Elogio funebre per Twitter

«Emotivamente, oggi il social network fa lo stesso effetto di camminare in un quartiere a lungo amato, trasformato in una copia irriconoscibile di sé stesso da anni di gentrificazione. Un’intensa nostalgia per un posto che sì, magari era un po’ losco, ma se ci investivi un po’ di tempo ti restituiva amicizie, opportunità, nuove comprensioni del mondo. Una rabbia altrettanto intensa, perché un posto tanto prezioso sembrava al riparo dai ragionamenti del mercato»

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Il 4 luglio un’amica che lavora con i social network da più di dieci anni mi ha scritto un messaggio. Diceva: «A me questa cosa che sta succedendo a Twitter provoca davvero una tristezza enorme e reale». Era qualche giorno che Elon Musk prendeva decisioni più erratiche del solito: obbligare tutti ad accedere alla piattaforma per poter leggere un qualsiasi tweet, limitare il numero di tweet visualizzabili, smettere di pagare i servizi di Google Cloud, servizio a cui affidava parte della propria infrastruttura. La tristezza reale di cui parlava lei – di cui hanno parlato, in modo più o meno esplicito, tantissimi utenti assidui di Twitter da quando ha cominciato a circolare la voce che sarebbe stato comprato da Musk – non era legata però soltanto a un paio di scelte molto discutibili. Era la tristezza, e la frustrazione, di qualcuno che non può che stare a guardare mentre un posto del cuore viene distorto fino a diventare quasi irriconoscibile.

Twitter non è mai stato uno spazio davvero di massa: negli Stati Uniti, dove ha avuto un’influenza incomparabile rispetto a quella che ha avuto in Italia, nel 2022 lo usava circa il 23 per cento delle persone, contro il 69 per cento di Facebook e il 40 per cento di Instagram. Degli statunitensi presenti su Twitter, il 25 per cento più attivo produceva il 97 per cento di tutti i tweet: tutti gli altri erano sostanzialmente spettatori silenziosi, non molto inseriti nella cultura particolare della piattaforma.

E non è mai stato davvero nemmeno un posto particolarmente piacevole per chi lo abitava, anzi. In inglese da qualche anno la piattaforma si è guadagnata il soprannome di “the hellsite” (“il sito infernale”) per una miriade di ragioni diverse: una moderazione dei contenuti a lungo lacunosa; un’ostilità virulenta diffusa tra sacche molto rumorose di utenti nei confronti di donne e minoranze, con grosse conseguenze sulla salute mentale delle vittime di hate speech; la possibilità di far circolare notizie false più o meno gravi nell’arco di pochi minuti; un’incredibile capacità di alcuni di leggere qualsiasi cosa nella peggiore fede possibile; un design della piattaforma che talvolta ti portava a perdere ore di sonno preziose impegnata com’eri a scrollare un feed pieno delle peggiori notizie del mondo.

Esiste un intero filone di meme dedicato all’idea che passare così tanto tempo in spazi come Twitter crei danni psicologici irreversibili, rendendo le persone “cronicamente online” inadatte a funzionare correttamente nel “mondo reale”. Ed esistono interi rami di ricerca accademica che cercano di capire quale effetto abbiano avuto i social network, tra cui Twitter, su problemi che vanno dalla radicalizzazione dei più giovani verso l’estrema destra all’incidenza dei disturbi alimentari.

Nonostante i molti punti d’ombra che hanno portato tantissime persone ad allontanarsi da Twitter molto prima che fosse acquistato da Elon Musk, però, l’atmosfera non è mai stata tanto desolante quanto negli ultimi mesi. Il giornalista Willy Staley è stato molto preciso quando ha scritto sul New York Times che per anni su Twitter regnava l’atmosfera (il “vibe”, se vogliamo) di una festa turbolenta e a tratti indisciplinata ma piena di vita, e Musk ha un po’ ucciso quel vibe. Oggi «il sito sembra più vuoto, anche se certamente non ancora morto. Assomiglia piuttosto al momento di una festa in cui rimane soltanto chi ama bere. Si versa whisky nei bicchieri da vino, i piatti per il formaggio diventano posacenere. Si sta ancora abbastanza bene – anzi, magari si è un po’ più rilassati – ma aleggia la sensazione che si stia soltanto posticipando l’inevitabile», ha scritto Staley.

Per la gente che non frequenta assiduamente Twitter o altri spazi digitali attorno a cui si sono formate forti comunità, l’idea che i cambiamenti di una piattaforma possano suscitare questo genere di emozioni e riflessioni potrebbe sembrare assurdo. E in effetti ho notato più volte la sorpresa di amici incontrati “nel mondo reale” quando dico che senza Twitter la mia vita sarebbe completamente diversa. Ma sono sempre molto seria.

Ho aperto il mio profilo su Twitter nel 2009, all’inizio della seconda superiore. Avevo un nome utente imbarazzante preso in prestito dalle Luci della centrale elettrica, un profilo Facebook in cui pubblicavo cose fin troppo personali, un altro su Tumblr per sfogare una passione un po’ ossessiva nei confronti di certe serie tv e libri fantasy. Tantissimo tempo da ammazzare dopo scuola, bloccata com’ero nel genere di campagna veneta che ti fa apprezzare le Luci della centrale elettrica. Per qualche mese sembrava che su Twitter ci fossimo soltanto io, un ragazzo con cui avevo fatto amicizia su Netlog prima che tutti migrassimo altrove e un compagno di scuola di cui ero perdutamente innamorata. Lo usavo quasi soltanto per twittare stralci di canzoni dei Radiohead e fargli sapere in modo manco tanto indiretto che ascoltavamo le stesse cose, che ero un’anima tormentata quanto lui, e che questo voleva dire senza dubbio che eravamo fatti l’uno per l’altra. Gli smartphone sarebbero diventati onnipresenti anni dopo, ma per twittare non c’era bisogno di stare di fronte al computer: bastava mandare un sms a Twitter.

