A Wimbledon non c’è più l’erba di una volta
Negli ultimi vent'anni è diventata sempre più simile al cemento: più lenta e meno imprevedibile, ma più adatta al tennis moderno
Uno degli aspetti più caratteristici del tennis è il fatto che si giochi su tre diverse superfici, con differenze che hanno storicamente un’enorme influenza sul gioco: della terra rossa si dice sia la più “lenta”, nel senso che attutisce maggiormente i rimbalzi e dà più tempo ai tennisti per colpire; il cemento invece è più “veloce” e ha rimbalzi alti e regolari. Sull’erba la pallina schizza in un modo che la rende ancora più veloce che sul cemento, ma con un rimbalzo molto basso e spesso imprevedibile, perché una superficie naturale come l’erba è necessariamente imperfetta e cambia di continuo. Al variare delle condizioni atmosferiche, ma anche banalmente quando viene calpestata dalle scarpe dei tennisti, al punto che l’erba dei campi alla fine di un torneo non è mai la stessa dell’inizio.
Per quanto ancora molto presenti, negli ultimi due decenni queste differenze tra le tre superfici si sono decisamente attenuate, soprattutto nei tornei del Grande Slam, i quattro più importanti della stagione e che assegnano più punti per la classifica mondiale. E così ogni anno da ormai molti anni si torna puntualmente a parlarne con una certa insistenza soprattutto nel periodo di Wimbledon, il torneo più antico e prestigioso del tennis, l’unico che si gioca su erba fra quelli del Grande Slam e quello che ha risentito maggiormente dell’omogeneizzazione delle superfici. L’edizione del 2023 di Wimbledon è cominciata questa settimana e dell’erba dei campi si è già parlato moltissimo.
Presentando il torneo sulla televisione sportiva americana ESPN, gli ex campioni di tennis Chris Evert e John McEnroe hanno concordato sul fatto che ormai l’erba di Wimbledon sia sempre più simile al cemento: «I campi in erba sono cambiati molto. Sono sempre più simili ai campi in cemento, sono più duri, si giocano molti più colpi da fondo campo», ha detto Evert, tre volte campionessa di Wimbledon tra gli anni Settanta e Ottanta. Anche McEnroe, tre volte vincitore del torneo negli anni Ottanta, ha fatto notare che «il rimbalzo è più alto» di un tempo, ma sottolineando come l’erba mantenga sempre alcune caratteristiche uniche: «C’è ancora una sfumatura che solo alcuni riescono a cogliere».
Le ragioni dell’uniformazione dell’erba alle altre superfici, e in particolare dell’erba di Wimbledon, hanno a che fare soprattutto con la necessità di adattarsi al modo in cui è cambiato il tennis in epoca moderna, diventando uno sport sempre più “muscolare” e di potenza e sempre meno “di tocco” e manualità, ossia lo stile di gioco che si addice meglio all’imprevedibilità dell’erba. Ma hanno anche ragioni molto pratiche, legate all’economia di questo sport e al modo in cui ci si è evoluto l’interesse intorno.
L’erba è la superficie più antica del tennis e per molti la più affascinante. È la prima su cui si iniziò a praticare lo sport, nel sedicesimo secolo in Inghilterra, e da quelle parti ancora oggi viene chiamato spesso con il nome che gli venne dato alla nascita: “lawn tennis”, tennis su prato, anche quando si gioca sul cemento o sulla terra rossa. Ma nonostante il mondo del tennis sia molto attaccato alle sue tradizioni, e specialmente a quelle che riguardano la sua superficie tradizionale, oggi l’erba è anche la superficie su cui si gioca di meno durante la stagione, e su cui quindi per i tennisti ha meno senso allenarsi e investire energie nella preparazione, con la conseguenza che sono sempre meno quelli bravi a giocarci.
Fino a meno di cinquant’anni fa tre su quattro dei tornei del Grande Slam si giocavano sull’erba: oltre a Wimbledon anche gli US Open e gli Australian Open, che passarono al cemento rispettivamente nel 1978 e nel 1988. Il Roland Garros invece era ed è tuttora l’unico sulla terra rossa.
La progressiva riduzione del numero di tornei sull’erba, a partire da quelli del Grande Slam, ha ragioni soprattutto pratiche: mantenere un campo in erba è innanzitutto molto più costoso rispetto a uno in cemento o in terra rossa. Organizzare ogni anno un torneo significa prevedere lunghi periodi di riposo per i campi alla fine della competizione, in modo che arrivino in buone condizioni all’edizione successiva: il campo centrale di Wimbledon per esempio viene usato una sola volta all’anno, nelle due settimane del torneo.
Ogni anno i campi di Wimbledon vengono coltivati con 10 tonnellate di semi, in un lungo processo che comincia a settembre e finisce verso giugno (il torneo si gioca tra la fine di giugno e l’inizio di luglio), quando l’erba dei campi viene portata tutta a una lunghezza di 8 millimetri, quella che gli organizzatori ritengono ideale per garantire la sua tenuta nelle due settimane di torneo e al contempo la spettacolarità del gioco.
