La discussione sulle statistiche etniche in Francia
Sono vietate per legge: è un bene per chi sostiene l'universalismo, un male per chi pensa che così si favoriscono le discriminazioni
L’uccisione a Nanterre, vicino a Parigi, del diciassettenne Nahel M. da parte di un poliziotto e le proteste che ne sono nate hanno riaperto in Francia un dibattito mai risolto sulle cosiddette “statistiche etniche” ovvero sul divieto, stabilito in linea di principio da una legge degli anni Settanta, di raccogliere dati in base all’appartenenza etnica. La discussione pubblica e politica che si è sviluppata in Francia si è soffermata sulla questione delle banlieue e sui problemi delle persone che ci vivono, che hanno tassi di povertà più alti, maggiori probabilità di essere disoccupati, e di essere fermati dalla polizia e di subire degli abusi.
L’analisi di questi problemi ha a che fare, in una certa misura, anche con le statistiche etniche ma esiste da tempo un dibattito acceso sull’opportunità o meno che questo genere di dati siano raccolti. Per alcuni studiosi, accademici o politici, le statistiche etniche che comunque in qualche forma esistono, in Francia, sono più che sufficienti. Per altri nemmeno quelle esistenti dovrebbero essere raccolte e per altri ancora dovrebbero invece essere di più, e fatte meglio.
La normativa sulle statistiche etniche è regolata in Francia da una legge del 1978 che si chiama “Informatique et Libertés” che, in linea di principio, le vieta. All’articolo 6 si dice: «È vietato trattare dati personali che rivelino la presunta origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche o l’appartenenza sindacale di una persona fisica o trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale di una persona fisica».
In Francia è dunque vietato il trattamento di dati personali che rivelino direttamente o indirettamente l’origine «razziale o etnica» delle persone e le altre variabili citate nella legge, così come è vietata l’introduzione di tali variabili negli archivi amministrativi. Diverse statistiche, sondaggi o ricerche, in Francia, hanno però a che fare con questi temi perché quella stessa legge del 1978 contiene delle eccezioni al divieto. Il Consiglio nazionale per l’informazione statistica (Cnis) e la Commissione nazionale per l’informatica e le libertà (Cnil, che si occupa dell’applicazione della legge del 1978) possono infatti, di volta in volta, concedere delle deroghe: a delle precise condizioni e considerando gli obiettivi della raccolta dati, il consenso delle persone coinvolte e altri parametri ancora.
Affermare dunque che in Francia non esistano statistiche sulla diversità etnica della popolazione o ricerche che non diano delle indicazioni sulle disuguaglianze o sulle discriminazioni non è corretto.
L’Istituito nazionale di statistica e studi economici francese (INSEE) fa da tempo delle ricerche che rilevano il paese di nascita o la nazionalità delle persone intervistate e dei loro genitori o familiari. Si basano principalmente su dati oggettivi. Alcune altre indagini utilizzano invece dati soggettivi, che fanno cioè riferimento al “sentimento di appartenenza” delle persone intervistate e che possono includere dei riferimenti al «colore della pelle» come una delle possibili ragioni della percezione di ingiustizie o discriminazioni. Queste ricerche servono a capire in che misura le origini geografiche, nazionali o sociali possano influire sulle possibilità di accesso all’istruzione, al lavoro, ai servizi pubblici e alle prestazioni sociali e così via.
Nonostante la presenza di queste indagini è vero che ne esistono molte meno e molto meno dettagliate che in altri paesi, come ad esempio gli Stati Uniti.
Per alcuni studiosi, accademici o politici, nemmeno le statistiche che ci sono dovrebbero esistere. Tali ricerche, dicono, rischiano di mettere in discussione l’universalismo repubblicano, l’idea che l’identità dei cittadini trascenda ogni altra cosa e che il primato vada assegnato alla comunità politica in quanto composta da individui neutri ed eguali indipendentemente dalle differenze. Questa adesione a una singola identità nazionale è definita astrattamente dal motto “liberté, égalité, fraternité”. Tutti sono uguali davanti alla legge perché la legge, come la società, non bada alle differenze.
