Il più influente esperto di arti marziali della storia moderna
Bruce Lee, morto oggi 50 anni fa, ispirò milioni di persone definendo un nuovo archetipo di eroe cinematografico maschile
Quando il 20 luglio 1973, cinquant’anni fa, Bruce Lee morì a Hong Kong per le conseguenze di un edema cerebrale e una reazione allergica a un farmaco aveva 32 anni. In Asia era uno dei personaggi pubblici più popolari, negli Stati Uniti un attore semisconosciuto, la cui morte fu riportata soltanto in pochi necrologi, alcuni dei quali pieni di errori. Il suo film di maggior successo, I 3 dell’Operazione Drago (Enter the Dragon), sarebbe uscito un mese più tardi. La sua morte prematura e la popolarità crescente delle arti marziali in Occidente, che lui più di tutti aveva contribuito a far conoscere, resero Lee nel giro di pochi anni un fenomeno di culto e una figura riconoscibile come poche altre nel Ventesimo secolo.
Come scritto dallo statunitense Matthew Polly nella biografia del 2018 Bruce Lee: A Life, Lee fu l’unica grande celebrità del suo livello la cui fama in Occidente fu interamente postuma. Recitò in appena cinque film, in quattro anni, ma ebbe un’influenza incalcolabile sul successo delle arti marziali, sia nel cinema che fuori. Nel cinema fondò un archetipo di eroe maschile che ridefinì il genere dei film di combattimento e a cui si ispirarono molti altri registi, produttori e attori dopo di lui. Fuori dal cinema fondò una disciplina di arti marziali ibride, il Jeet Kune Do, che metteva insieme concetti filosofici e varie tecniche di combattimento tradizionali, tramite cui elaborò idee e riflessioni che continuano a circolare.
Ancora oggi, scrisse nel 2018 il giornalista John Blake, è difficile immaginare un paese al mondo in cui almeno un ragazzo o una ragazza non abbia un poster di Bruce Lee attaccato alla parete della camera da letto. Come è difficile immaginare che senza di lui le arti marziali sarebbero diventate un fenomeno di massa, oggetto di insegnamento e argomento di film diversissimi tra loro, da Kill Bill a Kung Fu Panda.
Nato a San Francisco il 27 novembre 1940 ma cresciuto a Hong Kong, dove suo padre lavorava come attore d’opera, Lee trascorse gran parte della sua vita facendo la spola attraverso il Pacifico, tra Asia e Stati Uniti. Fu in questo l’incarnazione di un crescente e continuo scambio di idee e persone in entrambe le direzioni, secondo Daryl Maeda, docente di studi etnici alla University of Colorado Boulder. E le conoscenze del padre gli permisero di avvicinarsi abbastanza presto, intorno agli undici anni, al mondo della recitazione.
Le biografie di Lee descrivono il suo apprendimento delle arti marziali come un fattore fondamentale per la sua formazione, prima ancora che per il suo successo e la sua popolarità da adulto. Cominciò a praticare all’età di 13 anni il Wing Chun, uno stile di kung fu del sud della Cina, basato principalmente su tecniche di autodifesa e combattimento a distanza ravvicinata, utili in molte circostanze a sbilanciare gli avversari deviando i loro attacchi. E per lui, che da ragazzo era noto per cacciarsi spesso nei guai in risse da strada, gli allenamenti furono anche un modo di impegnare il tempo e le energie fisiche.
Lee continuò a praticare le arti marziali anche negli Stati Uniti, dove la sua famiglia lo mandò a studiare nel 1959, quando aveva diciotto anni. A Seattle – dove incontrò la sua futura moglie, Linda Emery – studiò alla University of Washington e lavorò per un periodo come cameriere in un ristorante, intanto che ampliava le sue conoscenze su altri stili e tecniche di combattimento. Fondò quindi una disciplina nuova, il Jeet Kune Do (letteralmente “la via che intercetta il pugno”), e aprì una palestra per insegnarla. Uno dei suoi primi allievi fu Jesse Glover, un praticante di judo afroamericano che quando non finiva nei guai con la polizia aspettava che Lee staccasse dal ristorante a fine turno, per imparare qualcosa da lui.
Come scritto dall’Atlantic nel 2020, lo stile inclusivo di Lee come insegnante di arti marziali non passò inosservato, in un’epoca in cui l’insegnamento agli occidentali era ancora visto con pregiudizio dai maestri delle scuole orientali. Lee stesso aveva fatto esperienza di quel genere di discriminazione a Hong Kong, quando da ragazzino aveva frequentato la scuola di Wing Chun del leggendario maestro Yip Man, generando tra gli altri studenti diverse proteste per le origini eurasiatiche di sua madre, Grace Ho (il nonno materno di Lee era cantonese, sua nonna materna inglese).
