La gestazione per noi
«Era una decisione che non riguardava solo me: è stata la più profonda della mia vita e si è compiuta solo attraverso la conoscenza, il confronto e la vita quotidiana con Wendy, la donna americana che ha deciso di aiutarci. E mentre si parla ossessivamente di dignità delle donne, mi sembra sia proprio la voce delle donne che scelgono di portare un bimbo alla luce ad essere tenuta completamente fuori dal dibattito»
Ero al saggio di danza delle bambine quando è arrivata la notizia del voto in Commissione giustizia della Camera, il primo passo concreto verso la legge che vuol rendere reato universale la gestazione per altri.
Vedendole ridere insieme alle loro compagne, tutte sui cinque anni e con lo stesso tutù rosa, il pensiero è stato inevitabile: non sarebbero nate; e altre bimbe come loro non potranno più farlo.
Prima al mondo, l’Italia vuole perseguire i cittadini che come abbiamo fatto in passato Vittorio ed io cercheranno di avere un figlio anche dove è legale: immaginare la nascita delle mie figlie come un crimine non è facile.
«Voi ormai esistete già, a voi non potranno fare nulla», ci ripetono in molti, con le migliori intenzioni. Lo facevano già qualche mese fa, quando sono arrivate le prime circolari ministeriali contro i riconoscimenti di due mamme o due papà.
Non è una consolazione.
Questi mesi sono stati di parole sempre peggiori. Ora le parole stanno diventando fatti.
L’ho percepito la prima volta quando qualcuno lo ha detto per davvero in tv, con la serenità di chi pensa di poterlo dire, che noi omosessuali spacciamo per figli bambini che non sono i nostri. L’ho colto definitivamente quando davanti al papa in persona è stato urlato che la maternità non è in vendita, gli uteri non si affittano, i figli non sono prodotti da banco.
È stata una corsa sempre più rapida, fino alla sanatoria proposta pochi giorni fa dal ministro della famiglia, per regolarizzare quei bambini che ormai sono nati.
Parole in cui il problema non sono «i bambini trattati come abusi edilizi» di cui ha parlato Elly Schlein: sono i bambini trattati come errori da non ripetere.
Quando al saggio la musica è finita le bambine emozionate hanno cominciato a fare mille video tutti uguali.
Mio padre, come sempre, da casa le stava attendendo come un fan.
«State privando un bambino della sua mamma», mi aveva detto, incassata la notizia che avremmo avuto un figlio. Non mi ero scomposto, era immaginabile una prima reazione del genere. Ero ampiamente preparato.
Gli avevo scritto una lunga email il cui senso era stato in definitiva questo: non avremmo strappato nessun bimbo a un diverso destino, gli avremmo permesso di averne uno, perché quel bimbo non avrebbe avuto altro modo di nascere che questo.
«Te ne renderai conto quando avrai quel tuo nipote, irripetibile, tra le braccia». E in effetti è andata proprio così, salvo che quel bimbo sono alla fine state due bimbe.
Per più di tre anni, prima di mandargli quella email, avevo riflettuto sulla gpa. Avevo cercato di imparare da chi l’aveva studiata, di condividere con chi l’aveva scelta o, come noi, la stava scegliendo. Avevo immaginato più volte quello che sarebbe stato, nei suoi momenti e nelle sue implicazioni.
Era una decisione che non riguardava solo me: è stata la più profonda della mia vita e si è compiuta solo attraverso la conoscenza, il confronto e la vita quotidiana con Wendy, la donna americana che ha deciso di aiutarci. E mentre si parla ossessivamente di dignità delle donne, mi sembra sia proprio la voce delle donne che scelgono di portare un bimbo alla luce ad essere tenuta completamente fuori dal dibattito.
Che cos’è la gpa, però, posso dirlo davvero per quello che oggi siamo lei, le due piccole Vittorio e io.
La chat di whatsapp è utilissima. La usiamo ancora, perché con Wendy non abbiamo mai smesso di sentirci. Solo in queste settimane l’abbiamo fatto un po’ meno: fatico a raccontarle tutta questa storia.
A leggerli, i nostri discorsi sono quelli dei buoni amici sui quaranta e, come tutti i genitori, parliamo tanto dei nostri figli: dei suoi tre, ormai in età da high school, e delle nostre due, che a settembre cominceranno le elementari.
Ci raccontiamo come crescono e come insieme a loro cresciamo noi: i nostri lavori e il suo nuovo compagno, sua madre e i nostri genitori, Claudia, la sua migliore amica che era con noi anche il giorno in cui sono nate le piccole.
Loro stesse sono parte di questo scambio.
L’altra mattina, uscendo per l’ultimo giorno di asilo, hanno voluto mandarle una foto dei loro vestiti nuovi. A lei, oltre che alla nonna e alle zie.
Hanno imparato che Wendy sta andando a dormire, quando loro vanno a scuola: ha risposto per prima, come sempre.
Poche parole dolci, quelle che bastano.
La prima volta in cui gli avevo detto che da un po’ avevo cominciato a pensarmi genitore, Vittorio mi aveva preso per matto: lui l’idea l’aveva messa da parte.
È stato il percorso di molti: uno va in fuga in avanti mentre l’altro tentenna più cauto, fino a che a entrambi diventa evidente che c’è un grande salto da fare e che si tratta di prendere il coraggio a due mani.