Per i difensori dell’universalismo le statistiche etniche mettono a rischio con la loro stessa esistenza questo principio: rinchiudono le persone in categorie identitarie ed essenzialiste (riducendo la loro identità a una determinata caratteristica: essere nere, ad esempio), le rimandano in continuazione alle loro origini o portano a razzializzare le questioni sociali (identificando ad esempio le persone nere con una determinata condizione economica).
Come sostiene tra gli altri il demografo Hervé Le Bras, il rifiuto di identificare le persone per etnia si basa sull’idea che invece di «combattere la discriminazione» le statistiche etniche le rafforzano portando a un «arroccamento» o a un’identificazione «con il proprio gruppo etnico o razziale». Per Le Bras, inoltre, nominare etnie o razze porterebbe inevitabilmente a nominare anche i “bianchi” stabilendo una norma e ciò che si discosta da quella norma. Questo contribuirebbe alla formazione di gruppi suprematisti e incoraggerebbe argomenti o timori basati su presupposti razzisti. Nominare le etnie sarebbe poi molto complicato, costituirebbe una costante fonte di conflitto e porrebbe la questione, di non facile soluzione, delle decine combinazioni possibili tra etnie.
Per Le Bras, basarsi sul “senso di appartenenza”, in poche parole sull’etnia con la quale le persone si identificano, non risolverebbe il problema. Perché sarebbe comunque necessario raggruppare queste percezioni in alcune categorie e perché sarebbe difficile decidere degli obblighi giuridici, destinati ad esempio alla lotta contro la discriminazione, «unicamente su una sensazione che sappiamo essere, in molti contesti, lontana dai fatti».
Per altri studiosi, invece, le poche informazioni fornite dalle statistiche etniche francesi non sono sufficienti e si dovrebbe anzi fare di meglio e di più. Questo tipo di ricerche, dicono, sono soprattutto uno strumento di conoscenza e si rivelano essenziali per misurare l’entità delle discriminazioni.
François Héran, sociologo, antropologo e demografo al Collège de France, contesta il fatto di contrapporre i principi repubblicani alle statistiche etniche: «Che senso ha brandire i nostri ideali universalisti se ci rifiutiamo di misurare lo scarto che li separa dalla realtà? Lungi dal ledere il principio della parità di trattamento, la statistica etnica lo prende alla lettera. È guardando in faccia la realtà che potremo promuovere gli ideali della nazione in un modo diverso che a sole parole».
L’universalismo, dicono in sostanza i sostenitori delle statistiche etniche, è un concetto che può ridursi a una dichiarazione di uguaglianza che resta solo formale se non tiene conto delle differenze. Questa critica è ben comprensibile se si pensa a cosa affermavano i movimenti femministi quando evidenziavano il paradosso di un suffragio che pretendeva, almeno nella definizione, di essere universale, ma che escludeva le donne. Raccogliere dati in base all’appartenenza etnica dei cittadini francesi non solo dunque può aiutare a misurare l’uguaglianza sostanziale e a conoscere l’entità dei fenomeni di discriminazione, ma può servire anche a delineare possibili politiche di contrasto che siano efficaci.
Nel 2020, dopo la morte di George Floyd a Minneapolis mentre veniva arrestato con violenza dalla polizia, l’allora portavoce del governo Macron Sibeth Ndiaye, di origini senegalesi, scrisse un lungo editoriale per Le Monde, ancora oggi molto citato nel dibattito sulle statistiche etniche.
