Al cinema per l’ultimo film di Miyazaki

«Le mie figlie sono nate in Giappone, per loro è normale che ci siano esseri sovrannaturali anche nei bagni della scuola (la famosa bambina Hanako che occupa uno dei gabinetti del bagno delle bambine e, a seconda delle versioni, spaventa le bambine o le aiuta a fare i bisogni). Così finalmente sono stato trascinato anche io nella sospensione del razionale e adesso posso godermi i film di Miyazaki, oltre a immaginare (sentire?) le presenze quando cammino nei boschi o nella natura giapponese»

Il produttore dello Studio Ghibli Toshio Suzuki ride con il regista Hayao Miyazaki a Musashino, Giappone, 6 settembre 2013 (Ken Ishii/Getty Images)
Il produttore dello Studio Ghibli Toshio Suzuki ride con il regista Hayao Miyazaki a Musashino, Giappone, 6 settembre 2013 (Ken Ishii/Getty Images)
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Ho prenotato due poltrone per il secondo giorno di Kimitachi wa Dō Ikiru ka (Voi come vivete) il nuovo film di Hayao Miyazaki, padre venerabile dell’animazione giapponese. Allo spettacolo delle 8.15 di sabato mattina io e mia figlia eravamo in sala già piena di gente; in Giappone il cinema funziona ancora e quando esce un film atteso il pubblico accorre, come dimostra il fatto che qui nel quartiere di Shinjuku di Tokyo ci sono altre tre sale che proiettano lo stesso film con una programmazione serrata, da catena di montaggio. Noto subito che mia figlia è una delle uniche due persone sotto i 15 anni di tutta la sala, tutti gli altri sono adulti.

Il nuovo film di Miyazaki arriva dieci anni dopo il suo precedente Si alza il vento e, dati gli 82 anni del regista, potrebbe essere il suo ultimo. Voi come vivete è arrivato nelle sale dopo essere stato annunciato soltanto da un manifesto enigmatico in cui un airone ci guarda attraverso un occhio che si intravede dentro il suo becco. Il film è prodotto da Studio Ghibli (la pronuncia, in Giappone, è Jìburi con la g di giro), la casa cinematografica di animazione fondata nel 1985, tra gli altri, da Miyazaki e Toshio Suzuki che in un’intervista recente ha detto che l’idea era tornare ai tempi in cui il pubblico andava al cinema senza sapere niente della trama, incuriosito solo dai manifesti.

In tutti i multisala giapponesi che si rispettino, prima di entrare gli spettatori si mettono in fila davanti al bancone che vende popcorn, caffè, birre alla spina e altri snack per godersi il film bevendo e mangiucchiando. Prima della proiezione del film di Miyazaki, invece, in fila non c’è quasi nessuno e in sala i contenitori tondi per bevande e popcorn tra una poltrona e l’altra rimangono vuoti. Vedo solo una ragazza che ha un bicchierone di popcorn, ma il resto della sala digiuna con atteggiamento devoto. Quasi tutti gli spettatori sembrano fedeli convenuti per una funzione. Anche durante la proiezione mi sono accorto di essere l’unico a ridacchiare per alcune scene buffe, immerso nella distesa silenziosa degli adepti. Alla fine del film nessuno si è alzato fino all’ultimo titolo di coda, quello del copyright (anche se questo succede sempre, nei cinema giapponesi, per una forma di rispetto del lavoro altrui e perché la musica che scorre va ascoltata, è parte dell’opera).

La storia di Voi come vivete è quasi impossibile da raccontare, capita spesso con Miyazaki, posso solo dire che l’airone del manifesto c’è veramente ed è un personaggio fondamentale della trama.

