La puntualità è un concetto relativo
Le culture “policroniche” e “monocroniche” si distinguono per come intendono il tempo, e a volte fanno fatica a capirsi
Che lo scorrere del tempo sia scandito da un orologio è una condizione necessaria per il normale svolgimento della maggior parte delle nostre attività quotidiane: da prendere un aereo a presentarsi in orario a un appuntamento di lavoro. Ore, minuti e secondi non sono però l’unico modo attraverso cui le persone nel mondo misurano il tempo. Avverbi come “presto” o “tardi”, per esempio, possono significare riferimenti temporali molto variabili a seconda della persona che li utilizza, del contesto e della cultura in cui sono inseriti.
Le persone fanno un diverso uso del tempo e degli spazi comuni a seconda della loro storia e della loro cultura, com’è noto a chi nelle scienze sociali studia le variabili che influenzano la percezione comune del tempo e anche la sua misurazione. Come percepiamo e misuriamo il tempo dipende in una qualche misura anche dalla comunicazione non verbale, ed è il risultato di una serie di processi di apprendimento, interazione e socializzazione, prima ancora che una questione di orologi.
Una delle più citate distinzioni nei modi di percepire il tempo è quella tra culture “monocroniche” e “policroniche”, che è utilizzata anche in contesti di lavoro e aziendali per analizzare e discutere approcci differenti alla gestione del tempo. A definire la distinzione negli anni Sessanta fu l’antropologo statunitense Edward Hall, uno dei più influenti studiosi di comunicazione non verbale e prossemica (la branca della semiologia che studia il significato degli spazi interpersonali nelle interazioni sociali).
Nelle culture monocroniche, scrisse Hall nel libro del 1959 The Silent Language, il tempo è pensato come lineare, e ci si aspetta che le persone facciano una cosa alla volta, in sequenza. È anche possibile farne più di una contemporaneamente, ma seguendo in ogni caso un programma che ha un inizio e una fine. È il caso della maggior parte delle culture occidentali, che hanno per questo motivo una ridotta tolleranza per ritardi e interruzioni, scrisse Hall, e in cui è considerato inaccettabile dover attendere in un incontro internazionale la persona da incontrare, per esempio. Lo è perché si tende a credere che la percezione monocronica del tempo sia l’unica possibile, e che quindi l’attenzione della persona da incontrare sia in quel momento concentrata soltanto sull’incontro in programma.
In un sistema monocronico il tempo è generalmente misurato, organizzato e gestito come un insieme di unità discrete. E questa percezione è anche alla base di espressioni metaforiche in cui è inteso come qualcosa di tangibile: sprecare, trovare, finire, risparmiare il tempo, per esempio. Tutte espressioni che hanno meno senso nelle culture policroniche, come in gran parte dell’America Latina e dell’Asia. Nelle culture policroniche il tempo non è concepito come un insieme di unità ma come un’esperienza continua e flessibile, in cui è normale fare più cose contemporaneamente e concentrare l’attenzione su molteplici aspetti della vita, del lavoro e delle relazioni sociali, a seconda delle esigenze del momento.
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Il tempo monocronico è qualcosa di arbitrario e appreso, secondo Hall, e dal momento che è così profondamente integrato nel tessuto delle culture monocroniche, difficilmente ci rendiamo conto di quanta parte regola della nostra vita, da quella sociale e lavorativa a quella sessuale. In sostanza, per Hall, nelle culture monocroniche il tempo è un contenitore vuoto in attesa di essere riempito, con una cosa alla volta, e le persone valutano sé stesse sulla base di quanto e come riescono a riempirlo.
Nelle culture policroniche l’idea stessa che il tempo possa andare sprecato è difficile da comprendere, perché la percezione del tempo enfatizza il coinvolgimento delle persone e il completamento dell’azione anziché il rispetto degli orari. In questi contesti è anche del tutto normale svolgere diverse attività alla volta, secondo Hall, che fa l’esempio dei suq in Medio Oriente, mercati in cui «clienti rumorosi si contendono l’attenzione di un singolo impiegato che sta cercando di servire tutti contemporaneamente».
Un’altra distinzione teorizzata da Hall – spesso associata alla distinzione tra culture monocroniche e policroniche, sebbene più sfumata – è quella tra culture ad alto e a basso contesto (high-context e low-context). In quelle del primo tipo, in linea di massima, il contesto e i molteplici aspetti della comunicazione non verbale tendono ad assumere molta rilevanza nell’interazione sociale. E questo tipo di maggiore attenzione al contesto rispetto alla puntualità o alla velocità è tendenzialmente più frequente nei casi il cui la percezione del tempo è policronica.
