Che cos’è una talea
«Molte delle piante che ho in casa arrivano da case dei miei genitori, dei miei suoceri, o me le hanno regalate amici: aloe liguri, ficus, calatee, alocasie, un melograno regalato da amici berlinesi quando mi sono sposata, fiorisce da dieci anni, nonostante i traslochi, nonostante gli acciacchi, i tagli. Quasi ogni fiore del campo è associato a una persona o a un luogo. Di quanti ricordi era fatto quel glicine, quante persone c’erano tra quei germogli? E io, che pianta vorrei essere?»
Vivo a Torino, in un quartiere che a tanti piace definire “multiculturale” o molto più spesso “difficile”, in cui ci sono grandi aree ex industriali dismesse, rimasugli di un mondo meccanico che non esiste più. Questi luoghi abbandonati, in cui la natura si è ripresa il suo spazio, assomigliano alla campagna, con l’erba alta, le rose, i rampicanti aggrappati ai muri, e sembrano abitati da fantasmi, ma se li si guarda attentamente sembra a volte che nascondano altre presenze. In primavera mi capita spesso di vedere signore cinesi raccogliere tarassaco e luppolo tra l’erba della fabbrica gigantesca dell’ex Lancia. Altre signore fanno essiccare foglie di cavolo su grandi teli bianchi sopra le rampe da skate ai giardini Calcutta dove ogni sera d’estate, nonostante lo spaccio, le donne marocchine fanno picnic insieme ai bambini.
Il quartiere si anima soprattutto nei mesi estivi perché la popolazione resta in città. Il parco è molto vicino a Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande d’Europa, ci piace dire, chissà se è vero. Chi lo frequenta sa che è diviso in diverse aree. Ci sono le bancarelle che si riforniscono ai mercati generali nella piazza centrale, insieme a venditori ambulanti di menta e pane arabo. C’è il mercato coperto dove si trovano carne piemontese e formaggi pugliesi, ma anche prodotti sudamericani, peruviani e brasiliani: dalle patate dolci, all’avocado, a “Valentina” la salsa piccante, alle candele rituali di Santa Marta la dominadora o del Divino Niño Jesùs. Poi, sotto una grande tettoia di ferro battuto, c’è il mercato dei contadini.
Ci si può stare soltanto se si vendono prodotti della propria azienda agricola. Da qualche anno ci sono anche le bancarelle dei contadini cinesi, che hanno verdure a cui siamo meno abituati, se non al ristorante: pak choi, amaranto (nei nostri prati è molto comune), zucche dolci, fagioli serpente, enormi zucchine che sembrano cetrioli, bambù. Siccome mi piace spignattare tendo sempre a provare tutto quel che trovo di nuovo e chiedo come si cucina: amaranto come spinacio, fagioli serpente come fagiolini, cavolo cinese come cavolo, anche crudo, pak choi come pak choi. Se non carpisco qualche ricetta, essendo piemontese, non insisto e mi limito a sorridere al contadino cinese con il cappello da cowboy che mi imbusta con cura tutte le verdure.
A insegnare a fare l’orto a mio padre, che è cresciuto ed è vissuto in un paesino di montagna in Piemonte, è stato Toni, calabrese, perché prima che arrivassero i migranti dal Sud Italia, al nord di melanzane e pomodori manco l’ombra. Mi chiedo quanti pak choi ci siano oggi negli orti piemontesi. Qualche anno fa mi ero inventata un servizio di consegna colazioni a domicilio a Torino. Mi capitava di andare in ogni tipo di palazzo: dagli appartamenti del centro a quelli popolari di quartieri come Mirafiori o Barriera. La costante era la presenza delle piante: negli androni, sui balconi, alle finestre, macchie di colore in un mare di cemento. Ricordo lo stupore davanti a un fiore sbocciato in mezzo alle scale, a un rampicante che si era attaccato alla parete crepata, a piante che portavano altrove, al sud, al mare, o in un paese straniero.
Al mercato di Porta Palazzo, insieme alle verdure di stagione, i contadini portano sempre anche dei fiori e li dispongono in secchielli di plastica bianchi o blu. Tutti gli orticoltori, almeno per la mia esperienza, coltivano qualche fiore, e tra i più frequenti ci sono gladioli, dalie, iris, gigli, creste di gallo, zinnie. Non so il perché di questa usanza, ma penso che abbia di nuovo a che fare con una domanda a cui tenta di rispondere Rebecca Solnit nel saggio Le rose di Orwell. Come mai, si chiede Solnit, un uomo utilitario come George Orwell coltivava rose? Per quale motivo coltivava anche fiori, e non solo frutta e ortaggi? La risposta lunga è complicata, quella breve sarebbe perché i fiori sono belli. Perché anche la cura delle piante è un atto politico. In questi ultimi anni, soprattutto in città, sono nati molti gruppi di plant swapping, tentativi di ripristinare una tradizione antica, quella dello scambio di semi e talee, foglie o rametti che vengono tagliati e immersi nell’acqua o nella terra per farne ricrescere le radici.