Ricordo tutto: i contatti con altre coppie, una casa più adatta, i contatti con l’America e i risparmi, con le piazze, le unioni civili e Famiglie Arcobaleno sullo sfondo.
Quando l’abbiamo conosciuta, Wendy arrivava dalla propria storia: tre figli, un lavoro, un matrimonio finito, l’indipendenza. E l’idea della gpa: l’aveva conosciuta attraverso l’esperienza di un’amica e si era messa in contatto con alcune donne che, dopo la loro gpa, avevano aperto una piccola agenzia. Noi da qualche mese avevamo incontrato Amber, la ragazza che ci aveva donato gli ovuli, e la clinica aveva formato gli embrioni.
Da poco Wendy aveva interrotto la conoscenza con un’altra coppia, eterosessuale, con cui non era riuscita a entrare in empatia. Tra noi è andata diversamente, e associo la svolta ad un preciso momento del nostro incontro: la sua risposta alla domanda che avevo pronta da mesi.
«Perché non dovrei volerlo? È la cosa più bella che posso fare a questo punto della mia vita».
Era ormai qualche giorno che stavamo insieme a San Diego.
Wendy aveva un ricordo straordinario delle sue tre gravidanze e proprio questo l’aveva avvicinata all’idea della gpa.
Successivamente, però, ci ha sempre detto quanto questa quarta le risultasse diversa.
Semplicemente: non era sua. Questa volta non portava un figlio che aveva deciso di mettere al mondo, non viveva l’attesa di averlo e crescerlo.
«È una differenza enorme: non immaginavo che sarebbe stato così chiaro, e al tempo stesso bello».
Non ho mai smesso di cercare di verificare se in realtà sentisse qualcosa di diverso.
Solo con la nascita ho trovato la risposta definitiva. Silenziosa ma chiara, nelle settimane successive, trascorse vicini, si è spiegata in modi sempre più tangibili.
Dopo il parto, Wendy è stata insieme a sua madre per una decina di giorni. Poi sono tornate in campo: col resto della loro famiglia, ci siamo visti quasi tutti i giorni.
Ci hanno consigliato e sollevato nella maratona di biberon e cambi, hanno cucinato per noi e ci hanno portato fuori qualche volta. In un paio di occasioni sono rimaste con le bimbe obbligandoci a prenderci il tempo di una cena fuori prima di crollare per la stanchezza.
In nessun momento e in nessun gesto ci sono stati dubbi: i genitori eravamo noi, lei ci aveva aiutato a esserlo.
Le poche volte che, in tutti questi anni, ho provato a parlare a Wendy di quel che qui si dice della gpa mi sono scontrato con la stessa realtà: fatica proprio a capire.
Aver messo al mondo le bambine è stata una delle cose grandi della sua vita e non capisce che lo si giudichi un errore.
Ancor meno capisce che si parli di lei e di un suo sfruttamento: non va oltre la propria scelta e il fatto che sia stata libera. Sa bene, infatti, quale sia stato il peso dell’indennizzo che la legge californiana ha imposto: l’equivalente di metà, tre quarti del suo stipendio di un anno, un ammontare sicuramente giusto e vantaggioso, ma certamente incapace di forzare la volontà di una persona su aspetti tanto delicati.
La discussione dura sempre molto poco. E si chiude presto nello stesso modo: «Ma non vedono come sono belle? Come sono felici?».
Loro sono l’approdo di ogni discorso, e la sua soluzione: la loro presenza, il loro crescere felici è ciò che prevale.
Conoscono la verità. Fin dai giorni del rientro in Italia, sulle pareti della loro stanza vedono appesi i disegni di un’amica che illustra libri per bambini: dall’incontro di Vittorio e mio sino alla festa del loro arrivo in Italia, ritraggono a fumetti la storia della loro nascita e della loro famiglia.
Nelle loro parole e nelle loro domande, nei discorsi che sento con i loro amichetti, non ci sono equivoci: non confondono mai Wendy con una mamma, a maggior ragione con una mamma incomprensibilmente lontana.
L’anno scorso Wendy è venuta a trovarci in Italia. Siamo stati insieme qualche giorno. Ci siamo tenuti liberi da ogni impegno, è stata a casa nostra e abbiamo girato Milano in lungo e in largo.
Wendy ha incontrato molti nostri amici e infine i nonni delle bimbe.
«Grazie» le ha detto mio padre. «Grazie per tutto questo. Hai visto come sono belle? E felici?».
Come i giorni della nascita, anche questi sono stati una conferma: il piacere con cui le bambine l’hanno accolta, l’allegria con cui le sono state vicine, la serenità con cui l’hanno salutata augurandosi di rivederla presto, hanno detto tutto.
Wendy è una figura importante per loro come ne hanno altre, ma Vittorio e io, solo noi, siamo i loro genitori, quelli che stanno nei loro disegni all’asilo, nella loro mente, nelle loro richieste di presenza e guida.
Tutto è chiaro. E semplice in modo disarmante.
Qualche giorno fa, una delle due aveva una maglietta che Wendy le aveva portato quando è stata qui.
«Sai, vero, cosa ha fatto per te, Wendy?» le ho chiesto mentre uscivamo, nel mezzo di tutti i pensieri di questi giorni. «Mi ha regalato questa maglietta e poi mi ha fatto nascere».