Il romanzo sul disastro di Seveso che venne letto nelle scuole
"Una lepre con la faccia di bambina" di Laura Conti fece molto discutere, anche dopo che ne venne tratto un film
La fuoriuscita di diossina (TCDD) dalla fabbrica ICMESA di Meda, in Lombardia, il 10 luglio 1976 fu il primo e più grave disastro di inquinamento ambientale della storia italiana ed ebbe grandi conseguenze sociali e politiche. Portò all’introduzione di importanti leggi europee per la sicurezza industriale, ma influenzò anche il dibatto sull’aborto, che sarebbe diventato legale solo due anni dopo perché si temeva che la TCDD avrebbe causato malformazioni nei nuovi nati: parliamo di una sostanza tossica e cancerogena usata nelle industrie chimiche, come era l’ICMESA, per la produzione di diserbanti.
Laura Conti, medica, scrittrice e divulgatrice scientifica, all’epoca era consigliera regionale in Lombardia. Per spiegare anche alle persone più giovani cosa fosse successo pensò di scrivere un romanzo con protagonista un ragazzino delle zone del disastro. Tuttavia Conti concluse di non poter scrivere un «libro di divulgazione, cioè educativo» perché la storia del cosiddetto disastro di Seveso, dal nome della località più colpita, era anche una «crisi del processo educativo». In altre parole, per Conti le incertezze e le paure degli adulti sui rischi per la salute, ma anche le loro convinzioni moralistiche riguardo alla sessualità e all’aborto, avevano reso difficile rispondere alle domande dei bambini. Il risultato fu un romanzo per adulti, che poi però venne letto nelle scuole, e che quando nel 1989 ne venne tratto un film portò a un’interrogazione parlamentare. Si intitola Una lepre con la faccia di bambina.
Conti è citata più volte nelle due nuove puntate speciali del podcast Indagini dedicate alle indagini sul disastro dell’ICMESA, ed è stata una delle persone che più si sono occupate di ambiente e ambientalismo in Italia nella seconda metà del Novecento. Durante la Seconda guerra mondiale fece da staffetta partigiana, come veniva definito chi garantiva le comunicazione e i collegamenti tra le varie brigate impegnate nella lotta armata. Dopo la guerra fu anche consigliera provinciale e regionale, e tra il 1987 e il 1992 deputata con il Partito Comunista. Nel 1977 pubblicò il saggio divulgativo Che cos’è l’ecologia, per diffondere consapevolezza su questo concetto. Fu anche presidente del comitato scientifico di Legambiente e tra le promotrici dell’associazione, nata con il nome Lega per l’Ambiente.
In quegli stessi anni seguì il disastro di Seveso per il suo incarico in consiglio regionale, preoccupandosi in particolare dei possibili rischi per la salute delle donne incinte. Le analisi scientifiche realizzate negli anni successivi mostrarono che non ci furono conseguenze su di loro, ma nel 1976 non si conoscevano gli effetti dell’esposizione alla diossina e in base alle poche informazioni disponibili si temeva che i bambini sarebbero nati malformati, oppure che avrebbe potuto esserci un aumento dei casi di aborti spontanei. Conti ne era convinta per via di alcuni dati raccolti nel primo anno dopo il disastro, che però non risultarono significativi.
Mentre molti discutevano sulla moralità delle donne che sceglievano di interrompere la gravidanza, Conti tra le altre cose contestò il diffuso punto di vista per cui una donna gravida sembrava «soltanto un’incubatrice e non una persona con la salute da salvaguardare, una fattrice che impazzisce se il prodotto del concepimento non riesce bene, ma indifferente ai propri rischi». Alcune donne infatti poterono scegliere di abortire appellandosi a una sentenza della Corte costituzionale e dicendo che avere bambini malformati avrebbe messo a rischio la loro salute mentale.
