L’ultima sentenza sul caso Semenya
Secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo l’atleta sudafricana è stata discriminata dai regolamenti sui livelli di testosterone, ma non c’è ancora nulla di definitivo
Secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo (CEDU) l’atleta sudafricana Caster Semenya è stata discriminata nell’attuazione delle regole che impongono l’abbassamento dei livelli di testosterone nel sangue sotto certi limiti per poter competere ai livelli professionistici dell’atletica leggera. La Corte ha quindi accolto l’ultimo dei tanti appelli che Semenya aveva presentato contro le sentenze a favore delle regole che negli ultimi anni hanno disciplinato la sua partecipazione alle varie specialità della velocità e del mezzofondo su pista.
Il caso che coinvolge Semenya è uno dei più noti e discussi dell’atletica leggera per quanto riguarda l’iperandrogenismo, ovvero la condizione che si verifica quando il corpo di una donna produce naturalmente alti livelli di ormoni maschili a tal punto da far presumere che ne possa trarre dei vantaggi competitivi.
Dopo aver vinto titoli mondiali e olimpici, spesso stabilendo record nazionali e stagionali, soprattutto negli 800 metri, le regole sull’iperandrogenismo introdotte a partire dal 2011 dalla Federazione internazionale dell’atletica leggera (World Athletics) le impedirono di partecipare a tutte le specialità a cui era solita gareggiare, senza prima aver abbassato il proprio tasso di testosterone. Nel 2019 l’atleta presentò il primo ricorso contro il regolamento, ma il Tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna (TAS) lo respinse ritenendo necessaria l’esistenza di tali regole per preservare competitività e concorrenza in ambito professionistico femminile.
Nello stesso anno la Corte suprema svizzera sospese temporaneamente la sentenza in attesa che la World Athletics presentasse nuove motivazioni a difesa delle sue regole in materia, che peraltro negli ultimi anni sono state modificate più volte, essendo una questione ancora ampiamente dibattuta e soggetta a cambiamenti. L’anno successivo, tuttavia, il più alto grado della giustizia svizzera (paese in cui hanno sede le maggiori organizzazioni sportive internazionali e i relativi tribunali) confermò la decisione del TAS.
Dopo quest’ultima sentenza Semenya si rivolse alla Corte europea per i diritti dell’uomo, che ora si è pronunciata a suo favore con una maggioranza data da quattro dei suoi sette membri giudicanti. La Corte ha ritenuto che le istituzioni svizzere citate non abbiano concesso a Semenya «sufficienti garanzie istituzionali e procedurali per consentirle di far esaminare efficacemente le sue denunce». La sentenza in questione non è definitiva, non avrà effetti nell’immediato e potrà essere soggetta a un ulteriore grado di giudizio all’interno della Corte, se verrà presentata una richiesta.
Intanto la World Athletics ha scritto in un comunicato: «Prendiamo atto della sentenza e continuiamo a ritenere che i regolamenti esistenti siano un mezzo necessario, ragionevole e proporzionato per proteggere la concorrenza leale nella categoria femminile, come hanno rilevato precedentemente il TAS e il Tribunale federale svizzero dopo una valutazione dettagliata ed esperta delle prove».
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