Bilancio di una vita senza social

«Vent’anni sono abbastanza per tentare un bilancio sereno di questa mia non esperienza. È un bilancio soggettivo – non ci sono dati oggettivi da computare. Ma è un bilancio sincero e, per me, importante: perché sono sicuro che la mia scrittura “senza i social” sia molto differente da come sarebbe stata la mia scrittura “con i social”. E ho la presunzione di aggiungere che “con i social” sarebbe stata non solo diversa, ma anche peggiore. Spero di riuscire a spiegarvi perché»

USA, 1960 circa (H. Armstrong Roberts/Retrofile/Getty Images)
USA, 1960 circa (H. Armstrong Roberts/Retrofile/Getty Images)
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Avrò avuto ventidue anni, pochi problemi, molto entusiasmo: avevo lasciato senza rimpianti i miei stracchi studi universitari (lettere moderne) per lavorare in un quotidiano. La mia firma sul giornale mi sembrava un sogno, un obiettivo inimmaginabile fino a pochi mesi prima. Tra i miei primi articoli scrissi una breve cronaca sulla presentazione di un nuovo quiz di Mike Bongiorno. Mi convocò il caporedattore centrale.

«Leggi questa frase», disse mettendomi sotto il naso il mio articoletto. La lessi, mi pareva in italiano corretto e del tutto innocua. Non per lui: la frase conteneva la parola “omino”, riferita a un signore che smistava il pubblico nello studio televisivo.
«Se vuoi scrivere per l’Unità, ricordati che per i comunisti non ci sono “omini”. Tanto più se stai parlando di un lavoratore».

È passato quasi mezzo secolo ma ricordo ancora la sensazione, bruciante come un ceffone, di quel secco e inatteso rimprovero: e con una motivazione che non avrei saputo e potuto valutare da me solo – omino mi pareva un termine banalmente descrittivo. Uscendo da quell’ufficio avevo imparato qualcosa. E se mai, nel lungo cammino della mia scrittura, ho poi nuovamente usato la parola “omino”, è stato perché volevo proprio dire “omino”, sapendo bene quanto il termine avrebbe potuto urtare il suo destinatario e forse volendo proprio urtarlo. Si chiama: prendersi le proprie responsabilità, perdendo qualcosa in spensieratezza, però guadagnando parecchio nella capacità di maneggiare le parole valutandone bene il peso e il calibro. E adesso mettete da parte questa storiella. Ci tornerà utile alla fine di questo discorso.

Se, come dice Wikipedia, l’anno in cui i social network diventano un fenomeno di massa è il 2003, quest’anno festeggio il mio ventennale di assenza dai social. Quindici anni fa ho smesso di fumare, vent’anni fa non ho cominciato a chattare.

Vent’anni sono abbastanza per tentare un bilancio sereno di questa mia non esperienza. I fattori emotivi sono ampiamente decantati, quelli razionali si sono strutturati con il tempo. È un bilancio soggettivo – non ci sono dati oggettivi da computare, ricavi e perdite da confrontare, morti e feriti da contare – e dunque va preso con le molle. Ma è un bilancio sincero e, per me, importante: perché rimanermene lontano dai social (anche quando là si parlava di me, non importa se bene o male) è diventato, con il tempo, un connotato forte della mia vita personale e professionale. Sono sicuro che la mia scrittura “senza i social” sia molto differente da come sarebbe stata la mia scrittura “con i social”. E ho la presunzione di aggiungere che “con i social” sarebbe stata non solo diversa, ma anche peggiore. Spero di riuscire a spiegarvi perché.

Non crediate che non mi sia mai chiesto: sto perdendo qualcosa? Sicuramente sì, restando fuori dai social ho perso qualcosa, e alcune persone vicine me lo rimproverano spesso. Mi dicono che, in quel mare, avrei potuto pescare pesci altrove introvabili, conoscere persone intelligenti e spiriti liberi, storie non solo inedite, ma impubblicabili secondo i criteri dei media tradizionali. Parole che non avrebbero avuto sbocco possibile se non in quell’oceano. Pezzi di vita, pensieri eccentrici. E poi i giovani, accidenti, i giovani, che dei giornali non sanno cosa farsene e invece in quell’acqua nuotano a milioni, come fai a capire qualcosa dei giovani se non frequenti la stessa piazza dove loro si ritrovano? Come puoi sperare di capire che cosa dicono, se il tuo alfabeto ormai sta al loro come il carro di buoi sta alla Tesla?

