Come iniziò il Tour de France
Fu l'iniziativa di un giornale, nato per le conseguenze indirette dell'Affaire Dreyfus, che 120 anni fa aveva bisogno di una corsa per vendere più copie
di Gabriele Gargantini
Il 19 luglio del 1903 a Ville-d’Avray, un comune poco fuori Parigi, terminò la prima edizione del Tour de France. La corsa, partita il primo luglio da Parigi, ebbe una lunghezza complessiva di 2.428 chilometri, che il vincitore, il francese di origini valdostane Maurice Garin, percorse con una velocità media di 25,6 chilometri orari.
Quel primo Tour fu organizzato quando già era popolarissimo il ciclismo su pista e mentre si stavano affermando le gare su strada, ma quando ancora di fatto non esistevano le corse ciclistiche a tappe. Organizzarlo – con lo scopo primario di far vendere più copie al giornale che se ne prese carico – fu un azzardo che richiese grandi investimenti, parecchia improvvisazione e molte modifiche in corsa. Gran parte del merito fu di Henri Desgrange, un uomo fondamentale per la storia del ciclismo, anche se l’idea di fare una corsa a tappe da chiamare Tour de France non fu sua ma di un suo giovane assistente. E ci sono margini per sostenere, andando indietro di qualche anno, che la nascita del Tour de France fu una conseguenza indiretta dell’Affaire Dreyfus.
Henri Desgrange era nato a Parigi nel 1865 e scoprì il ciclismo, e le gare in bicicletta, mentre era impiegato in uno studio legale. Per un po’ riuscì a far convivere le due attività, poi finì per dedicarsi a tempo pieno al ciclismo (secondo certe versioni dopo che alcuni suoi clienti si lamentarono di averlo visto gareggiare, in un tempo in cui la pratica era piuttosto malvista). Fu Desgrange a convincere il proprietario delle Folies Bergère a investire parte dei suoi ricavi in un nuovo velodromo e fu sempre lui, in quel velodromo intitolato a Buffalo Bill, a stabilire nel 1893 il primo record dell’ora, con l’esplicito intento di «dare agli altri qualcosa da migliorare» e con l’implicita volontà di diventare il primo detentore riconosciuto di un record che si augurava avesse futuro.
Discreto ciclista su strada, Desgrange divenne giornalista e responsabile delle attività di alcuni velodromi, e nel 1894 fu autore del saggio sul ciclismo La Tête et les Jambes.
Nel 1900, in virtù della sua rapida ascesa nel giornalismo sportivo francese, Desgrange fu chiamato a dirigere un nuovo giornale, L’Auto-Vélo. Quel giornale, le cui pagine erano gialle, era nato perché alcuni investitori avevano scelto di smettere di finanziare Le Vélo, il più popolare quotidiano sportivo francese di quel periodo, dopo che il suo fondatore e direttore Pierre Giffard aveva preso posizione, su un altro giornale, in difesa del generale Alfred Dreyfus, francese di Alsazia ed ebreo accusato, in un caso che divise la Francia per anni, di aver venduto segreti militari alla Germania.
L’Auto-Vélo, che presto dovette cambiare il nome in L’Auto per una eccessiva somiglianza con il suo principale concorrente, aveva due problemi principali: doveva trovare il modo di vendere copie (difficilmente superava le 20mila, mentre Le Vélo arrivava spesso a cinque volte tanto) e aveva la necessità, nonostante il suo nuovo nome, di una forte associazione con il ciclismo. C’era bisogno di organizzare una corsa ciclistica: per promozione e per raccontarne la storia.
L’idea del Tour de France venne a Georges Lefèvre, giornalista di 26 anni dell’Auto che ne parlò a Desgrange come di una “Sei giorni”, però itinerante. Le Sei giorni, che ancora esistono, erano popolarissime competizioni su pista, con gare divise proprio in sei giornate. Il principio di base era di portare il ciclismo su strada in tour per la Francia passando per le principali città del paese, in modo non troppo diverso rispetto a quanto già era successo con il Tour de France automobile organizzato nel 1899 dal giornale Le Matin.
Desgrange trovò finanziatori, pianificò percorsi e nel gennaio del 1903 annunciò la creazione della «più grande corsa a tappe al mondo». Nei piani iniziali tra giorni di gara e di riposo la corsa doveva durare in tutto cinque settimane, con un costo d’iscrizione per ogni corridori di 20 franchi. Forse per i soldi o forse per la lunghezza dell’impegno, si iscrissero però in pochissimi, cosa che a pochi giorni dall’inizio della corsa portò Desgrange a rimodulare la proposta: la gara sarebbe durata dall’1 al 19 luglio, con costi dimezzati, con un premio di cinque franchi per i migliori 50 di ogni tappa e con un montepremi complessivo di 20mila franchi, pari a circa 100mila euro di oggi.