I pregiudizi razziali furono un elemento presente più o meno costantemente nella vita di Lee, insieme ai suoi tentativi di superare i limiti di un’identità culturale per molti aspetti penalizzante: «troppo asiatico nella società americana, troppo americano a Hong Kong», come sintetizzato dall’Atlantic.
Per diffondere il Jeet Kune Do e provare a riprendere la carriera da attore, Lee si trasferì in California nel 1964, a Oakland, dove aprì una seconda scuola. E riguardo a quel periodo della sua vita circolano diversi racconti e aneddoti, molti dei quali probabilmente apocrifi. Si racconta per esempio che la comunità cinese californiana gli chiese di smettere di insegnare le arti marziali agli occidentali, e che in seguito al suo rifiuto fu sfidato da un altro maestro di kung fu, che però perse l’incontro in pochi minuti.
Di sicuro Lee era fortissimo, secondo molte delle persone che ebbero l’opportunità di vederlo combattere e si allenarono con lui, sentite da Polly per la biografia del 2018. Era straordinariamente veloce e atletico, praticava body building e curava la sua alimentazione e la sua forma fisica molto più di altri praticanti di arti marziali. Il karateka e kickboxer statunitense Joe Lewis, tra i più forti degli anni Sessanta e Settanta, si allenò a lungo con Lee e disse che era l’avversario più veloce che avesse mai incontrato.
Nei combattimenti in palestra Lee aveva peraltro modi da sbruffone e provocava spesso gli avversari, mentre nei contesti di strada il più delle volte riuscì da adulto a non farsi nemmeno coinvolgere, a differenza di quanto gli succedeva da ragazzino nelle risse a Hong Kong. Come raccontato dal suo amico e allievo Doug Palmer nella biografia Bruce Lee: Sifu, Friend and Big Brother, spesso gli bastava deviare un paio di colpi per mostrare chiaramente a quelli che cercavano di aggredirlo che non avrebbero avuto alcuna possibilità di batterlo.
In diversi incontri pubblici, grazie alle conoscenze acquisite in anni di combattimenti a breve distanza nel Wing Chun, Lee mostrò colpi e tecniche che sarebbero poi diventate molto popolari, come le flessioni su tre dita e il pugno a un pollice di distanza, un colpo in grado di generare una grande forza senza necessità di rincorsa.
Durante una di queste dimostrazioni, ai campionati internazionali di karate del 1964 a Long Beach, in California, Lee si fece notare da un produttore televisivo, William Dozier, peraltro autore della serie tv su Batman degli anni Sessanta. Dopo una serie di provini ottenne la parte di Kato, autista e guardia del corpo del protagonista della serie Il Calabrone Verde (The Green Hornet), trasmessa tra il 1966 e il 1967. La serie non ebbe molto successo, ma fu una svolta per la carriera da attore di Lee, fino a quel momento messa sostanzialmente da parte per il Jeet Kune Do, che continuò a insegnare dopo essersi trasferito a Los Angeles. Lì ebbe tra i suoi allievi anche l’attore Chuck Norris, all’epoca praticante di arti marziali, l’attrice Sharon Tate e il giocatore di basket Kareem Abdul-Jabbar.
Grazie alla notorietà acquisita con l’interpretazione di Kato Lee rimase nel giro di Hollywood come consulente per le coreografie dei film di combattimento. Ottenne una parte nel film del 1969 L’investigatore Marlowe, sempre nel ruolo dell’esperto di kung fu, e parti minori in altre produzioni per la televisione. Insoddisfatto di quei ruoli secondari accettò le offerte ricevute dal produttore cinematografico Raymond Chow per tornare a Hong Kong, dove nel frattempo era diventato una celebrità grazie alla serie Il Calabrone Verde, che a Hong Kong tutti chiamavano il Kato Show.
Girò quindi due film – per la prima volta nel ruolo di protagonista – per la società di produzione fondata da Chow, la Golden Harvest: Il furore della Cina colpisce ancora (The Big Boss) nel 1971 e Dalla Cina con furore (Fist of Fury) nel 1972. Ottennero un grandissimo successo nel mercato asiatico e permisero a Lee di ricevere maggiore autonomia per girare il terzo film, di cui fu anche sceneggiatore e regista: L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente (The Way of the Dragon), uscito nel 1972 e in cui Lee chiamò a recitare il suo ex allievo Chuck Norris, per la parte dell’avversario nel combattimento finale.
Come affermato dal drammaturgo statunitense di origini cinesi David Henry Hwang, peraltro autore di un’opera teatrale sulla vita di Bruce Lee, Kung Fu, Lee fu il primo asiatico a mostrare i segni convenzionali della virilità statunitense. E fondò di fatto un archetipo che non esisteva in Occidente prima di lui: quello dell’«eroe maschile asiatico-statunitense», in un’epoca storica in cui l’immagine della Cina cominciò a cambiare, più o meno in concomitanza della storica visita del presidente statunitense Nixon nel paese, il 21 febbraio 1972.