Poteva capitare di “perdere qualcosa”, del resto, anche prima dei social. L’idea che, del mondo e delle persone, ci tocchi appena un assaggio, uno spicchio, è spietata quanto insormontabile. Il pigro e il viaggiatore sono sempre esistiti, e sicuramente il pigro ha visto e conosciuto molte meno cose e molte meno persone rispetto al viaggiatore. Ma il viaggiatore, se non è sciocco o superbo, sa bene che per quanto viaggi non vedrà che una piccola parte del tutto. E infine riconoscerà sportivamente al pigro – il suo opposto – una sua ratio. E una sua saggezza.

Alberto Arbasino, in una sublime e cinica recensione di non ricordo quale fastosa rappresentazione esotica (l’Opera di Pechino?) scrisse che gli aveva fatto tornare in mente una recita scolastica nella natia Voghera (l’illazione sottesa era: non sarà che, alla fine, tutto il mondo è solamente una immensa Voghera?). Il mio vicino di casa – per me un fratello acquisito – non ha mai visto il mare, ha le mucche e proprio non se la sente di lasciarle incustodite, e ogni volta che parto, dopo avermi chiesto dove vado, mi dice, con un sorriso che è anche molto autoironico: «Ma cosa vai a fare a Parigi, che qui abbiamo già tutto!». Me lo dice sulla porta della stalla con il forcale in mano, con muggiti e starnazzi di galline che gli fanno da coro. Sembra un film della Rohrwacher o di Giorgio Diritti – non lo è.

Ecco, partiamo proprio dalla pigrizia. È stata certamente la mia prima ispiratrice, quando arrivarono i social. Un’alzata di spalle di fronte al futuro che bussa alla tua porta. Certo, è una pigrizia che va inquadrata: con il lavoro che faccio, le mie relazioni con gli altri erano già molto fitte, e incombenti. Era già con una folla, che avevo a che fare. Una rubrica della posta sul Venerdì, molte decine di mail al giorno da anni e per anni, un’agenda fitta di impegni pubblici, una rubrica telefonica con migliaia di numeri. Molti amici, famiglia allargatissima. Non ero un anacoreta o un sociopatico, quando all’arrivo dei social esposi il cartello “torno subito” – e non tornai mai più. Ero già un tipo platealmente sociale, e non solamente per il grande numero di frequentazioni e di corrispondenze. Facevo un mestiere pubblico, scrivevo per un pubblico molto vasto (i quotidiani, vent’anni fa, vendevano quattro o cinque volte più di adesso), qualche volta andavo in televisione. Cuore era stato un grande successo. Ero popolare: sensazione gratificante ma anche un pochino opprimente. Aprire un ulteriore fronte (che nell’entusiasmo dei neofiti già si manifestava in tutta la sua nuova, straordinaria illimitatezza: c’è una piazza che è DI TUTTI, ma proprio DI TUTTI) un poco mi atterriva. Di tutti no, non voglio essere – diceva una vocina interiore garbata ma molto determinata. Solo di quelli che mi sono conquistato uno per uno scrivendo le mie cose. E che mi hanno conquistato uno per uno leggendomi. Mi bastano e mi avanzano.

«È un medium completamente nuovo», mi spiegavano, «è orizzontale, non ci sono pulpiti, non esiste l’ex cathedra, non ci sono autorevolezze pregresse, se non ti esponi a questo vento rivoluzionario sembri il tipico scriba con la puzza sotto il naso. Vuoi vivere di rendita o vuoi dare una nuova vita alle tue parole?». Forse volevo vivere di rendita – del resto erano già quasi trent’anni che lavoravo sodo. Forse non mi era oggettivamente possibile aggiungere alle mie giornate, già molto fitte, il tempo per chattare. Forse mi seccava l’idea di dover replicare a Cindy85. Forse – peggio – avevo paura che non Cindy85, ma qualcuna o qualcuno molto più tosto e preparato di me mi mettesse con le spalle al muro, dicendomi: hai scritto una cazzata. Sta di fatto che mentre vedevo uno dopo l’altro quasi tutti i giornalisti della mia leva aprire la loro bottega social, tra gli osanna di Cindy85 e le pernacchie di molti altri, dissi il mio «preferirei di no».