Per il percorso del Tour, che negli anni successivi sarebbe diventato noto anche come Grande Boucle, grande ricciolo, per come avvolgeva la Francia, Desgrange optò per un giro in senso orario che oltre a Parigi toccasse Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux e Nantes. La tappa più lunga era l’ultima, con 471 chilometri; il punto più alto toccato dalla corsa erano i 1.161 metri del Col de la République, nella seconda tappa. Ancor più che le salite preoccupavano tuttavia le discese, perché oltre a non avere “cambi” le biciclette da quasi venti chili usate durante il primo Tour de France non avevano freni: erano a scatto fisso, per frenare bisognava pedalare all’indietro o mettere i piedi a terra.
Grazie alle nuove regole e ai maggiori incentivi economici si iscrissero ottanta corridori, solo sessanta dei quali si presentarono però il primo luglio alla partenza presso il Cafe au Réveil-Matin di Montgeron, a sud di Parigi. Di quei sessanta, solo poco più di venti avevano un qualche tipo di accordo di sponsorizzazione con un’azienda di biciclette: era ancora presto per parlare di squadre e relative tattiche di squadra, ma avere un’azienda sponsor permetteva un certo tipo di assistenza tra una tappa e l’altra. I restanti corridori erano invece isolati, dovevano cioè arrangiarsi in ogni aspetto. La maggior parte dei partenti era francese e l’unico italiano era Rodolfo Muller.
Il fatto che molti dei corridori facessero e sarebbero poi tornati a fare altri lavori era evidente anzitutto dai soprannomi con cui erano noti: il minatore, il macellaio, lo spazzacamino. Altri si iscrissero sotto pseudonimo, sempre perché fare il ciclista su strada era percepito dai più come qualcosa di avventuroso ma non proprio nobilitante.
A seguire la corsa per l’Auto, talvolta pure lui in bicicletta, fu Lefèvre, che un po’ faceva da giudice, un po’ da giornalista e un po’ da direttore di corsa. Desgrange restò invece a Parigi, così da poter pubblicare da lì i resoconti delle tappe. Il giorno della partenza scrisse:
«Con lo stesso gesto potente e significativo che Émile Zola conferisce ai suoi braccianti in La terra, così L’Auto, giornale di idee e di azione, spinge oggi verso la Francia questi incoscienti e tenaci seminatori di energia che sono i corridori professionisti delle lunghe distanze. I nostri uomini fuggiranno disperatamente e senza sosta, schiveranno il sonno, forgeranno un nuovo vigore e daranno vita a nuove ambizioni per essere qualcosa, seppur solo tramite i muscoli, che è meglio di essere niente».
Le regole del Tour erano poche e semplici: per vincere la classifica generale bisognava aver percorso tutte le tappe in un tempo totale minore rispetto a tutti gli altri. A differenza del ciclismo attuale (e anche di quello di poco successivo a quel primo Tour) chi si ritirava in una tappa poteva prendere comunque il via alle successive: in quel caso correva però solo per la vittoria di tappa mentre era escluso dalla classifica generale.
Dati i precedenti pressoché assenti, era difficile ipotizzare chi potessero essere i favoriti per quel Tour de France, anche se in virtù dei loro risultati in corse su strada di un giorno i due corridori più attesi al via, già protagonisti di una delle prime grandi rivalità del ciclismo, erano Hippolyte Aucouturier e Maurice Garin, rispettivamente supportati dal marchio Crescent e dal marchio La Française. Soprannominato Le Terrible, Aucouturier era nato nel 1876, correva su strada dal 1900 e in quel 1903 già aveva vinto una Bordeaux-Parigi e soprattutto una Parigi-Roubaix.
Di sette anni più anziano rispetto ad Aucouturier, Garin era nato ad Arvier, in Valle d’Aosta, ma era diventato francese a inizio Novecento dopo diversi anni passati in Francia a lavorare come spazzacamino. Il suo 1903 era stato ciclisticamente peggiore rispetto a quello del rivale, ma negli anni precedenti era comunque riuscito a vincere anche lui una Bordeaux-Parigi e due Parigi-Roubaix.
La prima tappa fu vinta da Garin, il quale, partito nel primo pomeriggio da Parigi, arrivò a Lione la mattina del giorno successivo. Garin precedette di circa un minuto il connazionale Émile Pagie; il terzo arrivò dopo mezzora, il quarto dopo un’ora, il trentasettesimo e ultimo all’arrivo ci mise più del doppio rispetto a Garin.
