Attorno al ponte di Mitrovica
Divide la città del nord del Kosovo a maggioranza serba in due parti così diverse da sembrare due paesi distinti, che fanno sempre più fatica a convivere
di Luca Misculin, foto di Valentina Lovato
A Mitrovica, città nel nord del Kosovo, c’è un ponte a tre arcate molto particolare: è lungo 140 metri, ospita una copertura bianca che ricorda alla lontana i lavori dell’architetto spagnolo Santiago Calatrava, ma soprattutto unisce due pezzi di città, a nord e a sud del fiume Ibar, che sono così diversi da sembrare due paesi distinti.
A sud ci sono i minareti, gli edifici alti e stretti da cui le autorità religiose musulmane diffondono musiche e preghiere, e alcune statue di aquile, il simbolo della bandiera dell’Albania. A nord fra un palazzo e l’altro sono appese decine di bandiere della Serbia, come se fosse appena finita una parata. Sui muri sono dipinte diverse Z, il simbolo dell’invasione russa dell’Ucraina. A sud si paga in euro, a nord in dinari serbi. A sud gli smartphone si collegano a internet, a nord poco e male.
Dal lato della parte nord di Mitrovica il ponte è sorvegliato da una presenza familiare, per una persona italiana. Sotto a un piccolo gazebo si ripara dal caldo un gruppo di carabinieri dell’unità specializzata multinazionale (MSU), un corpo d’élite che si occupa di assistenza umanitaria. Fanno parte del contingente KFOR, la più grande missione della NATO. È lo stesso contingente di cui facevano parte gli 11 italiani feriti durante una protesta dei kosovari di etnia serba a fine maggio: gli scontri sono avvenuti davanti al municipio di Zvečan, un paese che si trova a 3 chilometri in linea d’aria dal ponte.
Il KFOR è attivo in Kosovo per garantire la convivenza pacifica fra le due etnie principali del paese: quella albanese a maggioranza musulmana, e quella serba, prevalentemente cristiano ortodossa. Negli anni si sono alternati periodi di tensione a periodi di relativa tranquillità. Secondo alcuni però le tensioni iniziate qualche mese fa e culminate, almeno per ora, negli scontri di fine maggio, sono le più gravi dalla fine della guerra che si è combattuta in Kosovo fra il 1998 e il 1999.
Mitrovica è sempre stata una città importante per via della sua posizione, a metà strada fra Belgrado (Serbia) e Skopje (Macedonia del Nord). Negli ultimi due secoli è stata controllata dall’Impero austroungarico, dagli Ottomani, dagli albanesi, dai serbi, dall’esercito nazista durante la Seconda guerra mondiale. Nei primi decenni di vita della Jugoslavia migliaia di lavoratori lavoravano nel complesso industriale di Trepča, costruito sopra una delle miniere di zinco e piombo più ricche in Europa.
La dissoluzione della Jugoslavia e la Guerra del Kosovo resero la convivenza fra le due etnie più rilevanti in città, quella serba e quella albanese, sempre più difficile. Gli abitanti serbi si trasferirono a nord del fiume Ibar, dove c’era già una prevalenza di serbi. Gli albanesi fecero lo stesso, verso sud.
Nel 2008 la proclamazione di indipendenza da parte del Kosovo – mai riconosciuta dalla Serbia – spinse Mitrovica e altre cittadine più piccole a maggioranza serba nel nord del Kosovo in un complicato limbo amministrativo e burocratico. Sono posti dove periodicamente riemergono tensioni e violenze fra kosovari di etnia serba e albanese. Oggi a nord del ponte vivono circa 30mila persone, a sud circa 70mila.
Gli albanesi, che nel resto del Kosovo sono il gruppo etnico più numeroso, ritengono che i kosovari di etnia serba non vogliano integrarsi pienamente nello stato kosovaro e che ancora oggi esista il rischio che la Serbia invada e annetta i territori del Kosovo a maggioranza serba. Il nazionalismo serbo del resto è tradizionalmente molto aggressivo e muscolare, ha di fatto iniziato diversi conflitti nei Balcani e rimane fortissimo. L’uomo che domina la politica serba da dieci anni, Aleksandar Vučić, è stato ministro di Slobodan Milošević, ex presidente della Serbia morto in carcere nel 2006 in attesa di essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per genocidio.
Nella parte nord di Mitrovica le dimostrazioni di nazionalismo serbo sono assai esplicite.