Fin qui, come dire, l’interpretazione “caratteriale” del mio non esserci. Ognuno è libero, ovviamente, di pensare che pesò, in quella scelta, anche il famoso «mi si nota di più se non ci sono». Può anche darsi. Ma come ho detto mi sentivo già abbastanza notato, vent’anni fa. Aggiungere un altro turno di esposizione al pubblico non era tra le mie priorità. Difendermi invece sì. Lo era. Cominciavo a spostare, in quegli anni, dalla città alla campagna la mia vita fisica – quella professionale avrebbe seguito, come un’ombra. Cercavo tempo e spazio, sognavo tempo e spazio. E una dose decente di silenzio, che non è proprio, per chi fa un lavoro mediatico, il più reperibile degli ingredienti. Non è per buttarla sullo spirituale, al contrario è il mio metabolismo a parlare: se devo cercare la misura giusta e le parole giuste per scrivere un articolo o un libro o un monologo o quant’altro, preferisco camminare nel bosco che stare in mezzo alla folla che rumoreggia nel fondo del mio Mac e del mio smartphone. Il passo della scrittura e il passo del camminatore hanno molte sintonie. In mezzo alla folla è bello perdersi, ma scrivere è un lavoro solitario. Non solo individuale: proprio solitario. E secondo voi uno che cerca silenzio va a cercarlo nei social?

Mi sono accorto con il tempo che difendere me stesso equivaleva a difendere il mio lavoro. La mia scrittura, la sua autonomia, la sua energia e la sua qualità, poche o tante che siano. E qui, esaurito il discorso sulle ragioni psico-emotive della mia assenza dai social, siamo entrati diritti in quelle politico-razionali.

I social sono una gigantesca interferenza. Nel bene e nel male. Tanto l’applauso scrosciante quanto lo shitstorm condizionano preventivamente le tue parole, rischiando di modificarle in partenza in previsione dell’effetto che faranno. Non scrivi più in solitudine, scrivi in moltitudine anche se non te ne rendi conto. Il giudizio del pubblico non è più dopo, è durante, già la scelta dell’argomento mette in preventivo gli evviva e gli abbasso che quel genere di discorso solleva, perché tu scrittore, tu giornalista, tu intellettuale hai da tempo sperimentato come funziona il sistema nervoso di quel corpaccione reattivo, vibrante e immenso (ci vivi dentro, ci scrivi dentro, ci leggi dentro) e sai come blandirlo e come disgustarlo. Se ne temi il disgusto badi a non irritarlo più del minimo indispensabile, sei più cauto di quello che saresti stato se il pubblico fosse rimasto, per te, uno sconosciuto. Hai paura del “loro” giudizio. Non osi sfidarlo. Se invece ne cerchi il consenso premi sui tasti dell’indignazione e della foga morale, sei più animoso di quanto saresti stato senza l’incitamento della folla. Sono convinto che non poche celebri firme degli ultimi anni abbiano alzato la temperatura delle loro parole, dei loro j’accuse, perché erano galvanizzate dall’eco immediata dei social.

Puoi cercare apposta lo scontro, viceversa puoi cercare di evitarlo, puoi calcolare vantaggi e svantaggi di quello che stai scrivendo (gli applausi e i fischi, gli elogi e gli insulti). Non in modo “matematico”, ovviamente, ma in proporzione alla tua dimestichezza con le varie cordate politiche e intellettuali che cavalcano l’onda.

Ovviamente è impossibile dire in quale misura questa “seconda scrittura”, che tiene conto nel suo farsi dell’effetto che fa, manipoli la “prima scrittura”, quella, diciamo, in chiaro. Quella che il lettore legge. Posso solo dire – da lettore – che sempre più spesso avverto il durante che condiziona le cose che leggo. Prendo atto di una matrice parzialmente “collettiva” della scrittura, e non nel senso creativo e costruttivo. È un clima metà intimidatorio metà demagogico: come se l’attore, mentre recita il suo monologo in teatro, fosse condizionato attimo per attimo dalle reazioni del pubblico al punto da cambiare il testo in corso d’opera, non importa se per blandire o per provocare gli spettatori. Il risultato finale, comunque, è che il testo è cambiato. Se posso: è tradito.

