Come Milan Kundera si mise a scrivere in francese
Lo ha raccontato la giornalista di Le Monde Ariane Chemin nella biografia "Nome in codice: Elitár I"
Milan Kundera, il celebre scrittore ceco morto l’11 luglio a 94 anni, era molto riservato: da anni rifiutava di farsi intervistare e pensava che uno scrittore dovesse parlare al resto del mondo attraverso i suoi libri, e non rispondendo alle domande dei giornalisti. Tuttavia nel 2019 sua moglie Vera e varie persone a lui vicine accettarono di raccontare alcuni momenti della sua vita alla giornalista di Le Monde Ariane Chemin, per una serie di articoli pubblicati sul quotidiano e poi raccolti nel libro Nome in codice: Elitár I, che in Italia è stato pubblicato quest’anno da NR Edizioni.
Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo che spiega come mai l’autore di L’insostenibile leggerezza dell’essere scrisse i suoi ultimi libri in francese invece che in ceco, una ventina d’anni dopo la fuga dalla Cecoslovacchia e l’arrivo a Parigi (Kundera se ne andò dalla Cecoslovacchia perché perseguitato dal regime comunista). Il cambio di lingua non fu apprezzato dalla critica francese, ma Kundera non tornò più al ceco.
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Tutto inizia durante una conversazione con Alain Finkielkraut. Nel 1979, il filosofo discute con Milan Kundera per il Corriere della Sera e la rivista L’Express. “Perché lo stile ‘agghindato’ e ‘barocco’ de Lo scherzo è diventato così ‘spoglio’ e ‘limpido’ nei suoi libri successivi?”, chiede Finkielkraut. Lo scrittore cecoslovacco non comprende bene la domanda. Si immerge nuovamente in questo romanzo pubblicato a Parigi nel 1968, che ha segnato l’inizio della sua gloria.
Leggermente modificata o meno, il resto della storia è raccontata da Kundera in una nota aggiunta alla “versione definitiva” de Lo scherzo. “Rimasi sbalordito”, spiega il romanziere. Giura di aver scoperto che il romanzo non era stato “tradotto”, ma “riscritto”. A riprova redige un inventario delle più atroci “metafore abbellitrici” che gli sono state inflitte: “il cielo era azzurro”, in ceco, era diventato in francese “sotto un cielo pervinca, ottobre issò il suo sontuoso palvese”; “Lei cominciò a colpire furiosamente l’aria intorno a se stessa” fu tradotto come “I suoi pugni infuriavano come un frenetico mulino a vento”…
L’autore dell’oltraggio si chiama Marcel Aymonin. Nessuno conosce più quel nome – e per una buona ragione. La Guerra fredda si è infiltrata anche nel mondo della traduzione: intorno al personaggio aleggia un sentore di scandalo. Iscritto al Partito comunista francese nel 1948, Aymonin era attaché culturale del “servizio diplomatico francese” in Cecoslovacchia. Ma il 27 aprile 1951, quindici anni prima della sua collaborazione con Kundera, tenne una conferenza stampa a Praga per denunciare “la Francia, valletta dell’imperialismo americano”. Si spinse addirittura a chiedere alle autorità comuniste il diritto di asilo.
Chi è stato davvero il primo traduttore di Kundera? Un militante ottuso o implacabile? Un agente di Praga? “Mi sono posto spesso la domanda”, sospira François Kérel, 95 anni, il traduttore più fedele di Kundera. “Se era una spia, era una spia di basso livello”.
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Fu a metà degli anni Ottanta, dopo il successo de L’insostenibile leggerezza dell’essere, che lo scrittore iniziò la sua “grande campagna di riscrittura”, per usare l’espressione di Ricard. Pretende di rivedere le traduzioni dei testi dal ceco, quasi parola per parola. Per esempio, Kundera si fissa su questo brano di Amori ridicoli, tradotto da François Kérel: “Il suo corpo mette fine alla sua resistenza passiva. Edouard era commosso!”. “Commosso”? Ridicolo, si ribella il romanziere. “Emozionato”? Bah. Deve scrivere: “Édouard banda” (in francese banda indica avere un’erezione, ndt). Scoppia una lite. “Francamente, per me ‘banda’ non funzionava”, racconta Kérel. “Con Kundera non c’è mai niente di volgare, il suo vocabolario è classico. Non ero d’accordo e ancora non lo sono, ma ho ceduto…”.
Penna alla mano, lo scrittore mette a punto da solo le “versioni definitive” dei suoi libri: una sorta di denominazione controllata, che stipula che “soltanto il testo rivisto dall’autore ha lo stesso valore del testo ceco”. Un po’ offensivo per il traduttore: “L’avevo presa un po’ male”, conviene Kérel, che nel 1990 declina l’offerta per tradurre anche L’immortalità, con il pretesto di avere troppo da fare all’ONU, dove questo ex comunista lavora. Una certa Eva Bloch si incarica del compito al suo posto. Eva Bloch? Sconosciuta alla schiera di traduttori. Gli specialisti di Kundera si sfasciano la testa per capire chi sia, invano. “Sono convinto che si tratti di Kundera stesso. Adora la mistificazione”, dice Finkielkraut. “Mi ha giurato che si trattava di un’amica, ma chi è?”, si chiede Ricard. “È tutto molto kunderiano…”.
È come se traducesse dal francese al francese: negli anni Novanta, Kundera trascorre quasi più tempo a tradurre che a scrivere. Cancellazioni, scarabocchi, nessuna pagina resta bianca: una vera spirale maniacale. Quando all’improvviso, nel 1995, appare La lentezza, il primo di un ciclo di brevi romanzi di estrema sobrietà. È scritto in francese nel testo: un piccolo avvenimento. Nel 1980, quando il futuro presidente dell’Académie Goncourt, François Nourissier, gli suggerì questa mini-rivoluzione, lo scrittore ceco si disse incapace: “Non posso pensare di lavorare in un’altra lingua. Sono troppo vecchio. Un saggio sì, ma non un romanzo”. “Sei anni più tardi, mi spiegava ancora che non sarebbe mai stato in grado di padroneggiare la ricchezza del vocabolario della lingua francese”, mi confida Christian Salmon, suo ex assistente e amico.
Traduzione di Francesco Maselli
© 2021, Ariane Chemin
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