C’è poco cambiamento climatico nelle sceneggiature
Inserirlo nei film e nelle serie tv senza catastrofismo è difficile, perché per gli spettatori è noioso: a Hollywood ci si sta ragionando
Un paio di settimane fa al Samuel Goldwyn Theater di Beverly Hills, a Los Angeles, si è tenuta la quarta edizione dell’Hollywood Climate Summit, una conferenza dedicata al tema della sostenibilità ambientale nell’industria dell’intrattenimento e alle modalità attraverso cui il cinema e la televisione raccontano la crisi climatica. Durante la manifestazione si sono tenute anche le premiazioni del Pitchfest, un premio rivolto a tutti gli sceneggiatori desiderosi di raccontare storie legate al clima da prospettive particolari e inedite: i 24 vincitori hanno avuto la possibilità di partecipare a dei colloqui individuali in cui esporre le proprie idee ad alcuni produttori di Hollywood.
L’evento è nato grazie all’impulso del Climate Ambassadors Network (CAN), un collettivo composto da persone che lavorano a vario titolo nell’industria dell’intrattenimento, tutte accomunate dalla volontà di parlare più spesso, e in maniera più consapevole, di crisi climatica. Un punto su cui il collettivo insiste moltissimo, infatti, è la scarsa rappresentazione della crisi climatica nella scrittura per il cinema e la televisione.
Intervistata da Gammon sull’Atlantic, la sceneggiatrice Ali Weinstein, fondatrice del summit e componente del CAN, ha spiegato che l’obiettivo di questo tipo di iniziative è quello di «far filtrare la consapevolezza sul clima in ogni parte del settore». Weinstein ha raccontato che, per anni, ha presentato proposte legate al clima ai suoi superiori, proposte che però sono state puntualmente respinte. Questa esperienza l’ha spinta ad agire per cambiare lo stato delle cose: dal suo punto di vista, «Hollywood ha un’enorme influenza culturale», e stimolare un cambiamento all’interno di un’industria che ha così tanta presa nell’immaginario collettivo potrebbe rappresentare il primo passo per «cambiare molti altri settori».
In effetti, ci sono dei motivi per credere che il cinema e la televisione possano influenzare in maniera positiva le abitudini quotidiane, tanto più in un paese come gli Stati Uniti, in cui le persone guardano in media tre ore di televisione ogni giorno.
Nel 1988 il Center for Health Communication (CHC) di Harvard avviò una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense sul tema della guida in stato di ebbrezza. L’obiettivo era promuovere il più possibile il concetto di “guidatore designato”, ossia quel componente di una comitiva che accetta di mantenersi sobrio per mettersi alla guida e riportare a casa gli altri. Aderendo all’iniziativa, diversi sceneggiatori accettarono di inserire messaggi di prevenzione di questo tipo all’interno delle proprie opere. L’esempio più famoso è quello della sitcom Cheers: in molti episodi della serie, ambientata quasi interamente in un bar della periferia di Boston, i clienti che avevano bevuto un po’ troppo chiamavano un taxi o chiedevano un passaggio per tornare a casa. Aderirono all’iniziativa anche altre popolari serie tv del tempo, come L.A. Law, Mr. Belvedere e Hooperman. Secondo i ricercatori del CHC, tra il 1988 e il 1992 negli Stati Uniti le vittime di incidenti stradali legati all’alcol diminuirono del 25 per cento, e una piccola parte del risultato sarebbe da attribuire ai messaggi contenuti in serie come Cheers.
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Un altro esempio citato moltissimo è quello di Will & Grace, la prima popolare sitcom con due protagonisti omosessuali, che negli Stati Uniti fu trasmessa dalla NBC a partire dal 1998. In un famoso studio pubblicato nel 2006 i ricercatori Edward Schiappa, Peter Gregg e Dean Hewes scrissero che «per gli spettatori con il minor numero di contatti gay diretti, l’esposizione a Will & Grace sembra avere la più forte influenza sulla riduzione del pregiudizio sessuale». Nel 2012, in un’intervista alla NBC, l’allora vicepresidente statunitense Joe Biden lodò l’impatto positivo di Will & Grace, in particolare in relazione all’accettazione del matrimonio egualitario da parte dell’opinione pubblica. Eppure gli ideatori della serie, Max Mutchnick e David Kohan, dissero in più occasioni che educare il pubblico non rientrava nelle loro intenzioni iniziali: «Se avessimo cercato di fare divulgazione, sicuramente non saremmo durati», ha spiegato Mutchnick in un’intervista al Washington Post di qualche anno fa.