Posto che ogni cosa che si scrive è legittimamente sottoposta al giudizio di chi legge; posto che, dall’alba dei tempi, chi parla sa bene di potere essere contraddetto, altrimenti è meglio che taccia, o parli solo a sé stesso; posto che una certa dose di “calcolo” ha sempre influenzato chi prende la parola – non esiste discorso “in purezza”, non esiste parola immune dagli umori della società in cui è pronunciata; a me sembra che il condizionamento dei social su pensieri e parole stia diventando abnorme. E pernicioso. Tanto il words shaming che accoglie le parole del nemico, quanto il plauso sguaiato che fa corona a quelle dell’amico, sono una interferenza mortale per la libertà di pensiero. I momenti assembleari della vita sono importanti, altrettanto importante è l’autonomia intellettuale, che ha bisogno di respiro e di concentrazione.

Tutte queste parole che avanzano gomito a gomito sono a loro volta folla – non le si riconosce, non hanno volto – e l’essermi scansato, vent’anni fa, mi ha aiutato a conservare serenità e libertà. Scrivere è un rischio squisitamente individuale. L’intellettuale, lo scrittore, è colui che parla in proprio. Le sue parole, giuste o sbagliate, seducenti o noiose, servono solo se producono il suono, inconfondibile, della voce individuale.

Penso che sia meglio frapporre una distanza salubre – non arrogante: salubre – tra il proprio spazio mentale, le proprie idee, le proprie parole e il fragore ininterrotto dei social, quella risacca che batte senza sosta alla nostra porta («ma che paura che ci fa/quel mare scuro che si muove anche di notte/e non sta fermo mai», Paolo Conte, Genova per noi).

Naturalmente, e per finire, bisogna mettere nel conto l’errore – se in buona fede è solo e sempre un errore, non una colpa – perché fa parte del rischio di impresa. E bisogna sapere già in partenza che nessun lavoro di documentazione, nessun calibro culturale, nessuna esperienza basta a metterti al riparo. Nel mio molto annoso bilancio di scrittura gli errori, anche molto seccanti, ovviamente ci sono. E malgrado la stramba idea che noi “vecchi giornalisti” si sia cresciuti, professionalmente e umanamente, in assenza di contraddittorio, inossidabili e intoccabili sopra i nostri pulpiti di carta, quasi tutti i miei errori mi sono stati puntualmente rinfacciati, a volte con garbo a volte con severità, e li ho patiti uno per uno per quello che era il loro inevitabile messaggio: ero io, proprio io, solo io che avevo sbagliato. Il controllo “verticale” sarà anche stato autoritario, e non sempre equanime: ma era un controllo, eccome, e generava un autocontrollo. Era una disciplina, eccome, e generava un’autodisciplina.

E qui vi rimando alla storiella di partenza, quella dell’“omino” che sull’Unità proprio non ci poteva stare. Fino dai miei primi passi mi sono sentito vagliato e giudicato. Ho avuto paura del giudizio di giornalisti più bravi ed esperti di me, dei miei direttori, degli amici il cui giudizio temevo e rispettavo. E ho ricevuto lettere di persone che mi richiamavano all’ordine perché ero stato impreciso o irritante parlando di cose che loro conoscevano meglio di me. Di altri giudizi ho deciso da me solo, nel 2003, di fare a meno: mi avrebbero solo confuso, appesantito, distratto.

Niente mi è passato sopra come acqua, tutto ha contribuito a costruire quella grande cicatrice che è l’esperienza. Ma francamente, dover scrivere anche una sola riga con il secondo fine di scampare a un linciaggio, o di aizzare una claque, non è un’esperienza che mi sento di aggiungere alle tante già vissute. E dunque festeggio con moderata ma convinta allegria i miei vent’anni senza social.

Michele Serra
Michele Serra

È nato a Roma nel 1954, ha vissuto quasi sempre a Milano e ora abita in Appennino. Giornalista, scrittore, autore teatrale, scrive su Repubblica la rubrica l’Amaca e sul Post la newsletter Ok Boomer!. È stato autore televisivo lavorando con Gianni Morandi, Adriano Celentano e Fabio Fazio. Tra i suoi libri di maggior successo, tutti editi da Feltrinelli: Canzoni politiche (2000), Gli sdraiati (2013), Ognuno potrebbe (2015), Il grande libro delle Amache (2017), Le cose che bruciano (2019) e il romanzo per ragazzi Osso, anche i cani sognano (2021).

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