Cosa significa «fermare le partenze» dei migranti

Alla base dell'accordo che l'Italia ha appena firmato con la Tunisia c'è uno schema già visto, molto criticato

di Luca Misculin

Un agente della Guardia nazionale marittima tunisina ferma un'imbarcazione di migranti subsahariani diretta in Italia, 18 aprile 2023 (AP Photo)
Un agente della Guardia nazionale marittima tunisina ferma un'imbarcazione di migranti subsahariani diretta in Italia, 18 aprile 2023 (AP Photo)
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Domenica l’Unione Europea e la Tunisia hanno firmato un accordo che fra i suoi punti principali prevede che le autorità tunisine ricevano dei fondi per fermare le partenze di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere via mare le coste dell’Italia. Il testo dell’accordo non è stato reso pubblico, ma dalle informazioni riportate sui giornali e da come ne hanno parlato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e quella della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembra modellato su accordi simili, assai controversi, già presi in passato dall’Unione Europea con la Turchia e la Libia.

In estrema sintesi l’Unione Europea si impegna a dare dei soldi a un paese dalle cui coste partono migranti e richiedenti asilo affinché le autorità di quel paese, meno vincolate all’accoglienza dei richiedenti asilo e al rispetto dei diritti umani previsti dalle leggi europee, fermino quelle persone con ogni mezzo. Per questo si parla ormai da qualche anno di una pratica di «esternalizzazione delle frontiere» da parte dell’Unione.

Nel breve termine questi accordi hanno effettivamente ridotto gli arrivi di migranti e richiedenti asilo: è successo subito dopo gli accordi presi con la Turchia nel 2016 per ridurre il flusso di richiedenti asilo verso la Grecia, e nel 2017 dopo un simile accordo, su scala inferiore, fra Italia e Libia. Nel tempo i flussi sono poi tornati ad aumentare fino a stabilizzarsi.

Ma a prescindere dagli arrivi in Europa, gli esperti di migrazione e accoglienza ritengono questi accordi estremamente controversi perché provocano comunque enormi quantità di sofferenze e morti: che però avvengono lontano dal territorio europeo, dove reperire informazioni è assai più difficile, e in posti in cui gli stati europei non sono ritenuti legalmente responsabili dei migranti.

Accordi di questo tipo «impediscono alle persone di esercitare il proprio diritto di chiedere asilo, le rendono vulnerabili a violazioni dei diritti umani e infliggono loro grave dolore fisico e psicologico», scrive Jeff Crisp, esperto di migrazioni del Refugee Studies Centre dell’università di Oxford. «L’esternalizzazione ha poi incoraggiato i richiedenti asilo a intraprendere viaggi rischiosi e a relazionarsi con trafficanti di esseri umani e funzionari governativi corrotti».

Il primo di questi accordi è stato firmato dall’Unione Europea con la Turchia nel 2016. Alla Turchia furono promessi 6 miliardi di euro in tre anni per ospitare i circa 3 milioni di siriani che erano scappati dalla Siria fin dal 2011 per via della guerra civile e delle violenze del regime di Bashar al Assad, e impedire loro di raggiungere l’Europa. Nel 2015 circa 911mila persone, di cui 500mila siriani, arrivarono in Grecia per poi cercare di raggiungere l’Europa occidentale attraverso la cosiddetta “rotta balcanica“.

«L’applicazione dell’accordo fra Unione Europea e Turchia può avere contribuito alla significativa riduzione del numero di persone che compiono il pericoloso viaggio fino in Grecia», ha scritto di recente l’International Rescue Committee, una delle più grandi ong al mondo che si occupano di migrazione, «ma il prezzo pagato da quelli che non ce l’hanno fatta ad arrivare nell’Unione Europea è stato inaccettabile».

Secondo i dati dell’UNHCR, dal 2017 ad oggi sono arrivati in Grecia via mare 155mila fra migranti e richiedenti asilo. Nello stesso periodo di tempo i morti nel tratto di mare fra Grecia e Turchia sono stati almeno 877 (come ogni dato sui morti in mare, è una stima conservativa). Nel 2015, con un numero di arrivi via mare 6 volte superiore, i morti registrati furono di meno: 799. Quando le frontiere marine sono presidiate da una certa autorità i trafficanti fanno partire le imbarcazioni di notte o in condizioni più rischiose, per eludere i controlli.