Negli ultimi anni, negli Stati Uniti in particolare, l’idea che i prodotti di finzione possano contribuire a ridurre alcuni pregiudizi o veicolare un qualche tipo di istanza politica ha cominciato a diffondersi sempre di più: diversi gruppi di attivisti puntano a esercitare pressione sugli addetti ai lavori per spingerli a occuparsi di alcuni temi. Alcuni esempi sono quelli di Color of Change, che promuove una rappresentazione rispettosa delle persone nere, di Illuminative, che promuove narrazioni più sensibili nei confronti del passato delle persone native americane, e di Define American, che si occupa invece di favorire una rappresentazione non stereotipata delle persone immigrate in generale.
L’esperienza di questi collettivi ha convinto Anna Jane Joyner a fondare Good Energy, un’associazione che punta a persuadere l’industria dell’intrattenimento a raccontare il più possibile, e distaccandosi dai soliti luoghi comuni, la crisi climatica che stiamo vivendo.
Come Weinstein, anche Joyner sostiene che il cinema sia rimasto troppo indietro nel racconto della crisi climatica. Per rafforzare le proprie argomentazioni, nel 2022 Good Energy e il Norman Lear Center – un centro di ricerca che studia l’impatto sociale, politico, economico e culturale dell’intrattenimento – hanno pubblicato uno studio dopo aver analizzato più di 37mila sceneggiature di film ed episodi di serie tv realizzati tra il 2016 e il 2020. La ricerca ha rilevato che solo il 2,8 per cento del campione conteneva parole chiave legate al clima come “riscaldamento globale”, “impronta ecologica”, “energia pulita”, “energie rinnovabili” e “combustibili fossili”, e solo una percentuale bassissima, lo 0,6 per cento, utilizzava il termine specifico “cambiamento climatico”.
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I ricercatori hanno anche rilevato che solo nel 10 per cento delle storie analizzate eventi meteorologici estremi come tornado, cicloni tropicali e inondazioni venivano ricollegati ai cambiamenti climatici, e solo nel 12 per cento dei casi all’impiego dei combustibili fossili. Tra le puntate di serie tv contenenti almeno una parola chiave legata al clima, la più vista in assoluto dal pubblico è stata “The Comic-Con Conundrum”, un episodio della decima stagione di Big Bang Theory in cui Raj, uno dei protagonisti, spiega di essere preoccupato per i pinguini dello zoo di Los Angeles perché «stanno perdendo le loro case a causa del riscaldamento globale».
Le persone che si sono occupate dell’indagine hanno anche sondato le opinioni del pubblico, intervistando un campione di duemila persone e chiedendo loro di fornire qualche esempio di film o serie tv incentrate sui cambiamenti climatici: le risposte più frequenti sono state The Day After Tomorrow, un film uscito quasi vent’anni fa – e peraltro molto criticato dalla comunità scientifica per le tante inesattezze, su tutte l’aver previsto una nuova era glaciale, cioè una realtà opposta a quella che stiamo vivendo – e 2012, che tratta la fine del mondo in ottica catastrofica e profetica, ma non i cambiamenti climatici in senso stretto. Inoltre, il 48 per cento degli intervistati desidererebbe vedere più film o serie tv incentrati sul clima, mentre il 30 per cento si è definito “neutrale” e, quindi, quantomeno aperto a questa possibilità.
«Man mano che la crisi peggiora e più americani acquisiscono esperienze dirette sul cambiamento climatico, le storie che non parlano di clima inizieranno a sembrare irrilevanti o separate dalla realtà», si legge nel rapporto. «Raccontare storie sul clima non è solo un bene per il pianeta, ma anche per un’industria che cerca di coinvolgere il pubblico attraverso personaggi e narrazioni realistiche». Per colmare questo vuoto, Good Energy ha avviato diverse iniziative pensate per supportare le persone che si occupano di sceneggiatura. Ad esempio fornisce attività di consulenza per serie tv, film e podcast e ha realizzato un apposito prontuario, il Good Energy Playbook, per aiutare chi scrive a integrare il cambiamento climatico nelle proprie storie.
Secondo Joyner un altro punto molto importante ha infatti a che fare con i toni: il prontuario incoraggia gli sceneggiatori ad andare al di là della solita narrazione apocalittica e nichilista, approcciando il tema in una maniera diversa e più originale. «Il nostro obiettivo è dimostrare che puoi scrivere di problemi climatici in modi divertenti, autentici, e che puoi anche guadagnarci», ha spiegato in un’intervista alla Walton Family Foundation.
L’intuizione di Joyner non è priva di fondamento: nel 2015 Michael Svoboda, docente di sceneggiatura presso la George Washington University, ha analizzato circa 60 film inquadrabili nel macrogenere della climate fiction (la fantascienza sulla crisi climatica), evidenziando come la maggior parte tratti il cambiamento climatico con un’impostazione catastrofista. Quattro anni dopo Svoboda ha allargato lo sguardo individuando sette tipologie di generi che i registi solitamente adattano per raccontare storie legate al clima: i film catastrofici, i film apocalittici, i film distopici, i drammi psicologici, le commedie, i film d’animazione per bambini, e i film con alieni o supereroi.
