Il paese in cui l’inflazione è zero
È la Cina, che sta avendo problemi opposti a quelli dei paesi occidentali: i prezzi non crescono e non è una buona notizia
C’è un paese che non sta avendo problemi di inflazione: è la Cina, dove in media i prezzi di giugno non sono aumentati rispetto allo stesso mese del 2022. Potrebbe sembrare una condizione ideale, soprattutto per tutti quei paesi che da quasi due anni fanno i conti con un aumento costante e persistente del costo della vita, che mette in grossa difficoltà tutti coloro che hanno un reddito fisso. In realtà il mancato aumento dei prezzi è sintomo di una serie di problemi molto seri per l’economia cinese ed è un segnale preoccupante per l’economia globale, fortemente connessa alla Cina. Indica che i consumi sono molto deboli e che la ripresa economica dopo la fine delle restrizioni e della strategia zero Covid ha sostanzialmente poco slancio.
Secondo l’ufficio di statistica cinese, a giugno i prezzi al consumo in Cina si sono addirittura ridotti dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente. I cali più consistenti si sono osservati nei prezzi della carne, specialmente in quella di maiale che è un ingrediente essenziale della cucina cinese, oltre che nei prezzi dei trasporti e della benzina.
Questo andamento è piuttosto coerente con la tendenza dei prezzi alla produzione, ossia i costi che sostengono le aziende per produrre i beni. Questi prezzi stanno calando da mesi: a giugno si sono ridotti del 5,4 per cento rispetto a giugno del 2022 e dello 0,8 per cento rispetto al mese scorso.
Negli ultimi due anni la Cina non ha comunque mai avuto l’inflazione che c’è stata nei paesi occidentali: mentre l’Occidente è stato colpito in modo particolarmente duro dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari causato dalla guerra in Ucraina, i controlli statali sui prezzi dell’energia in Cina l’hanno sostanzialmente protetta dai rincari. Ora la Cina si trova in una situazione opposta a quella degli altri paesi perché è a rischio di deflazione, che è praticamente il contrario dell’inflazione: è una riduzione generalizzata e sostenuta del livello dei prezzi.
La deflazione è un altro segnale del fatto che le cose non stiano andando molto bene per l’economia cinese. La stragrande maggioranza degli analisti aveva grandi aspettative per la crescita che avrebbe potuto avere la Cina dopo l’abbandono della strategia zero Covid, ma le cose sono andate diversamente.
Dopo che le restrizioni erano state rimosse a dicembre, nei primi mesi del 2023 il Prodotto Interno Lordo cinese era cresciuto più rapidamente del previsto. Poi però la Cina aveva iniziato a far registrare risultati via via sempre più deludenti sui consumi, sugli investimenti e sul mercato immobiliare. E nel secondo trimestre dell’anno il PIL cinese era cresciuto solo dello 0,8 per cento rispetto al trimestre precedente, molto meno delle attese.
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Gli analisti imputano gran parte del rallentamento cinese ad alcune tendenze negative del settore immobiliare, che ha guidato la crescita cinese per decenni e che vale circa un quarto del PIL del paese. Il settore fa ancora fatica a riprendersi dopo la grave crisi iniziata nel 2021. Uno dei fenomeni più notevoli è stato per esempio alla fine del 2021 la crisi di Evergrande, un enorme gruppo cinese che si è rivelato essere la società di sviluppo immobiliare più indebitata al mondo.
Questa crisi ha avuto effetti notevoli su tutta l’economia: la disoccupazione è aumentata, soprattutto tra i giovani (risulta disoccupato un giovane su cinque nelle aree urbane, che pur essendo meno della disoccupazione in Italia è un dato inusuale per la Cina), famiglie e imprese hanno preferito tenere fermi i propri soldi, con il risultato che i consumi e gli investimenti non crescono.
Il governo cinese ha già messo in atto una serie di misure per tentare di rilanciare l’economia: sono state introdotte agevolazioni fiscali per le piccole imprese e la banca centrale cinese ha ridotto i tassi di interesse per incoraggiare le famiglie a spendere di più il proprio denaro invece di risparmiarlo (al contrario di quanto sta succedendo in Occidente, dove le banche centrali li stanno aumentando per contrastare l’inflazione).
Dal punto di vista di chi fa i conti ogni mese con notevoli rincari (per esempio in Italia a giugno l’inflazione è stata del 6,4 per cento) la riduzione dei prezzi potrebbe sembrare una buona notizia: le famiglie spendono meno per comprare le stesse cose di prima, diventando nei fatti un po’ più ricche. In realtà la deflazione è un pessimo segnale per l’economia.
Quando i prezzi calano vuol dire che l’economia è in una condizione di debolezza: i consumi non sono abbastanza sostenuti e chi vende prodotti o servizi si ritrova nella condizione di abbassare i prezzi pur di riuscire a vendere. E col tempo le persone iniziano a perdere lavoro, diventano generalmente più povere, smettono di spendere e l’economia si ritrova in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. In più si genera una generale sensazione di sfiducia nella crescita: le persone tendono a risparmiare non solo per precauzione ma anche perché pensano che i prezzi continueranno sostanzialmente a scendere. A livello individuale fanno una considerazione sensata, ma a livello collettivo questo ragionamento è molto dannoso per l’economia.
Non esiste una condizione preferibile tra quella di alta inflazione o alta deflazione: entrambe producono distorsioni ed effetti collaterali, ma la teoria economica prevede che la situazione più auspicabile sia quella in cui i prezzi crescono in modo moderato. Tant’è che alcune banche centrali, come la Banca Centrale Europea, hanno un obiettivo da raggiungere in termini di inflazione, solitamente fissato intorno al 2 per cento. Se i prezzi salgono a questo ritmo significa che le cose stanno andando piuttosto bene: l’economia cresce, impiega lavoratori con stipendi via via sempre maggiori, così come i prezzi. È un circolo virtuoso, che resta tale fino a che l’economia si surriscalda e i consumatori iniziano a domandare più beni e servizi di quanti le aziende siano in grado di produrre.