Le nuove regole anti spionaggio in Cina rischiano di allontanare le aziende straniere
C'è il timore di finire nei guai anche solo parlando di strategie o scenari futuri: gli effetti sugli investimenti si stanno già vedendo
Gli investimenti esteri in Cina – non quelli finanziari ma quelli in nuove aziende, in impianti o in filiali di multinazionali – stanno risentendo di alcune politiche anti spionaggio che il governo cinese sta attuando per garantire un maggiore livello di sicurezza nazionale. Da alcuni anni infatti il presidente Xi Jinping approva misure sempre più restrittive riguardo a quello che possono fare gli stranieri nel paese (non solo gli investitori, ma anche i giornalisti per esempio). Le ultime misure hanno di fatto reso più problematico fare investimenti in Cina, perché le imprese straniere percepiscono come sempre più concreto il rischio di avere problemi di qualsiasi tipo con i servizi segreti cinesi o con la giustizia.
Ora si discute della possibilità che queste scelte si stiano dimostrando controproducenti per l’economia cinese, che sta facendo fatica a ritrovare il ritmo di crescita di prima della pandemia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche per l’economia globale. C’è un’altra cosa da considerare: la Cina da tempo sta attraversando un periodo di deflusso costante degli investimenti esteri, che per il paese sono non solo fonte di capitali, ma anche di idee, tecnologia, competenze manageriali e garanzia di posti di lavoro.
Gli investimenti diretti esteri, come si chiamano in gergo proprio gli investimenti non finanziari fatti da imprese o cittadini stranieri, sono stati pari a 20 miliardi di dollari nel primo trimestre dell’anno, solamente un quinto rispetto ai 100 miliardi del primo trimestre dello scorso anno, secondo i calcoli di Mark Witzke, esperto di Cina e analista del centro di ricerca Rhodium Group. Il 2022 era poi stato un anno in cui gli investimenti si erano ridotti già del 48 per cento rispetto al 2021.
According to China's official balance of payments statistics, foreign direct investment has fallen precipitously since halfway through 2022. Seems like a bad time to have a crackdown on foreign consultants, researchers, and businesses if they want to reverse that pic.twitter.com/Cyrczf19pR
— Mark Witzke (@mkwitzke) May 15, 2023
Questo calo ha sicuramente alcune ragioni strutturali, tra cui la tendenza recente ad accorciare tutte le catene produttive dopo la crisi dei commerci mondiali che si è innescata con la pandemia. In quel momento le aziende si erano rese conto dei rischi enormi di avere catene produttive molto delocalizzate e spezzettate per il mondo: il blocco di anche un solo passaggio poteva potenzialmente far inceppare tutto il resto. Ora le catene produttive si sono ricostruite, ma da allora le imprese stanno cercando di riavvicinare i vari passaggi delle produzioni per non essere più esposte a crisi di questo tipo.
Il calo è però anche una diretta conseguenza di una serie di leggi cinesi recenti che hanno inasprito i controlli anti spionaggio e che causano conseguenze molto concrete per chi fa affari in Cina (è vero che le nuove regole sono entrate in vigore solo da inizio luglio, ma se ne discuteva da parecchio: i manager che volevano investire in Cina erano preoccupati dei rischi delle nuove misure, e avevano già iniziato a cambiare le loro strategie sugli investimenti).
Le nuove regole introdotte dal governo cinese hanno di fatto esteso i casi in cui si può parlare di spionaggio, e quindi le situazioni in cui qualcuno può essere accusato per questo reato. Il reato non si riferisce più solo ai segreti di stato e ai documenti dei servizi segreti, ma anche a tutti i documenti, dati, materiali o elementi relativi alla sicurezza nazionale. La definizione è molto vaga e potenzialmente problematica per le aziende: potrebbe rientrarvi qualsiasi tipo di documento aziendale, anche quelli relativi alle normali attività commerciali, come le indagini di mercato, le informazioni sulle aziende concorrenti e sui partner commerciali.
Le autorità possono poi ispezionare le strutture e le apparecchiature elettroniche delle aziende, ma anche tutti i dispositivi come smartphone e computer appartenenti a chi è sospettato di spionaggio. I servizi postali, i corrieri e gli operatori delle telecomunicazioni sono poi tenuti a fornire assistenza tecnica alle agenzie di sicurezza dello stato in tutte queste procedure.
