• Domenica 9 luglio 2023

A che punto siamo con l’urbanistica di genere in Italia

Si è cominciato a parlarne da qualche anno, ma siamo ancora lontani da un’applicazione concreta

di Giulia Crispu

(AP Photo/Francisco Seco)
(AP Photo/Francisco Seco)

L’urbanistica di genere è un approccio che propone un modo di pensare e progettare la città che tenga in considerazione le diverse esigenze della popolazione, allo scopo di creare uno spazio urbano più aperto e inclusivo. Costituisce un’alternativa al modello delle città che si è affermato negli ultimi secoli, che si basava soprattutto sulle esigenze della popolazione maschile, che sono molto diverse da quelle della popolazione femminile.

Si è cominciato a parlarne negli anni Sessanta ma in molti paesi tra cui l’Italia il dibattito sull’urbanistica di genere si è aperto solo pochi anni fa e rimane ancora in una fase iniziale. Nonostante ci sia una crescente sensibilizzazione sul tema, da parte anche delle varie amministrazioni cittadine, l’ambiente pubblico italiano sembra ancora poco ricettivo.

Che cos’è l’urbanistica di genere?
Diversi studi sul rapporto tra l’urbanistica e le questioni di genere, tra cui quelli citati nel recente saggio divulgativo di Caroline Criado Perez, Invisibili, pubblicato in Italia nel 2022, mostrano come storicamente le città siano state costruite da uomini per rispondere alle esigenze di altri uomini. Dal momento che le donne fino a poco tempo fa vivevano relegate principalmente nella dimensione domestica, svolgendo mansioni di cura della casa, dei bambini e degli anziani, nella pianificazione e costruzione delle città le loro esigenze sono sempre state meno considerate rispetto a quelle degli uomini lavoratori, che occupavano invece lo spazio pubblico.

La statunitense Janes Jacobs nella sua opera Vita e morte delle grandi città, del 1961, fu tra le prime a sottolineare le criticità di questo modello di città. Nel suo caso il punto di riferimento erano le città americane caratterizzate da una forte “zonizzazione” delle varie attività, ognuna collocata in particolari aree urbane e separata dalle altre. Questa conformazione dell’ambiente urbano, secondo Jacobs, allontana fisicamente le donne dalle attività produttive, costringendole a svolgere solo quelle di cura. Secondo l’autrice, questo modello sarebbe dunque il prodotto di un modo di pensare profondamente patriarcale, cioè condizionato dall’idea che gli uomini debbano avere in qualsiasi contesto un ruolo privilegiato, di potere e di controllo, rispetto a quello delle donne.

L’urbanistica di genere fa notare in modo più ampio come il modo di vivere la città cambi non solo in base al proprio genere, ma anche al proprio status economico, al lavoro che si svolge e all’appartenenza sociale. Di conseguenza l’urbanistica di genere non riguarda solo le donne, ma anche i bambini, gli anziani, le persone queer o con disabilità, che ugualmente non sono state prese in considerazione al momento della progettazione delle città. La presenza di scale, porte girevoli, tornelli, senza che ci siano ascensori e scale mobili come alternative, per esempio, rendono i movimenti difficili per tutti coloro che si muovono con passeggini, carrozzine, sedie a rotelle o altri accompagnamenti.

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Le statistiche dimostrano come gli uomini utilizzano più delle donne l’automobile e si muovono molto spesso in modo lineare, fanno cioè un percorso costante per andare a lavorare la mattina e poi per tornare a casa la sera. Le donne, invece, usano mediamente più degli uomini i mezzi pubblici e camminano più spesso. Poiché, in misura mediamente maggiore rispetto agli uomini, hanno impieghi part-time e poiché su di loro ricade spesso gran parte del lavoro di cura, fanno poi diversi viaggi al giorno, più brevi e con un maggior numero di soste: si spostano per portare i bambini e le bambine a scuola, per riprenderli, per andare al lavoro, per fare la spesa, per occuparsi degli anziani e così via. Hanno dunque frequentemente esigenze di trasporto più complesse rispetto a un tradizionale pendolarismo casa-lavoro. Inoltre, in genere le donne tendono a sentirsi più insicure in città rispetto agli uomini, soprattutto quando vanno in giro di notte.