Fino a quel momento gli uomini asiatici nel cinema statunitense erano stati perlopiù scritturati per interpretare ruoli da inservienti, autisti o approfittatori. Secondo Maeda, che è anche autore della biografia Like Water: A Cultural History of Bruce Lee, l’immagine di Lee a torso nudo e con i muscoli in tensione diventò un simbolo potentissimo del rifiuto radicale di quegli stereotipi negativi e di quei ruoli marginali e spesso desessualizzati.
Il suo corpo seminudo e spesso ferito, i suoi muscoli e le sue abilità fisiche erano non soltanto l’essenza dei suoi film ma anche il tema di poster promozionali, cartelloni pubblicitari e merchandising diffusi in tutto il mondo. Quale che fosse l’ambientazione dei suoi film (un’isola sperduta o il Colosseo) e quali che fossero di volta in volta i suoi avversari (un campione di karate, una banda di criminali in Italia o di trafficanti di droga in Thailandia), arrivava sempre il momento in cui Lee rimaneva a petto nudo. Ed era quello in cui capivi che gli avversari erano spacciati, disse Maeda nel 2017 al New York Times.
A un certo punto del film del 1972 Dalla Cina con furore il personaggio interpretato da Lee viene circondato da un gruppo agguerrito e numeroso di studenti in una scuola di arti marziali. Prima che lo scontro cominci, lui ferma tutti con un movimento delle mani: deve prima togliersi la giacca della divisa e rimanere a petto nudo. E gli avversari lo aspettano. Alla base di quel gesto, spiegò Maeda, c’erano sia ragioni pratiche – distinguere il corpo di Lee da quelli tutti uguali degli altri – che ragioni simboliche.
Le coreografie dei suoi film, studiate dallo stesso Lee, erano ovviamente molto diverse dai combattimenti reali. Ma nella percezione di una parte del pubblico, tanto più quello che scoprì i suoi film negli anni dopo la sua morte, era presente la consapevolezza che Lee fosse più che un attore: era un maestro di arti marziali, la cui influenza andava ben oltre il cinema.
Dopo il successo ottenuto nel mercato asiatico con la Golden Harvest, Lee accettò alla fine del 1972 di girare a Hong Kong il suo primo film statunitense da protagonista, in coproduzione con la Warner Bros: I Tre dell’Operazione Drago (Enter the Dragon), diretto da Robert Clouse. La proposta fu così allettante che per accettarla Lee interruppe le riprese di un altro film che stava girando, L’ultimo combattimento di Chen (Game of Death).
Le riprese del film I Tre dell’Operazione Drago finirono nell’aprile 1973: fu un successo clamoroso, ma Lee non riuscì a vederlo. Il 20 luglio, poche settimane prima dell’uscita del film al cinema, morì dopo aver preso un analgesico ed essersi addormentato a casa di un’amica, l’attrice taiwanese Betty Ting Pei. Si trovava lì per discutere insieme a lei e a Chow, il capo della Golden Harvest, della sceneggiatura del film rimasto in sospeso (L’ultimo combattimento di Chen, che fu poi completato usando materiali di archivio e uscì nel 1978).
Il cinema prodotto da Lee negli anni Settanta tra Hong Kong e Hollywood portò il genere dei film d’azione basati sulle arti marziali e le arti marziali stesse a livelli di popolarità mai raggiunti prima di allora, in Occidente e in tutto il mondo. Ed è molto difficile calcolare l’influenza diretta e indiretta che ebbe sia nel cinema che fuori.
Come ricordato dall’Atlantic nel 2020, è ben nota l’influenza che Lee esercita da decenni sul cinema dello statunitense Quentin Tarantino, per esempio. Il personaggio protagonista del film Kill Bill: Volume 1, interpretato da Uma Thurman, indossa una specie di replica della tuta gialla indossata da Lee in L’ultimo combattimento di Chen. Nel più recente C’era una volta a Hollywood, uscito nel 2019, Bruce Lee è uno dei personaggi della storia, interpretato da Mike Moh.
Poco prima dell’uscita del film, durante una delle manifestazioni di protesta a Hong Kong per richiedere maggiori autonomie e libertà democratiche, circolò tra gli attivisti un cartello con la scritta «Sii acqua». Lo stesso consiglio circolò anche tra i manifestanti che nel 2020 coordinarono in diverse città degli Stati Uniti le proteste contro la polizia per gli omicidi di George Floyd e Breonna Taylor. È una delle più famose citazioni di Bruce Lee, che utilizzò la metafora dell’acqua per descrivere il concetto dell’assenza di forma, centrale nel Jeet Kune Do, durante un’intervista con il giornalista canadese Pierre Berton nel 1971.
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