Tra i molti che non finirono quella tappa ci fu Aucouturier, per il quale si parlò di problemi di stomaco, assai frequenti in un periodo in cui ancora c’erano molta sperimentazione e approssimazione su ciò che si mangiava e beveva per sostentarsi durante la corsa. Da regolamento, Aucouturier poteva partecipare ad altre tappe e provare a vincere i relativi premi ma era ormai escluso dalla classifica generale.
La seconda tappa, quella con il Col de la République, fu vinta da Aucouturier. Garin arrivò quarto a più di 25 minuti ma conservò il primato in classifica, che allora anziché dalla maglia gialla era simboleggiato da una fascia verde da mettere al braccio. Aucouturier vinse anche la terza tappa, nonostante uno dei tanti cambi di regolamento fatti in corsa da Desgrange lo avesse costretto a partire – insieme con altri ciclisti non più in corsa per la classifica generale – un’ora dopo il resto del gruppo. Garin arrivò di nuovo quarto, ma comunque molto prima dei principali rivali in classifica, il più vicino dei quali aveva già accumulato un ritardo complessivo di quasi due ore.
La quarta tappa, da Tolosa a Bordeaux, lunga 268 chilometri, fu la più breve di quel primo Tour e non creò nemmeno grandi distacchi in classifica: vinse lo svizzero Charles Laeser mentre l’italiano Muller, nato a Livorno ma poi cresciuto in Francia, concluse terzo.
Garin vinse la quinta tappa, con arrivo a Nantes, ma fu una vittoria contestata da un suo compagno di fuga, secondo il quale Garin aveva provato a corrompere alcuni corridori per convincerli a farsi battere, arrivando a chiedere a uno di loro di far cadere un rivale e danneggiare la sua bicicletta. L’Auto non parlò della faccenda, ma ne parlarono altri giornali: pare inoltre che nella sesta e ultima tappa, per paura di essere aggredito dai tifosi a lui avversi, Garin cambiò i suoi tipici indumenti, così da non essere riconosciuto. Garin vinse anche quella tappa, che dopo il traguardo a Ville-d’Avray si concluse con un giro d’onore al velodromo del Parco dei Principi davanti a 15mila spettatori. Per vincere il Tour de France, Garin aveva impiegato 94 ore e 33 minuti per percorrere quelli che si stimarono essere 2.428 chilometri. Secondo, con quasi tre ore di ritardo, fu Lucien Pothier; terzo arrivo Fernand Augereau, che lo aveva accusato dopo la quinta tappa. Il ventunesimo e ultimo in classifica generale, con 61 ore di ritardo, fu Arsene Millocheau.
Fuori dalla Francia l’interesse per il primo Tour de France fu scarso: il Corriere della Sera dedicò alla corsa scarni trafiletti di poche righe, uno dei quali finì appena sotto a una notizia sulla stagione del tiro al piccione a Livorno e appena sopra a un sintetico resoconto su «una gara di marcia dei banchieri parigini».
In Francia, invece, il Tour fu subito un successo: di pubblico lungo le strade, alle partenze e agli arrivi, e di copie vendute per i giornali, soprattutto per L’Auto, che durante i giorni di corsa arrivò a vendere oltre 65mila copie al giorno e che nell’edizione successiva al termine della corsa vendette oltre 100mila copie. Da parte di altri giornali ci furono critiche a presunti brogli durante la gara e a come e quanto Desgrange avesse cambiato le regole in corsa: ci fu chi parlò di un “Tour d’essai”, di prova.
L’Auto vendette molte copie anche nei mesi successivi, affermandosi così come il giornale sportivo francese di riferimento. Le Vélo chiuse nel 1904 e Desgrange chiamò Giffard, il direttore che aveva difeso Dreyfus, a scrivere per L’Auto.
Nel 1904 il Tour ebbe molti più problemi: per il pubblico troppo partecipe (a favore o contro determinati corridori) e perché molti corridori furono accusati di aver sfruttato mezzi di trasporto diversi dalla bicicletta per percorrere alcuni tratti. Nonostante quei problemi il Tour riuscì però a resistere e diventare la più grande corsa ciclistica, uno degli eventi sportivi più seguiti al mondo e uno dei simboli della Francia: c’è perfino chi sostiene che ebbe un ruolo determinante nel rinforzare l’identità francese, anzitutto dando ai francesi una chiara percezione della forma del loro paese.
– Leggi anche: La gran storia del primo Giro d’Italia