Dal 2009 sono passati quattordici anni, ho vissuto in sette città diverse, finito di studiare, cominciato a muovermi in un settore – il giornalismo – in cui all’inizio avevo a malapena qualche contatto stretto all’università e, appunto, su Twitter. Lì sopra ho conosciuto alcuni dei miei migliori amici, tra cui la persona che mi ha offerto casa sua quando mi sono trovata di fronte allo scoglio di cercare un appartamento a Milano e che è tuttora stabilmente tra le persone più contattate su WhatsApp. Twitter mi ha permesso di rimanere in contatto per anni con persone che altrimenti sarebbero senza dubbio scivolate nell’oblio: persone con cui ora vado a fare colazione la domenica mattina, con cui sono andata in vacanza, che ho ospitato più volte sul divano in una città o nell’altra, di cui sono stata al matrimonio. Il quantitativo eccessivo di tempo che entrambi passavamo su quel sito è una delle prime cose in comune che ho avuto con una delle persone che più ho amato (e che più mi hanno spezzato il cuore).

Non servo io per spiegare quanto Twitter abbia plasmato il giornalismo, quanto i giornalisti a sua volta ne siano stati plasmati. La morte di TweetDeck, piattaforma usatissima per sapere a colpo d’occhio di cosa stavano parlando centinaia di esperti, colleghi e fonti, è di per sé un grosso danno per la categoria. Il fatto che lo stesso sito potesse essere usato per postare citazioni dei Radiohead dalla provincia veneta e per dare in anteprima alcune delle notizie più importanti degli ultimi dieci anni è stato praticamente un miracolo. E per persone che come me cercavano di entrare in un settore in cui non conoscevano quasi nessuno, per un periodo Twitter è stato veramente un sogno: nei messaggi privati sono stati scambiati consigli, contatti e complimenti; sono arrivati inviti a podcast ed eventi; sono nate collaborazioni longeve.

C’è chi ha avuto esperienze che hanno cambiato la vita ancora più che a me: persone che su Twitter hanno incontrato il futuro marito o moglie; la cui storiella raccontata in modo avvincente in un thread è diventata un film; che dalla piattaforma sono riuscite a farsi commissionare intere serie tv, libri, fumetti. E sto scegliendo volontariamente di concentrarmi soltanto sulle ripercussioni individuali, perché all’impatto che Twitter ha avuto sulla conversazione pubblica a livello internazionale nel bene e nel male – tra #MeToo e #BlackLivesMatter, un’ossessione sproporzionata di alcune persone per la cosiddetta “cancel culture” e l’ascesa di Donald Trump – sono già state dedicate migliaia di pagine di libri e studi.

Immaginare che tutto questo continui a esistere sotto a una gestione che negli ultimi nove mesi ha dimostrato di interessarsi soprattutto a cavare milioni da una piattaforma che non ha mai davvero generato profitto economico, alienando al contempo una parte molto attiva dei propri utenti, non è impossibile, ma è difficilissimo. Emotivamente, stare su Twitter oggi fa lo stesso effetto di camminare in un quartiere a lungo amato, trasformato in una copia irriconoscibile di sé stesso da anni di gentrificazione. Un’intensa nostalgia per un posto che sì, magari era un po’ losco, ma se ci investivi un po’ di tempo ti restituiva amicizie, opportunità, nuove comprensioni del mondo. Una rabbia altrettanto intensa, seppur magari naive, perché un posto tanto prezioso sembrava al riparo dai ragionamenti del mercato, e ora non è più lo stesso, e non ce n’è un altro dove rifugiarsi, per quanto Mark Zuckerberg sia convinto del contrario.

Twitter non è il primo spazio digitale che perdo. Soltanto tra i siti che ho frequentato assiduamente per tratti rilevanti della mia vita c’è stato Facebook, che ora da intere generazioni (tra cui la mia) è visto più o meno come un cimitero degli elefanti. Netlog ed MSN, uccisi da Facebook quanto FriendFeed, da cui tantissimi italiani sono migrati verso Twitter. Tumblr, punito per l’assurda decisione di bandire le foto di tette. E naturalmente il forum italiano dedicato a Harry Potter su cui ho imparato ad amare internet quando avevo a malapena dieci anni, di cui oggi non esiste alcuna traccia tangibile.

Twitter però per me, e per tantissime altre persone cronicamente online, è stato qualcosa di più. La cosa davvero triste è allora forse il fatto che abbiamo permesso – continuiamo a permettere – che a svolgere ruoli così preziosi fosse sostanzialmente uno spazio privato, vulnerabile in qualsiasi momento ai capricci di un miliardario, che non è il primo e non sarà l’ultimo.

Viola Stefanello
Viola Stefanello

È nata in provincia di Padova e ha vissuto a Gorizia, Parigi e Roma prima di cedere a Milano. Ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche prima, Giornalismo e diritti umani poi, ma scrive spesso di “cose da nerd”. Prima del Post ha scritto su Repubblica, Internazionale e altre testate. Passa molto tempo online.

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