L’Occidente fatica a costruire nuove armi
La guerra in Ucraina sta rapidamente consumando gli arsenali degli Stati Uniti e dei paesi europei, ma riempirli di nuovo non è facile
La guerra in Ucraina sta mettendo sotto pressione ormai da mesi l’industria militare statunitense ed europea, la cui produzione non riesce a stare dietro all’enorme consumo di munizioni e mezzi necessari a sostenere la resistenza ucraina. Davanti alle difficoltà produttive, da tempo alcuni paesi occidentali stanno inviando in Ucraina le armi già presenti nei loro arsenali, che però, dopo mesi di combattimenti, si stanno svuotando: sia gli Stati Uniti sia alcuni eserciti europei sono ormai a corto di munizioni. Anche per questo la scorsa settimana l’amministrazione di Joe Biden ha approvato l’invio all’Ucraina di bombe a grappolo, nonostante grosse polemiche sulla loro pericolosità per i civili: sono tra i pochi tipi di munizione di cui l’arsenale americano dispone con una certa abbondanza.
Le difficoltà incontrate dall’industria bellica statunitense ed europea sono varie e differenti, e riguardano tendenzialmente problemi con le forniture, con le catene di approvvigionamento e perfino con la mancanza di manodopera. C’è poi un problema più generale, che riguarda il fatto che la guerra in Ucraina stia costringendo i paesi occidentali a cambiare completamente i sistemi e le strategie di rifornimento dei propri eserciti.
Quella in Ucraina è la prima guerra ad alta intensità combattuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Soprattutto negli ultimi mesi si sta combattendo in trincea con l’obiettivo di logorare l’esercito avversario. Sia la Russia sia l’Ucraina stanno impiegando per questo tipo di guerra enormi quantità di mezzi e soprattutto di munizioni di artiglieria. Prendiamo per esempio le munizioni per obici da 155mm, tra le più importanti nella guerra: l’Ucraina consuma in tre mesi quello che gli Stati Uniti e l’Europa messi assieme possono attualmente produrre in un anno.
Tra le ragioni strutturali di queste difficoltà produttive c’è il fatto che quasi nessuno tra gli strateghi militari e gli esperti si aspettava il ritorno di una guerra di così lunga durata e di così forte intensità in Europa. Dopo la Guerra Fredda, con la fine della minaccia dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e soprattutto l’Europa avevano cercato di riformare le proprie industrie militari per rispondere a quello che ci si aspettava sarebbe stato un lungo periodo di pace, e in cui le guerre sarebbero state soprattutto ibride, in cui conta più l’alto livello della tecnologia che la quantità di munizioni presenti nel proprio arsenale.
Tutti i paesi occidentali avevano gradualmente ridotto il livello delle proprie scorte di armamenti ritenuti obsoleti, come per esempio le munizioni di artiglieria. Avevano invece concentrato gli investimenti su progetti più sofisticati, come i missili ipersonici e gli aerei che sparano laser, convinti che le guerre del futuro sarebbero state rapide e decise soprattutto da una schiacciante superiorità tecnologica. Questa tendenza è stata incentivata anche dall’industria bellica, che su questo genere di armi ha margini di profitto estremamente più ampi.
La guerra in Ucraina ha riportato questi piani a una realtà molto più rudimentale, in cui le guerre durano anni e si combattono un po’ come nel Novecento, e in cui uno degli elementi più importanti è quanto sono profondi i propri arsenali. Al momento, a causa delle scelte fatte negli scorsi decenni, gli arsenali statunitensi e soprattutto europei non sono profondi a sufficienza. Secondo alcune stime, in caso di guerra con la Cina gli Stati Uniti finirebbero i propri missili anti-nave a lunga gittata in meno di una settimana. La Polonia, per esempio, ha investito molto negli F-35, i caccia da combattimento di nuova generazione, ma non abbastanza nelle loro munizioni: in caso di guerra finirebbero in un paio di settimane.
