Ero una giovane promessa
«Giocavo come attaccante, indossavo la maglia numero 9: la prima punta, il bomber, il goleador. Insomma, ero quello destinato a offendere. Eppure di gol non è che ne facessi così tanti, arrivare in doppia cifra non era facile. Pagella campionato under17: 22 partite, 1 gol. Il mio compagno di reparto, invece, 32. E, voi direte, allora perché continuavano a farti giocare tutte le partite? Me lo chiedevo anch’io; funzionalità, suppongo»
La prima volta che sono andato a Coverciano – “La Mecca del calcio italiano” – non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Mi permetto di chiamarlo “Mecca” perché più che un centro sportivo per me era un vero e proprio luogo di culto, una sorta di non-posto che esiste ma non si sa bene dove. O meglio, è un quartiere a est di Firenze che, da più di sessant’anni, rappresenta il fulcro del calcio italiano.
Per chi non lo sapesse Coverciano è la “Casa degli azzurri”, un centro tecnico federale dove si radunano le 19 squadre nazionali italiane, maschili e femminili, per prepararsi in vista dei rispettivi impegni internazionali. È una vera e propria università del sapere calcistico, che conserva e forma – o almeno queste sono le intenzioni – non solo i calciatori, ma anche tutti i professionisti che operano in questo mondo: arbitri, allenatori, dirigenti, osservatori, procuratori, e, infine, noi, le “giovani promesse”.
A me onestamente di quello che si faceva lì poco importava, ero legato a quel posto perché il calcio, per me, era l’unico luogo che mi facesse sentire al sicuro. Non tanto protetto, ma confidente, come direbbero gli inglesi. E per forza! Le regole di quel mondo le avevo interiorizzate inconsapevolmente da quando ero bambino. Uno dei primi video della mia infanzia mostra me, bambino di 2 anni, e mio padre che, da buon calciofilo, sta registrando la mia iniziazione al mondo del pallone. Lui mi passa il Super Tele nel corridoio di casa e io provo a restituirglielo pur non avendo ancora acquisito la capacità di effettuare il “gesto tecnico” senza prima fermare la palla con le mani. A ogni mio tocco, infatti, seguiva un «No! Mai con le mani!» di mio padre; prima regola appresa: non avrei di sicuro giocato a basket.
Da quel momento è stato tutto più naturale, questione di agency, come dicono gli inglesi: il calcio era l’unico vincolo culturale e normativo all’interno di cui potessi agire. Ho iniziato, banalmente, con la squadra dell’oratorio, e un’estate però, invece del grest, il GRuppo ESTivo, sono andato a fare un provino. È così che sono passato agli Esordienti del Novara Calcio, per poi proseguire nei gironi dei Giovanissimi, degli Allievi e, last but not least, della Primavera. Un viaggio durato otto anni che mi ha fatto collezionare una cinquantina di scarpe, un trauma cranico e diversi posti in panchina.
Con mia grande sorpresa, dopo una pesante sconfitta contro la Juventus, mi dissero che ero stato convocato in Nazionale per un raduno di 88 ragazzi. Di questi, attraverso un mix di games – chiamateli Hunger, Squid o Darwin – ne sarebbero rimasti infine 23, che sarebbero stati ricordati come i fondatori della Nazionale Under15.
Era il 2013, avevo 14 anni e giocavo come attaccante, indossavo la maglia numero 9: la prima punta, il bomber, il goleador. Insomma, ero quello destinato a offendere. Eppure di gol non è che ne facessi così tanti, arrivare in doppia cifra non era facile. Pagella campionato Under17: 22 partite, 1 gol. Il mio compagno di reparto, invece, 32. E, voi direte, allora perché continuavano a farti giocare tutte le partite? Me lo chiedevo anch’io; funzionalità, suppongo. Il mio ruolo all’interno della squadra permetteva ad altri giocatori di giocare meglio, mi occupavo del “lavoro sporco”: proteggere la palla, prendere un sacco di palle di testa e far salire la squadra. In sostanza giocavo “spalle alla porta” quasi tutto il tempo, d’altronde l’attaccante, per alcuni miei allenatori, è il primo difensore.
Il cancello d’ingresso di Coverciano, però, era un altro tipo di porta, mi ricordava una dogana, forse perché mia madre aveva avuto la brillante idea di riempire, furtivamente, il mio borsone sportivo con due confezioni di succo ACE, merendine, patatine e via dicendo; scatenando così il panico in mio padre che – conscio quanto me del crimine sportivo ormai compiuto – non faceva altro che borbottare: «Pazzo! Dimmi tu se uno può andà a giocà coi Tronky». Non il migliore degli inizi.