Quasi nascosta dalle bandiere, a cento metri di distanza dal ponte, c’è una statua del condottiero serbo Lazar Hrebeljanović, morto in una storica battaglia del 1389 contro l’esercito musulmano degli Ottomani. In un murales poco distante dal ponte che raffigura un gruppo di minacciosi omini completamente neri si legge una frase perentoria, che suona così: «Questa è la nostra ultima frontiera». Un altro murales mostra la bandiera della Serbia che si fonde con quella della Russia (i due paesi sono legati da forti legami culturali e religiosi). Sullo sfondo della bandiera serba c’è l’intero Kosovo, sullo sfondo della bandiera russa è stata disegnata la Crimea, la regione ucraina invasa e annessa da forze russe nel 2014.
«Qui siamo dei bersagli», racconta un giornalista della tv pubblica kosovara venuto a Mitrovica per realizzare un servizio. La sua troupe ha parcheggiato accanto al ponte, ma non vuole addentrarsi nella parte nord della città. Durante le proteste di fine maggio almeno una decina di giornalisti di etnia albanese sono stati picchiati o maltrattati dai manifestanti serbi.
I serbi che abitano a Mitrovica e nelle altre cittadine a maggioranza serba temono invece che il governo kosovaro voglia integrare a forza i territori in cui vivono, senza rispettare i loro diritti derivanti dall’essere una minoranza. Pensano inoltre che il governo kosovaro voglia trattarli da cittadini di “serie B” finché decideranno di andarsene. Fra le altre cose nelle cittadine a maggioranza serba la connessione internet alla rete mobile Vala, gestita dallo stato kosovaro, funziona molto peggio che nel resto del paese.
Nel 2013 il governo kosovaro e la Serbia trovarono un complesso accordo per creare un governo condiviso di questi territori: le cittadine a maggioranza serba avrebbero dovuto formare una Comunità autonoma all’interno dello stato kosovaro.
Alcuni elementi dell’accordo sono stati realizzati, molti altri no: la Comunità per esempio non è mai stata formata. In queste cittadine dalla fine della guerra la moneta corrente è rimasta il dinaro serbo. La Serbia inoltre gestisce le scuole e gli ospedali, e fornisce agli abitanti uno speciale passaporto serbo. Gli accordi del 2013 prevedevano che tutte le altre competenze dovessero essere fissate con un negoziato fra il governo centrale kosovaro e quello serbo. La minoranza serba però sostiene che il Kosovo stia applicando gli accordi troppo lentamente. E anche l’inizio delle ultime tensioni tra le due parti ha a che fare con l’applicazione dell’accordo.
Quando alla fine del 2022 in queste cittadine sono state convocate le elezioni per rinnovare i sindaci, i leader della comunità serba hanno indetto un boicottaggio: i kosovari di etnia serba non avrebbero partecipato alle elezioni fino alla creazione della Comunità autonoma. Il governo centrale kosovaro ha ordinato di tenere lo stesso le elezioni e nel nord di Mitrovica, che per gli accordi del 2013 nel frattempo era diventata una città autonoma e separata dalla parte a sud, è stato eletto un sindaco di etnia albanese, con soli 553 voti e un’affluenza del 3,47 per cento.
«Alcuni sindaci nei territori a maggioranza serba sono stati eletti con un centinaio di voti. In una cittadina sono diventati consiglieri comunali due persone che non avevano ricevuto alcun voto: non si erano votati nemmeno loro stessi», racconta Miodrag Marinkovic, capo di una ong di Mitrovica che difende i diritti della minoranza serba. «Questi consiglieri sono ancora al loro posto e il governo centrale del Kosovo sta testardamente mantenendo questo ridicolo assetto politico per danneggiare la Serbia e gli interessi dei serbi», sostiene Marinkovic.
In alcune cittadine a maggioranza serba i sindaci si sono insediati scortati dalle forze dell’ordine.
A Leposavić, 25 chilometri a nord di Mitrovica, il sindaco di etnia albanese Ljuljzim Hetemi è entrato nel municipio a fine maggio e da allora non ne è più uscito. A Zvečan, il paese in cui sono stati feriti i soldati italiani, il nuovo sindaco è riuscito a lasciare il municipio illeso, scortato dalla polizia kosovara, ma i manifestanti non se ne sono mai andati. A un mese di distanza diversi dipendenti comunali, le loro famiglie e altri simpatizzanti presidiano la strada del municipio per evitare che il nuovo sindaco possa lavorare regolarmente.