Fino a qualche anno fa non conoscevo quasi nessuno dei film di Hayao Miyazaki, e quei pochi che avevo visto non mi erano piaciuti. Anzi, non guardavo cartoni animati in generale perché, arrivato all’adolescenza, avevo cominciato a pensare che gli adulti dovessero guardare solo film con gli attori. In più da studente universitario lavoravo per qualche sera a settimana come proiezionista in un cinema che non dava film di animazione. Il primo che mi capitò di vedere fu proprio La città incantata di Hayao Miyazaki e mi sembrò noiosissimo: fu una delle prime volte che lasciai la sala durante la proiezione, infastidito dalla piega inverosimile che prendevano gli eventi sullo schermo. La mia mancanza di interesse negli anime continuò anche nelle prime fasi della mia vita a Tokyo (che risalgono ormai a quasi vent’anni fa), eppure lentamente, senza che me ne accorgessi, cominciai a immagazzinare concetti che mi avrebbero portato ad apprezzare i cartoni animati nuovamente, da adulto.

Detta semplicemente, attraverso gli anime, penso di aver cominciato a percepire la relazione che in Giappone c’è tra umani e altro: natura e altri spiriti. Il riferimento alle forze che vivono nella natura non era presente solo nei libri, ma anche nei discorsi delle persone e nella loro interpretazione degli eventi. Ricordo che una mia amica, inciampata durante una passeggiata nei boschi in montagna aprendosi il ginocchio, si era convinta di essere stata spinta da uno spiritello della foresta, e questo anche se in seguito aveva ammesso di essere andata a camminare con i tacchi.

Diventando padre in Giappone, avrei scoperto che i film Ghibli sono parte del patrimonio di conoscenza comune a tutti i bambini, insieme ai libri che parlano degli yōkai, esseri mutevoli che abitano nel nostro mondo ma non sono umani. Le mie figlie sono nate qui, per loro è normale che ci siano esseri sovrannaturali anche nei bagni della scuola (la famosa bambina Hanako che occupa uno dei gabinetti del bagno delle bambine e, a seconda delle versioni spaventa le bambine o le aiuta a fare i bisogni). Finalmente sono stato trascinato nella sospensione del razionale e adesso posso godermi i film di Miyazaki oltre a immaginare (sentire?) le presenze quando cammino nei boschi o nella natura giapponese.

Dopo pranzo, ancora rimuginando sul film, ho telefonato a Naoya, un mio amico trentenne compagno di visioni cinematografiche, con cui amo chiacchierare di libri, film e anime. Naoya ha passato alcuni anni della sua infanzia negli Stati Uniti d’America, quindi una parte di lui riesce a vedere la propria giapponesità dall’esterno. Quando era bambino suo padre gli portava le videocassette dal Giappone di ritorno dai viaggi di lavoro. Ma questo è stato uno dei pochi casi in cui io e Naoya al telefono non siamo riusciti a trovare un termine adatto per definire il mondo fantastico del film e dei film Ghibli. Gli ho proposto la parola “religione”, pensando alla relazione spirituale che c’è in Giappone tra genere umano e natura, ma lui non si è convinto. Insomma, i film di Miyazaki rimangono un mistero, nonostante la fama.

L’unica saga paragonabile, oggi, per longevità e popolarità al marchio dello Studio Ghibli è quella di Doraemon: tutti conoscono il gatto blu, chiunque ha visto i suoi cartoni animati o almeno ha preso in mano i suoi manga. Le mie figlie leggono avidamente le storie scritte nel secolo scorso pur essendo nate alla fine degli anni Dieci del millennio successivo. Ma la differenza tra i due filoni narrativi è che Doraemon e altre serie di manga e anime come Sazae san o Chibi Maruko chan raccontano di rapporti umani, amicizie, confronto con i genitori, relazioni con i compagni di scuola; rientrano infatti nel genere dei cartoni animati del quotidiano.

Per questo quando guardo i personaggi di Doraemon o di altri anime “quotidiani” penso al teatro d’opera italiano del Settecento con gli equivoci umani e le vicende comiche o patetiche dei personaggi (per guadagnarmi da vivere insegno la pronuncia italiana ai cantanti lirici giapponesi), mentre i film di Miyazaki mi fanno pensare alla drammaturgia di Wagner, con il suo incedere lento, carico di simboli, elementi naturali mistici e magici. Su questa similitudine, a dire il vero azzardata, perdo Naoya per un attimo, lo sento comprensibilmente perplesso all’altro capo della conversazione.