Per capire la gravità di quell’efferato gesto, però, dovete sapere che la dottrina calcistica prevede una serie di dogmi, spesso non scritti, contro cui mi sono imbattuto dal primo giorno in cui ho messo piede nella bolla del calcio professionistico. Uno di questi precetti riguarda proprio il cibo, portarlo in ritiro è l’equivalente di trasportare 8kg di cocaina dal Messico agli Stati Uniti, roba che ti sgamano e adios. Sono piccoli dettagli, questione di bon ton, come allacciare entrambi i bottoni della polo di rappresentanza, la divisa con cui ci si presenta alle partite o agli eventi ufficiali. Ricordo nitidamente che, durante il mio primo anno a Novara, l’averne allacciato solo uno mi fece rimediare un «American boy, i bottoni! Dove pensi di stare?!», da parte del mister dei portieri, poco male.
Ovviamente la maglietta deve stare dentro i pantaloni, o meglio, o tutti con la maglia fuori o tutti con la maglia dentro – variazione ambigua che, tra l’altro, mi ha fatto più volte mettere in dubbio la validità della norma. Poi ovviamente niente orecchini, niente capelli tinti, niente capelli lunghi, si dà del lei a chiunque e, in occasione del proprio compleanno, si portano le pizzette per tutti e la prima va all’allenatore. Litanie che ti vengono imposte quando sei un giovane professionista, ma che vanno a perdersi quando poi si aggiungono gli zeri agli stipendi.
Una volta dentro “la Mecca del calcio”, le uniche persone che ho incontrato erano due signori brizzolati con addosso la tuta dell’Italia, una tuta bordeaux, che manifestava chiaramente il rango elevato al quale appartenevano; erano due da salutare con un caldo, ma rispettoso «Buongiorno!», detto però con un sorriso appena accennato, altrimenti c’era il rischio di passare per turisti.
Prese le chiavi alla reception, sono corso verso la camera. Il mio compagno di stanza era il capitano dell’Inter, Francesco Pio Russo. Lui sapeva già tutte le informazioni necessarie: divisioni delle squadre, orari delle partite, delle riunioni e così via. Conoscevo molti dei miei compagni, alcuni li avevo incontrati in campo, mentre di altri sui giornali già si parlava ampiamente. «In porta c’è Gigio», mi diceva Pio, «troppo forte Gigio».
Contro Donnarumma ci avevo già giocato e, francamente, l’idea di non doverlo rifare in quel contesto mi rassicurava. Con Donnarumma dentro, la porta sembra piccola, ve lo assicuro. A Coverciano siamo stati compagni di tavolo durante le cene, abbiamo parlato due giorni eh, mica siamo amici, quindi non è che vi posso dire chissà cosa, ma a 14 anni aveva già la barba ed era alto 1.90, un “gigante buono”. Lì gli volevano bene tutti, le temute tute bordeaux con lui scherzavano come delle nonne, dicendogli cose come «mangia, altrimenti non cresci». Il Milan quell’estate l’aveva acquistato dal Club Napoli di Castellammare di Stabia per 250.000 euro, aveva il numero del suo procuratore Mino Raiola in rubrica, eppure sembrava non avvertire alcun tipo di pressione, riusciva a mangiare la Nutella davanti a tutti, e dopotutto, perché no.
A proposito di soldi, nel calcio giovanile non si guadagna, anzi, alcuni guadagnano, ma non tutti. Mi spiego meglio: all’età di 14 anni firmi un contratto “4+1”, ovvero per i restanti 4 anni del settore giovanile sei vincolato alla società in cui giochi, poi quest’ultima può eventualmente decidere di esercitare il “+1”, iniziando però a pagarti. La somma che riceverai dipende dalla categoria in cui milita la prima squadra; se il Novara gioca in Serie C, percepirai uno stipendio mensile di circa 950 euro; se in B 1100 euro, e in A 1300 euro. So che non sono big money, ma per un ragazzo di 19 anni – che ha sempre giocato gratis e per circa 12 ore alla settimana – sono comunque un sacco di soldi. Ciò non esclude però che un giocatore possa guadagnare di più, in base al suo rendimento.