Da fuori il presidio sembra una sagra di paese: ci sono gazebo colorati e tavoli da campeggio, bambini che giocano, qualcuno ha messo della musica. I gazebo sono guardati a vista da un gruppo di soldati turchi della KFOR, che da dietro le transenne e il filo spinato proteggono l’ingresso del municipio.
L’insediamento forzato dei sindaci era stato ordinato direttamente dal primo ministro del Kosovo Albin Kurti, di etnia albanese, eletto col centrosinistra nel 2021. Gli alleati occidentali del Kosovo non l’avevano presa bene. Il dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso un duro comunicato per condannare queste operazioni, «compiute contro le indicazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei del Kosovo».
L’Unione Europea è andata oltre e a metà giugno ha approvato una serie di sanzioni contro il Kosovo, ritenendo che non stesse facendo abbastanza per ridurre la tensione nelle cittadine a maggioranza serba. Alcuni parlamentari europei hanno protestato, sostenendo che anche la Serbia avrebbe dovuto ricevere delle sanzioni per la sua quota di responsabilità nell’alimentare le recenti tensioni. Ormai da anni però l’Unione Europea è molto cauta nei suoi rapporti con la Serbia, per timore che un atteggiamento troppo aggressivo possa avvicinarla ancora di più alla Russia.
Al contempo però le sanzioni al Kosovo potrebbero danneggiare l’immagine dell’Unione Europea in uno dei paesi balcanici in cui è più popolare, anche grazie agli ingenti fondi per la cooperazione che garantisce da anni. Molte delle ong attive in Kosovo sono finanziate in parte dell’Unione Europea, così come diversi progetti infrastrutturali.
Anche il ponte di Mitrovica è stato riqualificato nel 2016 con 1,2 milioni di euro di fondi europei, quindici anni dopo la sua ristrutturazione da parte di una ditta francese. Del ponte originario, costruito nel 1973, rimane ormai molto poco. Con i soldi dell’Unione Europea sono stati sistemati i viali di accesso da entrambe alle parti, ma il traffico delle auto rimane vietato: per attraversare il fiume Ibar in macchina si usano altri due ponti, più scomodi.
Alcune stime ritengono che soltanto nel 2023 per via delle sanzioni il Kosovo possa perdere circa 500 milioni di euro di fondi che l’Unione Europea destina ai paesi dei Balcani occidentali. Questo nonostante le sanzioni siano state costruite in modo da non avere conseguenze troppo pesanti sulla vita dei kosovari, nella speranza che il governo subisca comunque pressioni per fare delle concessioni alla minoranza serba.
L’Unione Europea si aspetta che Kurti e il suo governo ammorbidiscano la propria posizione sui sindaci di etnia albanese eletti nelle cittadine a maggioranza serba, e che riducano il dispiegamento in questi territori della polizia speciale: un corpo militare formato esclusivamente da kosovari di etnia albanese che secondo quelli di etnia serba li intimidisce e discrimina in maniera sistematica. Almeno per ora Kurti non sembra volere fare concessioni.
Intanto i problemi a Mitrovica si notano anche dallo sparuto numero di persone che attraversa il ponte, rigorosamente a piedi. Il traffico delle auto è vietato da anni, per timore che da una parte e dall’altra grandi gruppi di persone possano attraversarlo all’improvviso. Sia il centro pedonale della zona sud sia quello della zona nord si affacciano sul fiume Ibar, e sono separati solamente dal ponte.
In città circolano ancora le storie di quando il ponte veniva attraversato senza problemi, a piedi e in macchina, prima della guerra. Oggi non è più così. «Se vuoi attaccare briga, si viene al ponte», racconta la giornalista Milica Andrić Rakić, kosovara di etnia serba e collaboratrice dell’agenzia tedesca Deutsche Welle. Lei e una sua collaboratice ricordano ancora di essersi molto spaventate quando la nazionale di basket della Serbia perse contro la Turchia alle semifinali dei Mondiali del 2010, e sul ponte si presentarono sia moltissimi kosovari di etnia albanese, che volevano sfottere i serbi per la sconfitta, sia parecchi kosovari di etnia serba, per celebrare ugualmente la nazionale serba.
Rakić non sembra molto ottimista sulle prospettive di Mitrovica e delle sue divisioni profonde, e per spiegarlo parla proprio del ponte. «Per gli abitanti della parte sud della città rimane un simbolo della città che era un tempo ma che forse non tornerà più come prima. Per i kosovari di etnia serba è un simbolo di resistenza e di sopravvivenza».