Affinché si possano creare delle città più inclusive, chi si occupa di urbanistica di genere ritiene sia necessario prendere in considerazione tutti questi elementi e adottare uno sguardo intersezionale, cioè che tenga conto delle categorie di genere, ma anche di etnia, classe sociale, abilità, orientamento sessuale, religione, eccetera. Questo processo inizia con una fase di sensibilizzazione necessaria per rendere la sfera pubblica e le amministrazioni più consapevoli.

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Come va in Italia?
In Italia questo dibattito sull’urbanistica di genere si è aperto davvero solo pochi anni fa, grazie a una generale maggiore consapevolezza rispetto a queste tematiche, che a lungo sono state trattate solo all’interno di gruppi femministi e ora sono diventate mainstream. Per questo motivo, chiarisce Michela Barzi, esperta di urbanistica di genere e direttrice e autrice del sito Millennio Urbano: “un’urbanistica di genere in Italia non esiste, nel senso che non esiste uno specifico orientamento di genere delle politiche di trasformazione e gestione urbana”.

Una delle cose che sono state fatte per accrescere la sensibilizzazione sul tema è il Milan Gender Atlas, realizzato da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro e pubblicato nel 2021. L’Atlante è frutto di una ricerca durata più di due anni, che prende il nome di Sex & the City come la celebre serie tv. Si tratta di un rapporto che analizza lo spazio urbano milanese in un’ottica di genere e raccoglie dati disaggregati per genere forniti da un questionario partecipativo. Sex & the City è anche il nome dell’Associazione di promozione sociale, fondata dalle due ricercatrici nel 2022.

Secondo Andreola e Muzzonigro, che oltre ad aver lavorato all’Atlante di Milano hanno preso parte a numerosi convegni in varie città italiane, attualmente “il cambiamento nell’ambiente amministrativo pubblico italiano è lento”, perché manca ancora la consapevolezza su queste tematiche. Un grosso problema che fa notare Andreola è che “in Italia qualunque analisi sulla popolazione è sempre stata fatta senza disaggregare i dati per genere: non è mai stato messo in chiaro che ci fossero delle differenze. Se invece disaggreghiamo questi dati scopriamo che le donne hanno una vita molto diversa nella città rispetto agli uomini”.

Nonostante alcune città come Milano e anche Bologna si siano mosse o stiano iniziando a muoversi per la raccolta di dati disaggregati per genere, grazie anche alla volontà di alcune assessore e consigliere, spesso sorge la questione della mancanza di risorse. La raccolta di dati e la realizzazione di progetti coerenti con le informazioni ricavate da questi ultimi richiede investimenti importanti e con obiettivi a lungo termine. Di conseguenza, secondo Muzzonigro passare “dal parlarne e organizzare conferenze al fare concretamente qualcosa non è proprio scontato. Abbiamo collaborato con municipalità per realizzare degli atlanti delle loro città, ma quando si rendono conto che servono delle risorse cade un po’ il discorso”.

Andreola e Muzzonigro ritengono che per rendere le città italiane più inclusive sia necessario riformarne le strutture amministrative, dotandole di dipartimenti dedicati alle questioni di genere, come è stato fatto a Vienna, la città che viene più spesso citata come modello virtuoso per l’urbanistica di genere.

Vienna, infatti, insieme a Barcellona e in parte Umeå, in Svezia, e Berlino sono tra i pochi casi in Europa in cui siano effettivamente stati avviati progetti di urbanistica di genere. Il modello viennese costituisce un esempio di un approccio strutturato e di lungo periodo al tema della riqualificazione delle città in un’ottica di genere. Ciò che ha permesso il ripensamento della città di Vienna è stata la creazione di un dipartimento per le politiche di genere, che stando al vertice della struttura amministrativa impone indici e filtri di genere che poi plasmano tutte le decisioni politiche cittadine, comprese quelle urbanistiche e di utilizzo degli spazi.

Le città italiane sono ancora molto lontane da questo modello. Un approccio alternativo, potrebbe arrivare se le amministrazioni si focalizzassero su progetti specifici e facilmente praticabili, raccogliendo dati disaggregati e concentrandosi solo su alcune aree delle città. Questa strategia, che a livello pratico si presenta più semplice da realizzare, ha però alcuni limiti, perché non prova a risolvere i problemi in modo strutturale ed è sottoposta anche al variare delle amministrazioni comunali e delle loro agende politiche.

Questo e gli altri articoli della sezione Come cambiano le città sono un progetto del workshop di giornalismo 2023 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.