, un po’ per caso e dopo vari tentativi, che il ghiaccio secco poteva fungere da nucleo di condensazione e favorire la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno della nube. Anche un altro suo collega alla General Electric, lo statunitense Bernard Vonnegut, peraltro fratello maggiore dello scrittore Kurt, lavorò alla ricerca sul cloud seeding. E scoprì che lo ioduro d’argento, un composto dalla struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio, poteva essere utilizzato al posto del ghiaccio secco e ancora più efficacemente per produrre pioggia e neve.
Nonostante la scoperta fosse stata accolta con entusiasmo da Schaefer, Langmuir e Vonnegut, e nonostante la tecnica fosse anche relativamente economica, il cloud seeding non attirò un esteso interesse da parte di governi e agenzie. O perlomeno non quello che ci si aspetterebbe che si sviluppi intorno a una scoperta potenzialmente in grado di modificare il clima. Negli Stati Uniti, come raccontato nel 2010 dallo Smithsonian, un fatto avvenuto nel 1947 in Florida condizionò in parte la percezione pubblica della scoperta.
In uno dei suoi numerosi esperimenti con il ghiaccio secco e le nubi, Langmuir volle verificare l’ipotesi che il cloud seeding potesse servire a disperdere l’energia degli uragani prima che si abbattano a terra, “prosciugando” le nuvole prima che si spostino verso i centri abitati. La mattina del 13 ottobre 1947, due giorni dopo che un uragano aveva colpito Miami per poi perdere potenza e spostarsi verso Jacksonville, Langmuir fece spargere un’ottantina di chilogrammi di ghiaccio secco da un Boeing B-17 dell’aeronautica statunitense mentre l’aereo, decollato da una base militare a Tampa, volava circa 150 metri sopra la tempesta. Una volta conclusa l’operazione il B-17 tornò alla base.
La tempesta, che fino a quel momento si era spostata verso nord-est e aveva perso potenza, riprese slancio e si diresse verso la costa atlantica per poi abbattersi a terra vicino a Savannah, in Georgia. L’uragano causò danni per decine di milioni di dollari e provocò la morte di alcune persone. Nel giro di qualche giorno cominciarono a circolare sui giornali locali informazioni e racconti sull’operazione del B-17. I militari non condivisero dettagli sul volo, ma negarono che l’esperimento avesse potuto in alcun modo deviare la tempesta. Pur in mancanza di dati su cui basare una correlazione tra la forza e la direzione dell’uragano e il volo del B-17, l’esperimento di Langmuir influenzò l’opinione pubblica riguardo a quei primi tentativi di modificare artificialmente il clima.
Un’altra ragione dello scetticismo che da sempre circola intorno al cloud seeding riguarda il fatto che non sia possibile avere alcuna prova definitiva della sua efficacia: come ha detto a The Hustle una persona che lavora nel settore, «non è che stai creando fiocchi di neve di colore diverso». In altre parole, dal momento che il tempo è imprevedibile, non è possibile avere alcuna certezza che nell’area in cui ghiaccio secco o ioduro d’argento sono stati diffusi nelle nuvole non avrebbe piovuto o nevicato comunque, anche senza cloud seeding.
Lo scetticismo non ha tuttavia impedito che nel corso degli anni nascessero diverse società che si occupano di cloud seeding, tra cui la Seeding Operations and Atmospheric Research (SOAR), che lavora da oltre un decennio nel programma di induzione delle piogge nelle contee aderenti del Texas occidentale, con contratti da 300mila dollari all’anno.
Secondo un dipendente della SOAR sentito da The Hustle l’intera industria statunitense del cloud seeding non supera i 10 milioni di dollari all’anno, il che lo rende in ogni caso un settore ancora abbastanza di nicchia. Altre società lavorano sia negli Stati Uniti che all’estero. La Weather Modification Inc., con sede nel North Dakota, è considerata la più grossa nel settore e ha contratti multimilionari in tutto il mondo, incluso un accordo a lungo termine con l’Arabia Saudita.
Società come la SOAR e la Weather Modification Inc. utilizzano principalmente ioduro d’argento (ma anche ioduro di potassio o ghiaccio secco), che viene disperso in volo da aeroplani di piccole e medie dimensioni. Sono guidati da piloti abili a muoversi tra nuvole cariche di umidità e che di solito nei voli normali, sia per comodità che per sicurezza, si cerca perlopiù di evitare.
Un’altra tecnica di cloud seeding è quella che utilizza le stesse sostanze ma erogandole da terra, in alcuni casi tramite mezzi di artiglieria. Nel 2008, in occasione dei Giochi olimpici a Pechino, circolarono a lungo le immagini di dipendenti pubblici impegnati a utilizzare cannoni antiaerei e lanciarazzi caricati a ioduro d’argento per indurre le piogge nelle periferie e disperdere nuvole che avrebbero potuto raggiungere il centro e disturbare la cerimonia di apertura. La Cina è uno dei paesi che investe di più nel cloud seeding: in totale circa 40mila persone per 500mila operazioni meteorologiche condotte tra il 2002 e il 2012.
In uno studio del 2017 tre ricercatori del dipartimento di Scienze dell’atmosfera e geografia dell’Università Nazionale di Taiwan (NTU) associarono i regimi autoritari a un maggiore utilizzo del cloud seeding. Notarono in generale nei paesi non democratici una maggiore ambizione dei governi a modificare il clima, un minore dissenso nell’opinione pubblica riguardo a queste tecniche e una minore capacità di verificare e controllare i risultati delle operazioni meteorologiche.
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L’efficacia del cloud seeding nel produrre un aumento statisticamente significativo delle precipitazioni continua a essere oggetto di dibattito accademico, con risultati di volta in volta contrastanti a seconda dello studio e degli esperti presi in considerazione. Nel 2018, dopo aver esaminato i diversi programmi di cloud seeding attivi nel mondo, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) definì il cloud seeding una tecnologia promettente ma affermò che la variabilità naturale in ogni sistema di nubi rende difficile quantificare quanto sia efficace.
Uno studio molto citato del 2014, condotto da diversi enti di ricerca per lo stato del Wyoming, stimò che le operazioni di cloud seeding erano riuscite a incrementare il livello delle precipitazioni del 5-15 per cento, ma il valore più alto riguardava soltanto i casi in cui erano comunque presenti condizioni ideali di partenza. E in ogni caso, come sintetizzato da The Hustle, «alcuni centimetri in più in una stagione non mettono fine a una siccità, né trasformano Phoenix in una palude».
Rispetto ad altri interventi molto costosi e impegnativi, come per esempio la costruzione di impianti di desalinizzazione o la deviazione del corso dei fiumi, il cloud seeding rimane una tecnica sicuramente più economica: che è anche una delle ragioni principali per cui la ricerca in materia continua in molti stati e paesi a essere finanziata. Ma anche i sostenitori più autorevoli concordano nel considerarla, nella migliore delle ipotesi, una tecnica con un impatto molto limitato sulle precipitazioni e praticamente nullo sugli effetti a lungo termine del cambiamento climatico. «Non facciamo piovere. Possiamo soltanto ottenere più pioggia dalle nuvole che Dio ci manda», ha detto un dipendente della SOAR.