Anche la stessa FIGC retribuisce gli atleti per i giorni passati in ritiro con la Nazionale. Il mio, però, era un raduno propedeutico, quindi non pagato. Ma alla fine, tra di noi, chi era a Coverciano per i soldi? Nessuno, eravamo lì per la gloria di giocare. Non ci giro intorno: quelle partite io le ho giocate male, malissimo. Ho perso un sacco di palloni, talmente tanti che l’allenatore, durante la riunione post-partita, non ha potuto esimersi dal pronunciarne il numero davanti a tutta la squadra: 18. Sicuramente avevo dei limiti tecnici, ma la palla usciva dai piedi dei miei compagni con una potenza tale che avrei giurato che stessero tirando in porta. E okay che ci viene insegnato che il passaggio deve essere “secco”, un colpo da biliardo, però così mi sembrava eccessivo, quasi a volermi mettere in difficoltà.
Per quanto riguarda l’aspetto atletico, arrivavo in ritardo su ogni pallone; il secondo tempo non era neanche iniziato e io già ero in affanno. Più che un calciatore, mi sembrava di essere l’arbitro di una partita di ping-pong: muovevo la testa da destra a sinistra, cercando di seguire lo sviluppo del gioco. La fisicità dei miei colleghi era impressionante, non vincevo un contrasto manco a pagare, e sono più volte finito a terra in seguito a spallate ricevute.
Il bello di essere un attaccante però è che basta un’occasione. Una. Per un difensore o un centrocampista è diverso: se giochi male, giochi male. La prima punta, invece, può non toccare un pallone per 90 minuti e segnare al 95°, cancellando come d’incanto la brutta prestazione. E quell’occasione arrivò: cross dalla sinistra, stoppo la palla di petto e riesco a portarmela avanti bucando la linea difensiva. Sono davanti al portiere, la palla perfettamente a terra, devo solo prendere la porta. Fuori. Un tiro di sinistro imbarazzante, strozzato, dovuto forse alla fretta di concludere. Dopo l’errore mi sono “nascosto” per tutta la partita, e per le seguenti due. Del viaggio di ritorno non ricordo nulla, a parte il silenzio.
In un silenzio del genere mi ci sono ritrovato cinque anni dopo, il 3 agosto 2018, giorno in cui ho lasciato il calcio. Mi trovavo in ritiro a Novarello – il centro sportivo del Novara Calcio. Quel posto lo conoscevo bene, l’avevo abitato per otto anni. Conoscevo il direttore del settore giovanile, il mister, i dirigenti, i massaggiatori, i giardinieri, i baristi, i custodi, tutti. Eppure il giorno prima mi ero sentito invisibile: il mister non mi aveva parlato, del direttore neanche l’ombra e il fisioterapista, stupito, mi chiese: «E tu cosa ci fai qui?», bella domanda.
Era un periodo di cambiamento: quindici giorni prima avevo avuto l’esame di maturità, il settore giovanile era finito e il Novara, come da accordi, aveva deciso di esercitare l’ambito “+1”. Mi trovavo quindi in un limbo, a cavallo tra settore giovanile e prima squadra, senza appartenere né all’uno né all’altra. Steso sul letto, mi lamentavo con il mio compagno di stanza del ghosting della dirigenza, delle vacanze inesistenti, della scelta di essere rimasto a Novara e del «Salu, tagliali i capelli se puoi che sono inguardabili», da parte del vice allenatore. Le uniche parole che mi avevano rivolto fino a quel momento non facevano altro che alimentare il mio sentirmi fuori posto, proprio come a Coverciano.
Sentivo di non divertirmi più, forse stava cambiando la mia agency (come dicono gli inglesi) perché quei vincoli avevo iniziato a guardarli con occhi diversi. Erano limitanti: lo erano i rapporti umani, le conversazioni, addirittura l’essere un calciatore. Non stavo dando un giudizio di valore, mi chiedevo semplicemente se oltre a essere un giocatore, fossi mai stato altro. La mia identità, fino a quel momento, si riduceva alla mia professione – limitante. La decisione da prendere era chiara, dovevo solo comunicarla a chi di dovere: direttore, allenatore e genitori. Provarono tutti a farmi cambiare idea, con scarsi risultati; la mia famiglia tuttora mi rinfaccia la decisione presa. Inizialmente ammetto che non è andata benissimo, ma poi ho scoperto che, in altri posti, mi muovo più agilmente. E perdo meno palloni.