Ma se un circolo di tennis ricco e prestigioso come quello che organizza Wimbledon può permettersi di dedicare tutte queste attenzioni alla cura dell’erba, molti altri non possono o non vogliono rinunciare ai soldi che derivano per esempio dall’affitto dei campi durante tutto il resto dell’anno, un’attività che genera ricavi indispensabili. Sull’erba, che deve necessariamente restare all’aperto, per ragioni climatiche e di manutenzione si può in sostanza giocare solo da maggio a settembre, con pochissime deroghe.
Questo è anche il motivo per cui i campi in erba sono rarissimi a tutti i livelli, e spariscono del tutto ai livelli più bassi. Oggi molti giovani diventano professionisti senza aver mai giocato o quasi una partita sull’erba, con l’eccezione di quelli che vengono dal Regno Unito (e in misura minore dall’Australia), dove i campi in erba sono ancora piuttosto diffusi. Concentrarsi solo sull’erba in ogni caso non conviene a nessuno: al momento circa il 70 per cento dei punti disponibili nella stagione tennistica si assegna in tornei sul cemento, e oltre il 20 per cento sulla terra rossa.
Anche se non è del tutto chiaro quanto tutto questo processo sia stato intenzionale, rendere l’erba di Wimbledon un po’ più simile alle superfici degli altri tornei del Grande Slam è diventata anche una necessità, per garantire che i tennisti più forti in circolazione non arrivino a giocare nel torneo più prestigioso al mondo sembrando sprovveduti o meno preparati, e aumentando il livello di competitività (e quindi lo spettacolo). In un certo senso, questo cambiamento è diventato l’unico modo per preservare la diversità di Wimbledon, che se fosse troppo marcata rischierebbe di allontanare molti tennisti, premiando solo una ristretta cerchia di giocatori specializzati nel gioco sull’erba.
Storicamente i campi veloci di Wimbledon, e dei tornei in erba in generale, hanno premiato i giocatori con un grande servizio – perché sull’erba la palla schizza ed è più difficile rispondere – e quelli che basavano il proprio gioco sul cosiddetto “serve-and-volley”: cioè la strategia che prevede di andare immediatamente a rete subito dopo il servizio, in modo da intercettare al volo un’eventuale risposta dell’avversario. Chi gioca bene a rete sull’erba è avvantaggiato, perché la velocità della superficie e la sua irregolarità rendono difficilissimi i recuperi sui colpi al volo, che danno agli avversari meno tempo per organizzarsi.
Un tempo quindi a Wimbledon si vedevano i giocatori usare il serve-and-volley praticamente a ogni punto, con molti più scambi vicino alla rete che rendevano necessaria una maggiore manualità e capacità di tocchi raffinati, invece che potenti. Nel tennis moderno però i giocatori da serve-and-volley sono quasi completamente spariti, e contemporaneamente si sono affermati soprattutto giocatori più atletici, capaci di scambi prolungati da fondo campo, anche in ragione del fatto che si gioca molto di più su superfici che non sono l’erba, che privilegiano questo tipo di tennis.
Ipoteticamente, se i campi di Wimbledon fossero più simili a com’erano trenta o quarant’anni fa, ci sarebbe il rischio di avere un torneo in cui ogni anno vanno avanti solo tennisti molto specializzati, che magari vincono poco nel resto della stagione e attirano intorno a sé scarso interesse. Oggi peraltro il pubblico si è abituato a percepire come più “epici” e spettacolari i punti lunghi e che finiscono dopo scambi estenuanti, che con la vecchia erba di Wimbledon sarebbero rarissimi.
Molti considerano l’appiattimento delle superfici un fattore decisivo anche nella nascita e nello sviluppo della rivalità più seguita e amata della storia del tennis, quella tra Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic che si è sviluppata negli ultimi 20 anni. Secondo questa tesi, campi più simili tra loro nel corso di tutta la stagione hanno permesso ai tre di giocarsi ad armi pari tutti i tornei a disposizione, generando partite combattutissime diventate in molti casi storiche.
– Leggi anche: Come Roger Federer ha cambiato il tennis
Il momento che viene più spesso citato come spartiacque per l’evoluzione della superficie di Wimbledon è il 2001, quando la federazione del tennis inglese (quella che organizza Wimbledon e la maggior parte dei tornei sull’erba) cambiò l’erba dei campi, passando a una composizione fatta al 100 per cento di loglio perenne, ben più resistente di quella precedente (che era fatta al 70 per cento di segale e al 30 per cento di festuca rossa). La maggiore resistenza era del tutto necessaria, con un gioco che stava diventando sempre più fatto di corsa e colpi potenti, anche per via delle racchette moderne.
