A Monaco c’è chi lavora a un dizionario iniziato 129 anni fa
È il Thesaurus Linguae Latinae, un progetto mastodontico basato su un archivio di milioni di foglietti scritti a mano nel tardo Ottocento
di Viola Stefanello
Al secondo piano dell’Accademia bavarese delle scienze, nel centro di Monaco di Baviera, c’è una stanza che contiene tutte – una per una – le parole latine arrivate ai giorni nostri. Sono state trascritte a partire da testi di poesia, letteratura e filosofia, ma anche medicina, ingegneria, religione e botanica, da vasi e iscrizioni ritrovate nei siti archeologici di mezzo mondo. 129 anni fa, decine di ricercatori e studiosi del latino le hanno trascritte tutte in oltre dieci milioni di piccoli fogli rettangolari detti “Zettel” – che in tedesco vuol dire “bigliettino” – e le hanno disposte in ordine alfabetico in una serie di scatoline di cartone marrone, etichettate a mano con calligrafie eleganti. Le parole meno usate compaiono soltanto in una manciata di Zettel, ma altre, come “non”, o “et”, occupano da sole svariate scatole. Tutte, prima o poi, compariranno nel dizionario di latino più completo e preciso del mondo: il Thesaurus Linguae Latinae.
Per le persone che si occupano di studiare il latino a livello accademico, il Thesaurus è una delle istituzioni più preziose del mondo. Fondato nel 1894 dal filologo tedesco Eduard Wölfflin, rientra nella categoria dei dizionari storici, ovvero quelli che non si limitano a spiegare il significato di una parola ma ne tracciano lo sviluppo storico, dando conto delle sue varie forme e significati nel tempo. Ha l’ambizione di essere il primo dizionario a includere tutti i testi latini dai tempi della sua comparsa fino a Isidoro (un teologo e linguista morto nel 636 dopo Cristo), documentando tutte le occorrenze di ogni significato di ogni parola latina arrivata ai giorni nostri. Nelle intenzioni di Wölfflin, doveva essere pronto in una ventina d’anni. Oggi si spera che sarà completato entro il 2050: al momento si sta lavorando alle parole che cominciano con N ed R.
«Tutti ci dicono che siamo lenti, io dirò una cosa che non dice nessuno: noi siamo veloci», dice Roberta Marchionni, lessicografa italiana che lavora al Thesaurus da dieci anni. «Il lavoro che c’è dietro a ogni parola è veramente immenso: non basta leggere tutte le attestazioni (ovvero le volte che una parola appare in un testo di letteratura latina, ndr), ma bisogna capirle sia da un punto di vista semantico che sintattico-grammaticale, inserirle nel loro contesto, e restituire tutte le sfaccettature possibili e immaginabili di quella parola». Per questo, chi lavora al Thesaurus dice di lavorare alla biografia delle parole. «Ad ogni parola dobbiamo chiedere chi sono i suoi genitori, cos’ha fatto nella vita, con chi si accompagna e con chi no, quali peripezie ne hanno causato eventuali cambiamenti», spiega Marchionni.
Nell’arco degli ultimi 129 anni sono state quasi 400 le persone che hanno lavorato al Thesaurus. Il loro lavoro è continuato, pur con grossi rallentamenti dovuti anche al fatto che gran parte degli uomini furono inviati al fronte e non fecero più ritorno, durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, quando l’intero archivio fu spostato dal centro di Monaco a un monastero fuori città per allontanarlo dai bombardamenti. Oggi al progetto lavorano 13 dipendenti stipendiati dallo stato bavarese e vari borsisti provenienti da molti paesi diversi: sono tutti latinisti, ma molti conoscono molto bene anche il greco antico, alcuni l’ebraico.
Ognuno lavora fin dal proprio arrivo a una parola dopo l’altra, seguendo un documento molto dettagliato che definisce i rigidi criteri formali in base a cui il dizionario dev’essere redatto. Si comincia studiando tutte le attestazioni relative alla parola, nonché gli eventuali commenti e interpretazioni critiche di certi passi in caso di incertezza sull’interpretazione, e prende nota ogni volta che trova un significato che si discosta anche minimamente dagli altri che ha individuato fino a quel momento. I vari significati vengono poi tutti riportati nel Thesaurus, prendendo una forma che Marchionni definisce «ad albero genealogico»: nella pratica, una voce particolarmente complessa viene descritta tramite un sistema di livelli e sottolivelli, a cui viene affiancata una spiegazione. Questi sottolivelli sono indicati prima in numeri romani maiuscoli, poi lettere maiuscole, poi numeri arabi, poi lettere minuscole, poi lettere greche.
Una volta finita la prima stesura la si sottopone a un redattore, il cui compito è fornire critiche costruttive, magari su come citare correttamente le fonti, sull’ordine in cui presentare le varie attestazioni o sui criteri scelti per distinguere i vari sottolivelli. Per esempio, «il primo passo citato dev’essere quello più antico, per far vedere il momento in cui la parola appare per la prima volta», spiega Marchionni. «Una volta ricevute le critiche dalla mia redattrice, le valuto, modifico di conseguenza e gliele restituisco. Questa cosa può andare avanti per mesi. Quando siamo entrambe soddisfatte sottoponiamo la voce a una squadra di lettori esterni, che a loro volta ci fanno avere le loro segnalazioni», dice la studiosa. «Mentre il redattore rivede la voce, comunque, ci viene consegnata una parola nuova e cominciamo a scriverne». Marchionni stima che in media una parola “grossa” richieda un paio di anni di lavoro.