Nel 2015 David Andrews, autore del libro Why Does the Other Line Always Move Faster?, in una conversazione con l’Atlantic associò la distinzione tra culture monocroniche e policroniche, e tra culture a basso e ad alto contesto, anche all’inclinazione a disporsi o non disporsi in fila per attendere il proprio turno. In un caso formare una fila è un comportamento normale, mentre nell’altro caso altri criteri comunicati di volta in volta possono essere più rilevanti per lo svolgimento dell’azione.
Nelle culture policroniche, disse Andrews, c’è una maggiore inclinazione a comunicare i valori condivisi all’interno del gruppo, mentre nelle culture monocroniche e a basso contesto non c’è bisogno di condividere informazioni sul contesto per prendere una decisione, e predominano comportamenti regolati da norme e prassi più o meno rigide. «Il fatto che negli Stati Uniti consideriamo l’ordine di arrivo un criterio chiave per determinare cosa sia giusto fare indica il nostro essere una cultura a basso contesto e monocronica», disse Andrews. «Pensiamo che il tempo vada avanti indipendentemente da come lo viviamo, lo consideriamo molto obiettivo».
Nei casi in cui nelle culture monocroniche tende a formarsi una fila, secondo Andrews, in una cultura policronica possono invece emergere comportamenti differenti a seconda delle circostanze. Può essere normale, per esempio, dare priorità a persone anziane o madri con bambini, e spingerle attraverso la folla in modo che siano servite per prime: «Ma prendere queste decisioni richiede molto contesto culturale». Esistono inoltre casi e culture in cui i due comportamenti, formare una fila e dare priorità ad alcune persone, di fatto coesistono.
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Secondo Hall la caratteristica principale delle culture monocroniche è l’idea che il tempo sia una costante immutabile, che sia uguale in tutto il mondo e semplicemente ordinato in fusi orari diversi. L’esperienza nei rapporti internazionali e nelle relazioni interculturali mostra invece come il tempo sia piuttosto un insieme di concetti, eventi e ritmi relativi a un insieme estremamente ampio ed eterogeneo di fenomeni.
Per un periodo negli anni Cinquanta Hall lavorò per il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nel Foreign Service Institute (FSI), il principale istituto che si occupa della formazione dei diplomatici. E in The Silent Language, descrivendo le frequenti difficoltà degli statunitensi a relazionarsi con il mondo arabo, raccontò di una volta in cui un esperto di agricoltura andò in Egitto per insegnare alcune tecniche agli agricoltori locali. A un certo punto chiese all’interprete di domandare a un agricoltore quanto si aspettasse che il campo avrebbe reso quell’anno, e l’agricoltore si innervosì. «Dice che non lo sa», disse l’interprete, smorzando il tono della risposta dell’agricoltore.
L’esperto si accorse che qualcosa nella conversazione era stato probabilmente frainteso, ma non capì cosa. Hall scrisse che, qualche tempo dopo quel fatto, lui stesso imparò che in gran parte del mondo arabo chiunque cerchi di prevedere il futuro è visto come «un mezzo matto», perché «soltanto dio conosce il futuro, ed è presuntuoso persino parlarne». Di conseguenza, quando l’esperto chiese all’agricoltore cosa pensasse del futuro, probabilmente l’agricoltore egiziano si sentì offeso perché pensava che lo statunitense lo considerasse pazzo.
Nel libro del 1983 The Dance of Life: The Other Dimension of Time Hall descrisse altri casi di profonde differenze nella percezione del tempo riconducibili a differenze nel contesto linguistico. Nelle culture monocroniche il tempo è percepito come qualcosa di reale e tangibile, scrisse, «perché possiamo attribuirgli un valore numerico». Questo non succede, per esempio, nella lingua hopi: una lingua parlata da un gruppo di circa 6 mila nativi americani nell’Arizona nord-orientale, a lungo oggetto delle ricerche del linguista statunitense Benjamin Lee Whorf.
I verbi nella lingua hopi non hanno un tempo: si distinguono per altri aspetti, come la durata o la completezza dell’azione di cui si parla. In generale stabiliscono una relazione tra il parlante e la sua conoscenza o esperienza di ciò di cui sta parlando. In moltissime lingue poi, incluso l’inglese e l’italiano, parole associate al tempo come “estate” e “inverno” sono sostantivi, il che «conferisce loro una qualità materiale perché possono essere trattati come qualsiasi altro sostantivo, numerati e dotati di plurali», scrisse Hall: in altre parole, «sono trattate come oggetti». Nella lingua hopi le stagioni sono invece trattate più come una specie di avverbio, a voler trovare la parte del discorso più assimilabile nelle lingue diverse dallo hopi.
Gli hopi non possono dire “l’estate è calda”, per esempio: perché l’estate è la qualità di ciò che è caldo, proprio come una mela ha la qualità di essere rossa. «L’estate e il caldo sono la stessa cosa, l’estate è una condizione: caldo», scrisse Hall. E non c’è nella parola “estate” niente che implichi il significato del tempo che passa, come è invece sottinteso in molte lingue con cui abbiamo familiarità. Anche queste differenze linguistiche, secondo Hall, sono alla base delle diverse percezioni del tempo e del diverso valore che ciascuna cultura attribuisce a concetti come la velocità e la puntualità.