A inizio giugno compro sempre un mazzo di gigli di San Luigi al mercato. Quasi ogni banco ne ha un secchiello. Sono fiori bianchi e profumatissimi e il pistillo lascia delle linee gialle sui petali. So che si chiamano così perché sono gli stessi che ha Aldo, mio suocero, davanti alla serra in cui fa l’orto. Mi ha raccontato che li aveva portati via quando se ne era andato dalla casa in montagna dove viveva da giovane e li aveva ripiantati appena arrivato; ha pure un ciliegio innestato da suo fratello Luigi, che aveva fatto la guerra in Sicilia con l’esercito angloamericano ed era tornato a Pavia dove stavano d’inverno, dato che erano pastori transumanti.
Insieme a quel ciliegio è partita una serie infinita di storie: i suoi figli lo volevano togliere quell’albero perché non stava bene, ma Aldo non se l’era sentita e adesso il ciliegio ha una corona di gemme rosse tutte intorno. Mi ha detto: «Come puoi estirpare tuo fratello? Quanto male fa?» E anche: «Quando muoio vorrei essere piantato lì, vicino al ciliegio!» Ma una sfrangiata la dà spesso, i ricordi si trasformano, si modellano secondo i vissuti, accumulano fogliame. Anche il glicine volevano tagliare i suoi figli, si era allargato troppo sopra il tetto della casa, ma lui l’ha solo spostato e adesso è rifiorito intorno al laghetto che tengono come riserva idrica.
Quasi ogni fiore del suo campo è associato a una persona o a un luogo. Di quanti ricordi era fatto quel glicine, quante persone c’erano tra quei germogli? E io, che pianta vorrei essere? Passiamo vicino al muretto lungo il quale si arrampica un roseto; sulla porta di ingresso c’è ancora una rosa rossa che ha più di cent’anni, l’hanno tenuta nonostante i lavori di ristrutturazione. Qui ci sono le iceberg che mi ha dato tuo padre, guarda come sono diventate grandi. La pianta in effetti è ormai un arbusto. Avevo anch’io una di quelle rose, sul balcone a Torino. Fioriva tutti gli anni, anche se si prendeva sempre i pidocchi. Poi, quando abbiamo dovuto sistemare il tetto, ci è colato sopra il cemento e non si è ripresa più. Arrivano dal mare quelle rose, sono bianche e delicate, quando sbocciano si aprono completamente e i pistilli gialli sembrano piccole lentiggini.
Mio padre si era fatto una talea dalla pianta dei vicini e ne aveva portata una a casa. Quante persone per una rosa, me ne vengono in mente almeno sei. Quante talee ha fatto mio padre nella sua vita. La maggior parte dei fiori e piante che abbiamo avuto in casa sono passate da tante mani. Penso a come la cura delle piante sia legata a quella dei ricordi, e man mano che si invecchia le piante di casa traccino una geografia di persone, di vivi e di morti. Quanta cura ci vuole per mantenere un ricordo, quanto siamo disposti a farlo durare? Certo, era più facile per la generazione di mio padre, abituata a “tener da conto”, a riparare, la mia generazione non è così brava a stare nelle righe, a fare le cose a modo, a occuparsi quotidianamente dell’erba alta; ma forse sa meglio sopportare l’imperfezione, sa sorprendersi di un rampicante cresciuto in un muro e non pensa alle fondamenta che possono rompersi.
Molte delle piante che ho in casa arrivano da case dei miei genitori, dei miei suoceri, o me le hanno regalate amici: aloe liguri, ficus, calatee, alocasie, un melograno regalato da amici berlinesi quando mi sono sposata, fiorisce da dieci anni, nonostante i traslochi, nonostante gli acciacchi, i tagli. In questo periodo ho in affido le piante di un’amica che ha cambiato casa dopo una separazione. Una piccola selva con quattro tipi di ficus, avocado giganti nati da piccoli semi, agave siciliani, succulente pugliesi. Abbiamo piante resistenti al caldo, più che piante cittadine autoctone, che resistono alle estati torinesi sempre più torride, e in questo giugno acquatico, quasi monsonico, sono lisce e lucide come in una foresta. L’importante è che resistano e noi con loro. Spero che le piante ci fioriscano addosso.