Per via del suo ruolo politico Conti passò molto tempo a Seveso e Meda, parlando con le persone che ci vivevano, e questo le permise di osservare da vicino le dinamiche sociali e psicologiche, spesso contraddittorie, della comunità che aveva vissuto il disastro. Poi le ricostruì in versione romanzata in Una lepre con la faccia di bambina, dove sono vissute dal protagonista dodicenne Marco.
La mamma diceva che se andavo a Rapallo ero al sicuro, e invece se restavo al paese continuavo ad andare a trovare i miei compagni di scuola che abitano vicino alla fabbrica, e mi mettevo in pericolo. Il papà diceva che era d’accordo con lei, ma parlava soprattutto degli affari: “Se continuano tutte queste chiacchiere sul veleno si ferma il commercio. I clienti non comprano più i nostri divani, se pensano che la stoffa dei cuscini è sporca di veleno.”
E mia madre che bisognava far tacere tutte queste chiacchiere, e invece tutti chiacchieravano di animali morti, di piante morte, di bambini malati. Lei lo diceva a tutti, che c’è molta esagerazione, che c’è gente che fa speculazioni.
Mi mandavano a Rapallo perché c’era il veleno, però bisognava dire che non era vero che le piante erano malate e che le bestie erano morte. Insomma, il veleno c’era, oppure non c’era? E a che cosa serviva dire che non era vero niente, e poi tutti potevano vedere che le foglie erano bruciate e che le bestie erano morte? Se mia madre voleva sapere la verità bastava che veniva nell’orto di Sara, potevo togliere la terra e farle vedere tutte le bestie che avevamo seppellite.
Ma la sapeva già, la verità, tanto è vero che mi mandava a Rapallo.
Nella prima parte del libro i genitori si preoccupano per la salute dei figli, ma non vogliono a loro volta lasciare le proprie case e attività nelle aree inquinate perché temono i danni economici. Più di tutto non vogliono che si parli della fuoriuscita di diossina, arrivano anche a negare che sia velenosa, perché la paura della sostanza potrebbe ridurre le vendite dei mobili prodotti nella zona. Per questo si ribellano agli ordini di evacuazione decisi dalle autorità. Più avanti, sfollati a Milano, gli abitanti dei paesi inquinati subiscono da parte dei cittadini pregiudizi e discriminazioni analoghe a quelle che loro stessi avevano riservato agli immigrati veneti e meridionali, trasferiti nelle loro zone per lavorare.
L’ultima parte del libro è dedicata alla storia di una ragazza incinta e abbandonata dal fidanzato che ha un’esperienza simile a quelle di varie donne di Seveso e Meda: si trovarono a dover scegliere se abortire o meno in mezzo all’attenzione dei giornali per la loro storia, alle proteste delle femministe che chiedevano il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza e alle pressioni in senso opposto della Chiesa cattolica. Alla fine la ragazza cerca di procurarsi un aborto per vie illegali, non potendo più farlo in ospedale, e ne muore.
Per quanto critica nei confronti di certe ipocrisie, Conti cercò anche di comprendere le paure e le debolezze delle persone che avevano vissuto il disastro di Seveso, e con cui si trovò spesso a discutere: contribuirono a formare la sua idea di ambientalismo. Nel memoriale Visto da Seveso, pubblicato nel 1977 da Feltrinelli, scrisse:
Cominciavo a rendermi conto che “ambiente” non è solo l’insieme di acqua, aria, terra; che non si può considerare l’uomo nel suo rapporto con la natura se non lo si considera anche nel suo rapporto con gli altri uomini, e nel suo rapporto con gli oggetti che fabbrica o con le piante che coltiva. Considerare “i sevesini” non aveva senso se non si consideravano anche gli orti dietro le case e le araucarie davanti alle case (…). Che rapporto possa esserci tra lʼuomo e il territorio non lo rivela lʼoperaio, soldato di ventura del capitale. Non lo rivela nemmeno il contadino, perché il contadino può trasformarsi in pioniere, e dove ci sono zolle sotto i suoi piedi e un corso dʼacqua là è la sua patria, magari solitaria. Lo rivela invece lʼartigiano di tipo brianzolo, un artigiano che realizza una divisione del lavoro con gli altri artigiani, io faccio le parti in legno, tu le parti metalliche, lui le parti in cuoio, e lʼoggetto – il salotto per gli sposi – è il prodotto non di una bottega ma di un territorio, di un rapporto fra momenti lavorativi insediati lʼuno accanto allʼaltro, in una curiosa dialettica di integrazione e competizione.
