L’operazione a Jenin è stata davvero un successo per Israele?
Il governo israeliano dice di sì, ma ci sono parecchi dubbi, anche per la possibile reazione della popolazione palestinese
La grossa operazione militare dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, cominciata lunedì nelle prime ore del mattino e terminata 48 ore dopo, è stata definita dal governo israeliano e da alcuni esperti come un «successo», perché avrebbe raggiunto buona parte degli obiettivi che l’esercito si era prefissato. Molti esperti tuttavia hanno notato come l’operazione, in cui sono morte 12 persone e centinaia sono state ferite, oltre agli immediati obiettivi di contrasto al terrorismo non avesse nessun intento strategico più ampio, e anziché risolvere i problemi di lungo periodo a Jenin e in Cisgiordania potrebbe rischiare di amplificarli.
Nella sua operazione, che aveva l’obiettivo di colpire e indebolire i gruppi armati palestinesi che si trovano nel campo profughi di Jenin, l’esercito ha detto di aver arrestato circa 150 sospetti miliziani, di aver sequestrato depositi di armi, di contanti e di mine, compreso uno che si trovava sotto a una moschea, e di aver distrutto un centro di comando delle milizie locali. L’intento dell’esercito, oltre agli arresti e ai sequestri, era di indebolire il controllo dei gruppi armati sul campo profughi di Jenin, in cui ormai da qualche tempo era diventato molto pericoloso entrare sia per l’esercito israeliano sia per gli uomini dell’Autorità palestinese, cioè l’ente politico che avrebbe l’autorità formale sulla Cisgiordania.
Se questi obiettivi sono stati più o meno raggiunti, l’operazione militare israeliana non ha ottenuto nessun risultato di lungo termine. Tutti gli esperti si aspettano che i gruppi che hanno perso armi e mezzi cercheranno di riarmarsi in breve tempo, e che l’esercito israeliano sarà costretto a nuovi raid. Itamar Yaar, un ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto al New York Times che «l’operazione è stata piuttosto corta e limitata», e che potrebbero rendersi necessari nuovi raid «perfino domani». Anche il primo ministro Benjamin Netanyahu martedì aveva detto che l’operazione a Jenin sarebbe stata l’inizio di «incursioni regolari e controllo costante del territorio».
C’è poi il rischio elevato che un’operazione molto violenta come quella compiuta dall’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin possa provocare delle ritorsioni. Alcune ce ne sono già state, come l’attacco di Tel Aviv di martedì rivendicato da Hamas, in cui un uomo palestinese ha investito alcuni pedoni, o come il lancio di cinque razzi dalla Striscia di Gaza.
L’operazione, inoltre, ha probabilmente alimentato la rabbia e il risentimento della popolazione del campo profughi di Jenin.
Da mercoledì mattina, quando l’esercito israeliano si è gradualmente ritirato dal campo profughi, le oltre 3.000 persone che erano state costrette a fuggire a causa delle violenze sono tornate alle loro case: molte di loro le hanno trovate distrutte o gravemente danneggiate. «La mia casa è completamente distrutta. È tutto rotto e bruciato», ha detto alla BBC una di queste persone.
Mercoledì si sono tenuti inoltre i funerali di 10 dei 12 palestinesi uccisi dall’esercito durante l’operazione a Jenin. L’esercito sostiene che fossero tutti combattenti: il gruppo armato palestinese del Jihad Islamico ha rivendicato l’appartenenza al suo gruppo di otto degli uomini uccisi, mentre un altro gruppo armato ha detto che uno dei suoi uomini era stato ucciso. Per ora non ci sono notizie certe sugli altri. (È stato ucciso anche un soldato israeliano, probabilmente da “fuoco amico”).
Durante i funerali sono stati sparati colpi da arma da fuoco in aria per commemorare le persone morte, e sono stati gridati slogan contro Israele. Oltre a Israele, tuttavia, è stata criticata quasi altrettanto duramente l’Autorità Palestinese. Quando tre funzionari dell’Autorità si sono presentati al funerale, molte persone hanno gridato contro di loro: «Andatevene! Andatevene!», e ci sono stati alcuni scontri. Le guardie di sicurezza che accompagnavano i tre funzionari li hanno portati via usando anche gas lacrimogeni per farli scappare.
I residenti del campo profughi di Jenin sono arrabbiati contro l’Autorità Palestinese anzitutto perché non avrebbe fatto abbastanza per difenderli dall’attacco: ha definito l’operazione israeliana un «crimine di guerra», ma non ha fatto niente di concreto per fermarla. Ma in realtà nessuno si aspettava davvero che l’Autorità Palestinese avrebbe fatto qualcosa.
Teoricamente, l’Autorità Palestinese avrebbe il controllo su parte della Cisgiordania, il territorio che Israele occupa dal 1967 e che i palestinesi rivendicano come proprio, ma non ha i mezzi per fare rispettare davvero il suo potere. Secondo vari accordi internazionali, il controllo dell’ordine pubblico in Cisgiordania dovrebbe essere condiviso tra l’esercito israeliano e le forze dell’Autorità Palestinese, ma queste ormai da tempo, un po’ per scarsità di mezzi e un po’ perché costrette, hanno di fatto lasciato campo libero all’esercito israeliano.
L’incompetenza dell’Autorità Palestinese è una delle ragioni per cui ormai da tempo è in corso tra le forze palestinesi una frammentazione non soltanto politica ma anche militare. Da alcuni anni sono nati – anche nel campo profughi di Jenin – numerosi gruppi armati indipendenti che non rispondono ai gruppi più grandi come Hamas e Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Mahmoud Abbas. Questi gruppi indipendenti, spesso molto violenti, sono imprevedibili e difficili da sorvegliare e controllare, e sono ritenuti una minaccia piuttosto grave alla stabilità dell’area.