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Dopo l’entrata in vigore delle nuove regole, alcuni dirigenti di aziende straniere in Cina hanno iniziato a temere che le novità avranno effetti negativi sulle attività aziendali: per esempio ci potrebbe essere reticenza a parlare di alcuni temi con le controparti cinesi per paura di finire nei guai. Tra le altre cose potrebbe diventare difficile ipotizzare scenari sullo status di Taiwan o trattare della questione del rispetto dei diritti umani.
Potrebbe diventare complicato anche trattare questioni tecnologiche relative per esempio ai semiconduttori e ai chip, beni che negli ultimi anni sono stati al centro di numerose dispute politiche. Da tempo infatti è in corso una guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti in cui i due paesi continuano a limitare l’esportazione di tecnologia ritenuta strategica per non fornire conoscenza tecnologica all’altra parte.
La questione dello spionaggio è particolarmente sensibile per il governo cinese, che sta cercando di competere per il dominio tecnologico, soprattutto nel caso della produzione di semiconduttori. Negli ultimi tre anni aveva investito grandi somme ed energie per costruire un settore domestico dei microchip in grado di rivaleggiare con quello statunitense e degli altri paesi asiatici, con l’ambizione di diventare autosufficiente a livello tecnologico. Secondo i maggiori esperti non sarebbe ancora arrivata all’obiettivo e la guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti ne rallenterà il raggiungimento.
È proprio nel settore tecnologico che si è vista la volontà del governo cinese di controllare e influenzare le attività delle aziende estere.
Il Wall Street Journal ha raccontato il caso di Pixelworks, un’azienda statunitense che produce chip e che anni fa decise di aprire una filiale in Cina. Inizialmente l’investimento fu accolto molto bene dalle autorità locali, ma col tempo si fecero sempre più intense le pressioni da parte del governo cinese per limitare la condivisione di informazioni con la sede centrale di Pixelworks. Il governo impose quindi una serie di requisiti sempre più stringenti per fare in modo che la filiale fosse sostanzialmente indipendente dall’operatività di quella statunitense, col risultato che alla fine la società dovette dividersi di fatto in due entità distinte.
A marzo poi il governo cinese dispose controlli per la cybersicurezza sulle produzioni dell’azienda statunitense Micron, anch’essa attiva nel settore dei chip.
Secondo molti il governo cinese sta prendendo decisioni piuttosto rischiose, convinto di riuscire a mantenere l’equilibrio tra continuare a fare pressione sulle imprese straniere e allo stesso tempo cercare di convincerle a non smettere di investire in Cina. Il rischio è di far defluire dal paese i capitali stranieri che per anni avevano sostenuto la crescita e lo sviluppo dell’economia cinese. È un’opinione diffusa tra gli economisti che per la Cina sia cruciale continuare a mantenere l’afflusso di capitali stranieri per favorire la sua crescita di lungo termine: nonostante il suo peso politico e le dimensioni della sua economia, la Cina resta un paese di redditi medi e bassi, che ha ancora bisogno di tecnologie e conoscenze straniere per restare competitiva.
E ne ha bisogno moltissimo adesso, cioè quando l’economia sta crescendo meno del previsto. Consumi e investimenti mostrano risultati piuttosto deludenti e si continuano a osservare consistenti tagli dei centri di ricerca alle stime sulla crescita complessiva del PIL per quest’anno, dopo che nel secondo trimestre dell’anno è cresciuto solo dello 0,8 per cento rispetto al trimestre precedente, molto meno delle attese.
La debolezza economica della Cina comporta sia vantaggi che rischi per l’economia globale. I prezzi al consumo e alla produzione in Cina sono scesi negli ultimi mesi, riducendo il costo delle importazioni dalla Cina e frenando così in parte l’inflazione in Occidente. Allo stesso tempo, un calo consistente della domanda cinese avrebbe però effetti sicuramente negativi sulle esportazioni dei paesi occidentali in Cina e potrebbe accentuare la tendenza al rallentamento globale dell’economia.
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