Questo approccio portò Conti a pensare che l’ambientalismo doveva tenere conto dei dati scientifici necessariamente raccolti e analizzati in modo rigoroso, ma anche del contesto umano. È un punto di vista presente anche in Una lepre con la faccia di bambina, specialmente quando sono descritte le sofferenze subite dalle comunità colpite dal disastro della diossina:
Una volta sono andato a casa del Piazza, un mio compagno di scuola che abita in Zona B al sesto piano di un condominio; dal suo balcone si vedeva un pezzo della strada dove abitiamo noi. Si vedevano lavorare gli operai della bonifica, con quelle tute bianche pareva un film di marziani. Vuotavano le case, portavano fuori i cassetti pieni di camicie e di calze che cascavano per terra, portavano fuori i frigoriferi e le credenze con dentro la roba marcita, e ogni tanto il vento portava puzza di marcio, buttavano dalle finestre le lenzuola e i materassi e le coperte. La madre del Piazza e le sue amiche avevano le lacrime agli occhi, e a vedere quella rovina, quella roba buttata dalle finestre, strascinata per terra, pestata dagli stivali, per la prima volta ho capito che ci era toccata una disgrazia proprio grande. Certe volte il vento sollevava un gran polverone, e allora la madre del Piazza diceva che la diossina fino a quel momento era rimasta ferma e adesso a causa della bonifica volava dappertutto, che razza di bonifica era, era più danno che vantaggio.
Con la pandemia da coronavirus alcuni dei comportamenti descritti da Conti si sono in parte replicati, seppur in un contesto molto diverso, e per questo nel 2021 la casa editrice Fandango ha riproposto Una lepre con la faccia di bambina che da anni era fuori catalogo, e poi altre opere di Conti, morta nel 1993. In Una lepre con la faccia di bambina le sue capacità letterarie emergono soprattutto dalle scelte linguistiche fatte per riprodurre il lessico e il modo di parlare dei ragazzi degli anni Settanta, elementare e impreciso, secondo Conti rappresentativo di una difficoltà a comprendere e comunicare.
La prima edizione del libro era stata pubblicata nel 1978, due anni dopo il disastro di Seveso, da Editori Riuniti, la casa editrice vicina al Partito Comunista; nel 1982 ne uscì una nuova edizione per le scuole perché nel frattempo molti insegnanti avevano proposto il romanzo come lettura in classe o per le vacanze.
Del romanzo si tornò poi a parlare pubblicamente nel 1989, quando la Rai trasmise un film televisivo in due puntate che il regista Gianni Serra aveva tratto dal libro, con Franca Rame e Amanda Sandrelli. In quell’occasione Roberto Formigoni, allora deputato della Democrazia Cristiana e poi presidente della Regione Lombardia dal 1995 al 2013, presentò un’interrogazione parlamentare contro la trasmissione. A suo dire diffondeva informazioni scorrette sui cittadini dei paesi interessati dal disastro di Seveso, che a loro volta protestarono per come venivano rappresentati da Una lepre con la faccia di bambina, temendo che Seveso continuasse a essere considerato un «paese avvelenato». In quell’occasione Conti rivendicò la scelta di parlare del tema con un’opera di fiction, cioè con un romanzo, in particolare per raccontare l’esperienza delle donne che avevano scelto di abortire e in alcuni casi lo avevano fatto clandestinamente.