Un gruppo di migranti e richiedenti asilo arriva a bordo di un gommone sull’isola greca di Lesbo (AP Photo/Marko Drobnjakovic)

In questi anni poi decine di migliaia di persone sono state trattenute in condizioni spesso disumane nei campi di detenzione nelle isole greche, in una zona grigia amministrativa e burocratica. Per non parlare dei siriani costretti a rimanere in Turchia, che non possono in alcun modo ottenere un visto per entrare in Europa e chiedere asilo. La Turchia riconosce soltanto parzialmente la Convenzione ONU di Ginevra del 1951 sui rifugiati, il testo principale che prevede tutele e garanzie per le persone che chiedono asilo in un altro paese. I siriani scappati in Turchia vivono come cittadini di “Serie B”, con diritti estremamente limitati e dati allarmanti sul lavoro minorile.

Ma l’esempio di esternalizzazione delle frontiere più noto, e a cui probabilmente si farà riferimento per l’accordo con la Tunisia, è quello stretto con la Libia dall’Italia durante il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni.

La Libia è un paese in guerra civile da 12 anni, pieno di milizie e bande armate, che ancora oggi non è governato da un’unica entità governativa. Nel 2017 il governo italiano firmò un Memorandum di intesa per ridurre gli arrivi via mare di migranti, che nel 2016 erano stati 181mila, il numero più alto di sempre. Il Memorandum era stato firmato nel febbraio del 2017 e aveva una durata triennale. Da allora è stato sempre rinnovato dai vari governi e dalle maggioranze parlamentari che si sono succedute.

Nonostante il Memorandum fosse un testo molto generico servì soprattutto ad addestrare e fornire mezzi alla cosiddetta Guardia costiera libica, formata da milizie private spesso in combutta coi trafficanti di esseri umani, e a finanziare quelli che il documento chiamava «centri di accoglienza» in Libia. In realtà sono centri di detenzione dove avvengono torture e stupri sistematici, oltre che richieste di riscatto. La Libia non ha firmato la Convenzione ONU di Ginevra del 1951 sui rifugiati, che quindi non è tenuta a rispettare.

Il progetto The big wall del sito di news investigativo IrpiMedia ha individuato almeno 59 progetti finanziati dall’Italia e dall’Unione Europea alle autorità libiche dal 2017 a oggi per il controllo delle frontiere – quindi per il mantenimento dei centri e della cosiddetta Guardia costiera libica – per un totale che supera i 400 milioni di euro.

Un gruppo di migranti e richiedenti asilo intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica (AP Photo/Hazem Ahmed)

A giugno l’UNHCR aveva registrato la presenza di 44.468 fra rifugiati e richiedenti asilo in Libia. Il numero reale è verosimilmente molto più alto: l’UNHCR ha accesso a pochissimi centri di detenzione e il flusso di migranti verso la Libia è continuo. Le sofferenze dei migranti detenuti in questi centri è enorme. Quelli che riescono ad arrivare in Europa raccontano di condizioni disumane in cui gli omicidi per i richiedenti asilo che non pagano o provano a ribellarsi avvengono quotidianamente, così come gli stupri delle donne. A Bani Walid, una cittadina a sudest della capitale Tripoli nota soprattutto per il traffico di esseri umani, da mesi si parla della presenza di fosse comuni in cui sarebbero sepolti diversi migranti.

Abbiamo qualche certezza in più sul numero di morti in mare. Secondo il progetto Missing Migrants di IOM, l’agenzia ONU per la migrazione, dal 2017 ad oggi sono morti nel Mediterraneo centrale almeno 22mila persone. UNHCR stima che fra il 2014 e il 2016 arrivarono in Italia via mare circa 505mila migranti. Secondo Missing Migrants, nello stesso periodo ci furono almeno 10.849 morti. Dal 2017 a oggi, quindi in poco meno di 6 anni, gli arrivi sono stati 437.297, mentre i morti 11.160. In proporzione i morti sono aumentati: i viaggi dunque sono diventati più rischiosi, per via del pattugliamento aggressivo della cosiddetta Guardia costiera libica, che spinge i trafficanti a viaggiare di notte o a riempire ancora di più le imbarcazioni per massimizzare i profitti dei viaggi che vanno a buon fine.