Ha avuto un ruolo in questa crisi anche il modo in cui i paesi occidentali hanno ristrutturato le proprie industrie belliche dopo la fine della Guerra Fredda: negli Stati Uniti, per esempio, il governo ha spinto le sue industrie ad adottare una strategia di produzione chiamata “just in time”, che semplificando limita la quantità di componenti nell’inventario delle industrie e prevede che le armi siano prodotte sul momento solo quando ce n’è effettivamente bisogno. È una strategia molto efficiente e usata in numerosi altri settori industriali ed è perfetta in tempo di pace, ma sta creando problemi ora che tutto l’Occidente cerca contemporaneamente di aumentare la propria produzione di armi.
Quelle che dopo la Guerra Fredda sembravano razionalizzazioni dell’industria bellica, in questo momento sono diventati “colli di bottiglia”, cioè strettoie e impedimenti nella produzione. Le criticità di questo approccio si erano già fatte vedere in alcuni occasioni. Per esempio nel 2016 gli Stati Uniti si trovarono pericolosamente a corto di missili di precisione dopo aver consumato le proprie scorte nel decennio precedente con le guerre in Afghanistan e Iraq e con le missioni militari in Siria e Libia. Fino all’invasione russa dell’Ucraina, però, questi problemi erano ritenuti transitori.
Sia gli Stati Uniti sia l’Europa stanno cercando di aumentare la produzione di armi il più rapidamente possibile, ma ci sono numerosi ostacoli e problemi. Negli Stati Uniti due decenni di consolidamento industriale (in cui le industrie grandi hanno comprato quelle piccole creando pochi, enormi colossi) ha portato a una situazione in cui, per esempio, esiste una sola azienda capace di produrre i motori per i missili da crociera, e ovviamente quest’azienda adesso si trova al massimo della sua capacità produttiva.
Mancano inoltre importanti componenti per la costruzione di munizioni e armamenti: tornando alle munizioni da 155 mm, c’è scarsità di un po’ di tutto, dai macchinari per forgiare i rivestimenti di metallo del proiettile fino alle sostanze esplosive da metterci dentro. L’industria bellica deve poi affrontare i problemi comuni ad altri settori come la scarsità di microchip, ma con qualche difficoltà in più: visto che molte delle armi ancora in produzione sono state progettate decenni fa, spesso hanno bisogno di componenti molto vecchi, che sono rari sul mercato o addirittura non sono più in circolazione.
Alle industrie belliche manca la manodopera qualificata, e c’è poi la concorrenza dell’aviazione civile, che dopo la pandemia da coronavirus sta crescendo notevolmente, e ha bisogno di componenti e parti di ricambio simili o uguali a quelli dell’industria militare.
Questi ostacoli alla produzione stanno creando problemi alla stessa industria bellica. Per esempio Lockheed Martin, una delle più grandi aziende di produzione di armamenti del mondo, non ha avuto aumenti delle vendite nel 2022 e prevede di non averne nemmeno nel 2023, perché pur avendo un’enorme quantità di ordini arretrati non è in grado di evaderli.
Sia gli Stati Uniti sia l’Unione Europea stanno cercando soluzioni a questi problemi. Entrambi hanno approvato grossi budget militari e cercato di favorire gli enormi investimenti che sarebbero necessari alle industrie belliche per espandere la produzione. Questo è un problema soprattutto in Europa, dove le industrie locali sono piuttosto restie a fare grossi investimenti: come ha spiegato Bloomberg, temono che a guerra finita i paesi europei torneranno nuovamente a ridurre le proprie spese militari, rendendo inutili gli investimenti fatti.
La produzione sta comunque aumentando, ma a livelli non sufficienti. Gli Stati Uniti producevano 13 mila munizioni da 155 mm al mese prima dell’invasione russa, ora ne producono circa 20 mila e sperano di arrivare a 50 mila entro la fine dell’anno. L’esercito ucraino, in media, ne usa 90 mila al mese.