Spiegava come già allora fosse per lei urgente tornare a parlare «della questione della rappresentatività delle persone nere nella vita pubblica, politica, economica e culturale» riaprendo, dunque, «in modo sereno e costruttivo» la discussione sulle statistiche etniche. Sibeth Ndiaye spiegava come negli ultimi anni la questione del razzismo fosse «scomparsa dal campo politico» e fosse stata soppiantata dall’islamofobia e da un dibattito esclusivamente identitario: «Il rifiuto dello straniero non è più il risultato del colore della sua pelle, ma della sua religione». Questa visione aveva via via permesso all’estrema destra di stabilire un sillogismo in cui la questione razzista non veniva cancellata ma rimaneva implicita: «I neri e gli arabi sono spesso musulmani, l’Islam non è compatibile con la Repubblica quindi i neri e gli arabi non sarebbero compatibili con la Repubblica». Parallelamente, l’antirazzismo della sinistra francese si era diluito nella lotta alle disuguaglianze sociali per via di quella che in molti consideravano una grave dimenticanza: che la discriminazione razziale e la discriminazione sociale non dovevano essere confuse.
Pur non negando i lati positivi dell’universalismo, Sibeth Ndiaye dichiarava che l’universalismo incondizionato aveva dunque permesso alle due estremità dello spettro politico di affermare contemporaneamente che il razzismo era ovunque o da nessuna parte, senza che nessuno potesse confutare le loro affermazioni. La sua conclusione era dunque che bisognasse rinunciare a misurare e guardare la realtà per quella che è: «Non dobbiamo esitare a nominare le cose, a dire che il colore della pelle non è neutro, o che un nome o un cognome possono stigmatizzare».
Le sue parole non furono ben accolte. L’allora ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, che ancora oggi ricopre quella carica, le disse: «Un francese è un francese, e io non tengo conto della sua razza, origine o religione, e non desidero tenerne conto».
Le parole di Sibeth Ndiaye sono state riprese dalla giornalista franco-statunitense Charlotte Kilpatrick che qualche giorno fa ha scritto un articolo molto critico contro l’universalismo alla francese e il rifiuto di statistiche etniche più estese. Questo rifiuto è per lei il simbolo della rimozione della Francia a riconoscere il razzismo entro i propri confini.
Questo universalismo, spiega Charlotte Kilpatric, si manifesta in diverse forme: nei programmi scolastici che non affrontano e sfiorano appena il colonialismo, nelle proposte di divieto del velo per le donne musulmane in pubblico, ma anche nelle questioni che hanno a che fare con la sanità. Significa ad esempio, spiega la giornalista, che mancando le statistiche «i funzionari non hanno modo di sapere in che modo le crisi sanitarie colpiscano le diverse comunità» e fa l’esempio di come durante la pandemia di Covid, Reuters avesse raccolto una serie di dati che mostravano come le persone musulmane francesi fossero morte a causa del virus più del resto della popolazione. L’universalismo, prosegue ancora Kilpatric, comporta che non ci siano ricerche aggiornate o significative sulle discriminazioni sul lavoro, sull’alloggio, sull’accesso ai fondi pubblici o comporta che il governo non abbia modo di sapere se i figli delle persone migranti abbiano maggiori difficoltà scolastiche.
Charlotte Kilpatrick conclude il suo articolo dicendo che non dovrebbe essere controverso affermare che la Francia è un paese razzista o che la sua ricchezza è stata costruita anche sul suo passato coloniale. Né, dice, dovrebbe essere controverso affermare che ognuno vive la propria nazionalità in modi diversi: «Essere francesi non significa esclusivamente comprare per pranzo una baguette al prosciutto al panificio locale e accompagnarlo con un buon bicchiere di Bordeaux. Può anche significare passare il venerdì pomeriggio in moschea o la domenica mangiando pesce e riso senegalesi. Il modo in cui Nahel M. ha vissuto la sua nazionalità nella banlieue non è un’esperienza meno valida di quella dei figli dei presidenti francesi che frequentano il liceo a Neuilly-sur-Seine. La differenza è che quei bambini avranno numerose opportunità che Nahel M. non si sarebbe mai potuto sognare. Riconoscere questa mancanza di “égalité” sarebbe un segno di forza nazionale, non di debolezza».