Alcune parole sono molto più insidiose di altre: per esempio, inizialmente la lettera N era stata saltata perché conteneva alcune parole talmente lunghe da analizzare da rischiare di rallentare troppo il lavoro del gruppo di ricercatori. Una tesaurista ha raccontato al New York Times di aver lavorato alla parola “res”, che vuol dire “cosa”, per più o meno un decennio. «Quella che a me ha fatto dannare di più è stata “necessitas”, che vuol dire tutto tranne “necessità” come lo intendiamo noi. Fa parte di quelle parole molto astratte, come “pietas” o “humanitas”, che sono difficili da interpretare perché espressioni di una cultura che noi ci illudiamo solo di aver capito del tutto, ma non possiamo capire cosa voglia davvero dire», racconta Marchionni. «Io faccio due tipi di incubi: uno è dover fare ancora l’esame di maturità, l’altro è dover scrivere di nuovo “necessitas”».
A complicare ulteriormente le cose è la decisione di includere anche i testi del cosiddetto “tardo antico”, ovvero il periodo tra il III e il VI secolo, in cui la cultura dell’impero romano cominciò a cambiare radicalmente per via della progressiva diffusione del cristianesimo, portatore di valori e credenze spesso in contrasto con quelle precedenti. «Se all’epoca avessimo deciso di lasciare fuori il tardo latino, a quest’ora avremmo finito», dice Marchionni. «Ma se fossimo arrivati solo ad Apuleio, che è considerato l’ultimo autore prima del tardo antico, ci mancherebbe tutta la varietà, lo stravolgimento causato dall’arrivo del cristianesimo. Fermo restando che nemmeno dopo Isidoro il latino muore: la parola continua a vivere. Ci sono parole latine usate pochissimo all’epoca che poi esplodono nell’italiano moderno».
Giorgio Di Michino, giovane tirocinante arrivato a Monaco dopo una laurea magistrale in Lettere classiche alla Statale di Milano, sta invece lavorando a “rigatio”, una parola legata al lessico dell’agricoltura. «Il contesto di alcune attestazioni è stato abbastanza complesso da capire: in una per esempio si parla di questa divinità gnostica che si chiama Agamoth che piangendo genera le acque del mondo», racconta. «Forse la cosa più difficile, e ancora la più creativa, è però scrivere effettivamente la voce: devi strutturarla in un modo che sia fruibile per il lettore ma al contempo rispettare tutta una serie di indicazioni formali tipiche del Thesaurus».
Più che un testo utile agli studenti alle prime armi, come quelli che si approcciano alla lingua latina nei licei italiani, il Thesaurus è un dizionario che viene segnalato a livello universitario in caso ci sia la necessità di fare ricerca su una specifica parola, e che viene sistematicamente citato come la fonte più autorevole dai latinisti. Ricercatori da tutto il mondo si recano anche personalmente nella biblioteca del Thesaurus a Monaco, che contiene delle preziose copie annotate di tutti i testi latini sopravvissuti fino ai giorni nostri. Tra le persone che l’hanno visitato spicca, per esempio, l’ex pontefice Joseph Ratzinger, che all’epoca degli studi ha chiesto di poter consultare gli Zettel relativi alla parola “populus”. «La portata del progetto ci dà lo spazio e l’opportunità di dire anche ciò di cui non siamo sicuri», ha scritto Adam Gitner, un altro dei “tesauristi”. «Questo è importante perché lascia la porta aperta a ulteriori studi e offre al lettore delle scelte, piuttosto che dettare loro cosa pensare. Il dizionario può quindi essere un catalizzatore per ulteriori ricerche».
Per essere più accessibile ai ricercatori, negli ultimi anni il Thesaurus sta intraprendendo un processo di digitalizzazione del proprio intero archivio, inclusi gli Zettel e tutti i libri della biblioteca. Le voci del dizionario finora pubblicate sono a lungo state accessibili pagando 379 euro alla casa editrice De Gruyter per accedere alla versione digitalizzata, ma da qualche tempo il sito del Thesaurus ha anche messo a disposizione dei pdf gratuiti e scaricabili di tutto il dizionario. L’idea è di rendere tutto il materiale del Thesaurus liberamente accessibile online al pubblico entro il 2030.
La preoccupazione principale è che i fondi smettano di essere rinnovati prima che il Thesaurus sia completato. Oggi il progetto ha un budget di 1,25 milioni di euro all’anno, finanziato principalmente dallo stato bavarese. «Abbiamo i fondi assicurati fino al 2025», dice Manfred Flieger, segretario esecutivo del Thesaurus. «Al momento stiamo lavorando per poterli prolungare, e non ne siamo sicuri, anche se siamo molto speranzosi di poter continuare il nostro lavoro per altri 25 anni. Stiamo lavorando molto duramente per farcela entro il 2050, promettendo che faremo un’opera di digitalizzazione molto avanzata».
Intanto ancora oggi continuano ad apparire nuove attestazioni di parole latine di cui il Thesaurus deve tenere conto, soprattutto dai siti archeologici in cui vengono ritrovati graffiti o altre iscrizioni. «Molto più raro è trovare parole completamente nuove. Ma anche in quei casi dedichiamo loro una voce», racconta Marchionni. «Anche quando esiste una sola lettura di un solo studioso che dice “in questo graffito io leggo questa nuova parola”, noi la registriamo. Perché strappare parole dall’oblio è parte della nostra missione».