Sulla carta gli 11.160 morti registrati dal 2017 a oggi sono un numero più contenuto rispetto ai 10.849 morti dei tre anni di picco del flusso: ma non raccontano tutta la storia delle conseguenze che ha avuto la firma del Memorandum.

Negli ultimi anni diversi governi italiani hanno osteggiato le attività di soccorso nel Mediterraneo da parte delle ong: molte hanno interrotto le proprie attività, e per questo il numero di dati e informazioni disponibili sui naufragi nel tratto di mare fra il Nord Africa e l’Italia è diminuito. I morti in mare, insomma, potrebbero essere stati molti di più. A loro vanno aggiunte le persone arrivate in Libia e poi sparite perché uccise nei centri di detenzione oppure respinte o rimpatriate o tornate nel proprio paese, su cui non esistono dati certi.

Nonostante le condizioni in Libia siano pessime, l’Italia e l’Unione Europea attrezzano e finanziano da anni la cosiddetta Guardia costiera libica affinché intercetti e riporti in Libia con la forza i migranti che provano ad arrivare in Italia.

Le intercettazioni in mare sono permesse con un’espediente. Dal 2018 l’Unione Europea riconosce alla Guardia costiera libica la responsabilità su una zona SAR, cioè un’area di mare in cui un certo stato costiero si impegna a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio (in inglese search and rescue, abbreviato in SAR). Le autorità costiere italiane ed europee non potrebbero riportare in Libia le imbarcazioni di migranti: le leggi europee vietano il respingimento di persone che intendono fare richiesta di asilo, come tutte le persone che cercano di arrivare in Italia via mare. Cedendo questo compito alla Guardia costiera libica, però, dal punto di vista legale l’Italia e i paesi europei non compiono alcuna violazione.

– Leggi anche: I soccorsi in mare dei migranti, spiegati bene

Senza i finanziamenti italiani ed europei però la Libia non sarebbe mai stata in grado di intercettare sistematicamente le imbarcazioni che partono dalle proprie coste. Lo stesso approccio verrà usato con la Tunisia, che nel 2023 è diventato il primo paese di partenza delle imbarcazioni di migranti verso l’Europa, superando proprio la Libia.

Nell’accordo fra Unione Europea e Tunisia è previsto un finanziamento da 105 milioni di euro che saranno utilizzati per potenziare le capacità della Guardia costiera tunisina e permettere un numero maggiore di intercettazioni di imbarcazioni di migranti. Un funzionario della Commissione Europea ha parlato genericamente della consegna di «assetti», cioè mezzi navali, alla Tunisia, ma senza specificare in quale quantità e quali assetti saranno ceduti alle autorità tunisine.

Al momento il Memorandum con la Tunisia non prevede l’apertura di centri di detenzione per migranti come avvenuto in Libia. Le condizioni dei migranti che verranno riportati in Tunisia dalla Guardia costiera tunisina saranno comunque problematiche. Ormai da qualche mese il presidente autoritario della Tunisia Kais Saied sta addossando la responsabilità della pesante crisi economica e sociale che sta vivendo il paese ai migranti subsahariani che da anni lavorano in Tunisia, usandoli come capri espiatori.

Da allora i migranti subsahariani subiscono discriminazioni continue da parte dei tunisini: molti sono stati sfrattati dalle proprie case e licenziati dai propri lavori, e anche per questo stanno cercando di raggiungere l’Europa con numeri che non hanno precedenti.

In teoria la Tunisia è un paese firmatario della Convenzione ONU di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma non l’ha mai applicata appieno, e ancora oggi non ha una legge sul diritto d’asilo. Questo dà alle forze di sicurezza tunisine uno spazio d’azione che quelle europee non hanno, simile a quello della cosiddetta Guardia costiera libica. A inizio luglio le forze di sicurezza tunisine avevano fermato circa 1.200 africani subsahariani nella città costiera di Sfax, da cui parte la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia, e li hanno abbandonati senza cibo né acqua in una zona desertica al confine con la Libia.

È plausibile che il Memorandum firmato con l’Unione Europea legittimi altre operazioni di questo tipo, oltre che su un piano più ampio i governi da cui dipendono le forze dell’ordine che lo applicano: i governi territoriali e le milizie armate in Libia, il governo autoritario di Recep Tayyip Erdogan in Turchia, e quello autoritario di Saied, oggi, in Tunisia.