Da allora i cambiamenti sono stati notati abbastanza unanimemente da tutti gli esperti e appassionati, e soprattutto dai giocatori, anche se gli organizzatori di Wimbledon si ostinano a dichiarare che la velocità dei campi non sia sostanzialmente cambiata. Non è semplice dimostrare caso per caso che ci sia qualcosa di diverso in un rimbalzo o nella velocità di un colpo, e per lungo tempo ci si è affidati solo alle impressioni, ma oggi esistono statistiche avanzate che hanno permesso di dare una maggiore concretezza a questo dibattito.
Il sito specializzato Tennis Abstract per esempio ha sviluppato un modello basato sulla lunghezza degli scambi fra i giocatori: nel tennis è dimostrato empiricamente che più una superficie è veloce e meno durano gli scambi, perciò può avere molto senso confrontare la lunghezza media degli scambi di oggi rispetto al passato per capire se i campi siano più lenti. Basandosi sui dati di 12mila partite, il modello è arrivato a sostenere che sia l’erba che il cemento abbiano perso velocità negli anni, avvicinandosi progressivamente a quella della terra rossa.
Tra il 1959 e il 1995 gli scambi sull’erba duravano mediamente circa 0,75 colpi in meno di quelli sul cemento, e 1,75 colpi in meno di quelli sulla terra rossa. Dal 2016 a oggi invece gli scambi sull’erba durano mediamente solo 0,45 colpi in meno di quelli sul cemento, e 0,61 colpi in meno di quelli sulla terra rossa. Possono sembrare variazioni piccole, ma fanno una grande differenza su un campione statistico di 12mila partite, e hanno contribuito in anni recenti a rendere possibili scambi molto lunghi anche sull’erba, alcuni dei quali sono diventati piuttosto iconici:
Tra i fattori che hanno contribuito a cambiare le condizioni dell’erba di Wimbledon ce ne sono anche di più difficilmente controllabili: come il fatto che negli ultimi vent’anni la temperatura estiva nel Regno Unito è cresciuta fino a raggiungere di recente i livelli più alti di sempre. Questo ha reso inevitabilmente i campi di Wimbledon più duri, facendo rimbalzare la pallina più in alto e con meno effetti irregolari di un tempo.
Ancora oggi in ogni caso giocare sull’erba rimane una delle esperienze più complesse del tennis per moltissimi giocatori, e continua a presentare moltissime insidie. Non è raro durante le partite vedere giocatori che scivolano, che fanno fatica ad arrivare coordinati al meglio su un colpo o che rimangono a fissare per qualche secondo un ciuffo d’erba dopo un rimbalzo strano che gli ha fatto perdere un punto.
Con i campi un po’ più lenti di un tempo, ha detto ancora Chris Evert a ESPN, oggi la sfida maggiore sull’erba sono «i movimenti e i rimbalzi, il modo in cui usi il tuo corpo e la predisposizione mentale». Correre è molto più difficile che sul cemento o sulla terra rossa, per ogni colpo bisogna piegarsi molto di più perché il rimbalzo è basso e in generale bisogna essere preparati a qualsiasi esito.
Ci sono giocatori tra i migliori del mondo che sull’erba non riescono in alcun modo ad adattarsi e a ottenere risultati significativi, come il norvegese Casper Ruud e il greco Stefanos Tsitsipas, rispettivamente numero 4 e 5 nel ranking mondiale maschile. Di Ruud è stata spesso citata una battuta che fece qualche settimana prima di Wimbledon l’anno scorso: «Penso che l’erba sia per i giocatori di golf».
Sia Ruud che Tsitsipas hanno ottenuto i loro migliori risultati sulla terra rossa, ed è piuttosto normale che due giocatori “di terra” si trovino peggio sull’erba. Le cose però non sono sempre così scontate, quando c’è di mezzo l’erba: la statunitense numero 4 al mondo del ranking femminile Jessica Pegula, per esempio, giocherebbe in teoria un tipo di tennis molto adatto all’erba, aggressivo e fatto di molti colpi piatti. È anche una giocatrice di una certa esperienza, a 29 anni, eppure dice di non riuscire a trovarsi bene, anche perché ci sono troppi pochi tornei a disposizione: «Tutti mi dicono: dovresti amare l’erba, è perfetta per il tuo gioco». E invece, ha detto, «mi sembra sempre di iniziare ad abituarmi quando esco a Wimbledon».
Gli appassionati amanti del tennis su erba sostengono da tempo che il circuito dovrebbe investire su una maggiore quantità di tornei in erba, una superficie su cui peraltro non esistono tornei della categoria ATP e WTA 1000, i più importanti dopo gli Slam (sono in tutto 9, tutti su cemento e terra rossa). I problemi sono legati soprattutto agli investimenti necessari e al mantenimento dei campi, e anche se si discute da tempo di prolungare il periodo dell’anno in cui si gioca sull’erba (al momento circa un mese) o di introdurre tornei su erba di categoria 1000, non ci sono mai state iniziative concrete.
– Leggi anche: Da dove viene il gran momento del tennis italiano