Parliamo del fatto che oggi Hayao Miyazaki è l’unico creatore di animazione conosciuto da qualsiasi giapponese: non c’è persona che non abbia visto almeno uno dei suoi film usciti nell’arco di una carriera di vari decenni. La parabola della sua produzione negli anni ha cambiato i temi trattati: i quarantenni e cinquantenni ne hanno un’immagine molto politicizzata ed ecologista (per esempio con Nausicaä della valle del vento o La Principessa Mononoke), mentre per la generazione dei trentenni come Naoya i film Ghibli sono tendenzialmente storie di formazione che accompagnano i bambini fuori dall’infanzia e verso l’adolescenza (così come succede in La città incantata e Ponyo sulla scogliera).

La figura pubblica di Hayao Miyazaki è tra le più riconoscibili in Giappone. È ormai un personaggio pop assimilabile alle sue creazioni. In Giappone nessun artista del mondo dell’animazione è mai stato così iconico: esiste addirittura un sosia di Miyazaki che compare durante gli eventi pubblici legati allo Studio Ghibli immagino solo per il gusto di far pensare a tutti «ma… era quello vero?».

E quello vero, dietro barba candida e occhiali, è il prototipo dell’ojisan, l’“uomo di una certa età” giapponese: si ammazza di lavoro da sempre, si lamenta della sua vita miserabile e redarguisce continuamente i suoi collaboratori spronandoli a fare meglio, a vivere per il lavoro come fa lui. Miyazaki ha eseguito anche la più classica inversione a U tipica degli ojisan della sua generazione quando, dopo aver annunciato il suo ritiro dalle scene e l’inizio della sua vita da pensionato, è tornato in studio per fare altri due film, esattamente come fanno altri suoi coetanei che, arrivati alla pensione, si rendono conto di non sapere che farsene del tempo libero e non si sentono a proprio agio a casa con una moglie che brontola perché a sua volta non sa che farsene del marito tra i piedi.

L’eredità di Miyazaki è già stata raccolta da registi come Makoto Shinkai (il “padre” di Suzume) che lo cita ripetutamente nei suoi film, e in saghe come Demon Slayer ci sono elementi della poetica miyazakiana (mi scuso per l’aggettivo). Il fatto è che gli spunti narrativi dei film di Miyazaki sono presi dalle narrazioni popolari del Giappone, quelle in cui ci sono umani e animali che cambiano d’aspetto, si trasformano in spiriti, fauna del bosco, esseri bizzarri. Sono questi i racconti quotidiani che hanno sentito le mie figlie nate qui.

Di Voi come vivete, oltre alla sua densità e al suo mondo fantastico, mi è rimasto impresso un “uovo di pasqua” assolutamente inaspettato: a un certo punto il protagonista si trova di fronte a un endecasillabo dantesco inciso nella pietra:

fecemi la divina potestate

È difficile immaginare uno spettatore giapponese che riesca a cogliere il riferimento di un verso buttato lì improvvisamente, scritto in caratteri alfabetici e in italiano. Dante non è tra le letture di un giapponese medio, anche se ci si può aspettare che qualche italianista locale molto esperto lo scoverà. Per ora mi piace pensare di essere tra i pochi ad averlo notato (rimanendo fulminato per alcuni minuti), contento di trovare un po’ della storia poetica italiana in un viaggio visivo mistico giapponese.

Flavio Parisi
Flavio Parisi

È nato in Friuli dove si è diplomato in oboe al conservatorio, poi ha studiato lingue e culture dell’India a Venezia e si è trasferito a Tokyo, inizialmente per il viaggio di laurea. Vive insegnando la pronuncia dell’italiano ai cantanti lirici e la storia del melodramma. È ospite fisso della trasmissione televisiva Cool Japan sulla rete nazionale NHK, dove parla di cibo e altro. Su Twitter è @pesceriso, lo stesso nome che aveva il suo blog sul Post.

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