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Alla diversa percezione del tempo sono spesso associate anche altre variabili culturali che possono complicare la comunicazione nell’ambito delle relazioni internazionali, condizionando per esempio la dichiarata disponibilità ad assumersi incarichi e responsabilità. Nel 2016 Kara Alaimo, docente di Comunicazione alla Fairleigh Dickinson University in New Jersey ed ex coordinatrice dei media alle Nazioni Unite, raccontò di queste difficoltà in un articolo sul New York Times intitolato Come comportarsi con un collega straniero che non può dire di no.
Alaimo spiegò che, quando lavorava alle Nazioni Unite e programmava riunioni a distanza ogni due settimane, chiedeva ai colleghi e alle colleghe di altri paesi se fosse per loro possibile fornire informazioni entro determinate scadenze. E di solito rispondevano quasi tutti di sì, senza dubbi: solo che le scadenze non venivano quasi mai rispettate, lasciando Alaimo disorientata e confusa. «Alla fine il mio capo sudafricano dovette spiegarmi una cosa non mi sarebbe mai venuta in mente: in molte culture è maleducato dire di no», scrisse Alaimo.
Alcune persone, scrisse, avrebbero detto di sì a qualsiasi richiesta, indipendentemente dal fatto che fossero oppure no in grado di rispettare una consegna. Dimostrarsi ben disposte a lavorare insieme era per loro un valore prioritario rispetto a quello relativo alla puntualità: valore che in alcuni casi può anche mancare del tutto. Alaimo scrisse che una volta, quando lavorava nell’amministrazione del presidente Barack Obama come portavoce per gli affari internazionali al dipartimento del Tesoro, andò in Africa con un importante funzionario del governo per incontrare un capo di stato.
Arrivati nell’ufficio in cui era in programma la riunione, il presidente che avrebbero dovuto incontrare non era lì. «Il mio capo era furioso perché nelle culture “monocroniche” come gli Stati Uniti ci si aspetta che le persone siano tempestive e che le scadenze siano rispettate», scrisse Alaimo. Ma «nelle culture policroniche, come nell’Africa sub-sahariana e in America Latina, i piani sono meno stabili e cambiano continuamente».
Anche Alaimo citò poi la distinzione tra culture ad alto e a basso contesto. Attribuì al fatto che lei fosse abituata a vivere in una cultura a basso contesto, come gli Stati Uniti, la sua tendenza a dire «senza mezzi termini e direttamente» quando vuole che qualcosa venga fatto. E scrisse che in culture ad alto contesto, come in Asia, le persone possono invece «comunicare in modo più sottile», ed è necessario «cogliere il linguaggio del corpo e altri segnali contestuali per capire che la tua collega che ti ha appena detto di sì in realtà ha appena comunicato che non è d’accordo con il tuo piano».
Questo non significa che la comunicazione interculturale sia impossibile, ma solo che culture diverse «possono intraprendere percorsi diversi per raggiungere obiettivi simili», scrisse Alaimo. E concluse segnalando che invece di chiedere ai colleghi di altri paesi di rispettare le scadenze cominciò a lavorare meglio con loro «chiedendo cosa fosse per loro possibile fare e cosa pensassero fosse meglio nel loro paese o nella loro cultura».
Benché tipicamente associate a gruppi linguistici e comunità, le nozioni di tempo monocronico e policronico sono state nel corso del tempo associate anche a società, professioni e altri gruppi eterogenei di persone. Da tempo circolano in particolare in analisi e approfondimenti sulle culture aziendali, in cui sono spesso utilizzati per definire due diversi approcci al lavoro, alla gestione del tempo e all’organizzazione delle riunioni.
In contesti che privilegiano il tempo policronico l’interazione tra colleghi avviene perlopiù in sequenze temporali continue, non definite da un programma con un inizio e una fine. Le persone lavorano su più progetti, o completano più attività contemporaneamente. E gli orari e le tempistiche sono tendenzialmente adattate per soddisfare le esigenze delle persone e per favorire lo sviluppo delle relazioni, più che per completare i progetti. Di conseguenza l’esito delle programmazioni è meno prevedibile, e la riprogrammazione di incontri e riunioni è abbastanza comune.
In ambienti di lavoro in cui la gestione del tempo è invece basata sul tempo monocronico gli eventi si verificano in sequenza o secondo uno schema lineare, e il tempo è rigidamente misurato tramite l’orologio. Rispettare le tempistiche è considerato molto importante, perché un singolo rallentamento o un problema lungo la catena può interferire con il completamento delle attività. E la produttività e la puntualità hanno tendenzialmente un valore maggiore rispetto alle relazioni tra individui.