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Le prime tre tipologie, ha evidenziato Svoboda, rappresentano la stragrande maggioranza della produzione cinematografica in cui il meteo o il clima hanno un qualche ruolo. I film catastrofici sono quelli focalizzati sulle vicende di personaggi minacciati da un evento meteorologico estremo che mette in pericolo le loro vite e le loro proprietà, ma che alla fine di solito riescono a ristabilire il proprio stile di vita e a fare ritorno alla normalità; un esempio calzante è quello di Twister, film del 1996 che racconta di un manipolo di cacciatori di uragani (stormchaser) impegnato nell’inseguimento di un tornado che sta devastando l’Oklahoma.
I film apocalittici si distinguono dai primi perché rappresentano un mondo definitivamente trasformato dai cambiamenti climatici. Da questo punto di vista l’esempio più celebre è The Day After Tomorrow, in cui la terra piomba rapidamente in una nuova era glaciale. Infine ci sono i film distopici, che si focalizzano sulle conseguenze disastrose lasciate in eredità dalle apocalissi: a tal proposito, Svoboda cita soprattutto Mad Max: Fury Road di George Miller, che mette in scena un mondo ridotto a deserto dalla siccità.
Sempre Svoboda spiega che le commedie focalizzate sui cambiamenti climatici sono rarissime e ridotte a due filoni principali: nel primo i cambiamenti climatici vengono concepiti come la trama secondaria e trascurabile di una situazione più grande. È il caso di The American President, in cui il protagonista, il presidente degli Stati Uniti Andrew Shepherd, finisce per infatuarsi dell’avvocata ambientalista Sydney Ellen Wade, parte di una lobby ecologista. Nel secondo il tema viene trattato in maniera grottesca e assurda, come accade in Downsizing, in cui un gruppo di scienziati norvegesi prova a ovviare al problema della sovrappopolazione rimpicciolendo gli esseri umani trasformandoli in omini di circa dieci centimetri.
A detta di Svoboda, questa ossessione per il catastrofismo sarebbe deleteria, dato che indurrebbe registi e sceneggiatori a raccontare storie trite e ritrite, scartando a priori la possibilità di focalizzarsi su come gli esseri umani potrebbero collaborare e agire in concreto per mitigare gli effetti della crisi climatica.
La scarsa presa sul pubblico di questi temi è nota non soltanto a chi si occupa di scrittura per la televisione o per il cinema, ma anche ai giornalisti che, nella maggior parte dei casi, quando si ritrovano a scrivere di crisi climatica, incontrano grosse difficoltà nel coinvolgere i lettori. Un disinteresse percepibile soprattutto in occasione delle conferenze internazionali sul clima, dovuto alla rigidità di questi eventi ma anche al fatto che, anno dopo anno, sembra che nessun nuovo trattato porti a sostanziali differenze nel modo in cui il mondo sta affrontando il cambiamento climatico. Al contrario, parlare di crisi climatica in ottica catastrofica, apocalittica o sensazionalistica permette di catturare più facilmente l’attenzione di chi legge.
Anche Nicole Seymour, ricercatrice della California State University che si occupa di environmental humanities (discipline umanistiche ambientali), ha una visione simile a quella di Svoboda. Nel suo libro Bad Environmentalism: Irony and Irreverence in the Ecological Age, Seymour sottolinea l’importanza di distaccarsi dalle narrazioni apocalittiche e nichiliste per provare a raccontare la crisi climatica in maniera diversa. Per farlo, Seymour ha individuato un insieme di opere (film, serie tv, romanzi e show televisivi) caratterizzate da un «pensiero ambientalista che impiega sensibilità dissidenti, spesso denigrate» al racconto della crisi climatica, come l’ironia, la comicità e il grottesco.
Un esempio citato dalla ricercatrice è quello di Everything’s Fine, film prodotto da Netflix in cui la comica Sarah Cooper interpreta la conduttrice di un programma mattutino generalista. Seymour ha raccontato di essere rimasta colpita da un personaggio in particolare: la meteorologa interpretata da Maya Rudolph, che con uno stile di conduzione spensierato comunica al pubblico una serie di anomalie climatiche angoscianti, alternando con naturalezza frasi come «con 50 gradi e un tasso di umidità così alto, un amico che lavora all’EPA (l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, ndr) mi ha chiamato in lacrime. È un uomo adulto» e «Farà freddo, gente. Probabilmente mortale. Mettete la giacca». Secondo Seymour raccontare la crisi climatica con toni più scanzonati, senza avere la pretesa di prescrivere allo spettatore un determinato comportamento, potrebbe giovare alla causa ambientalista. «Puoi riderci sopra», ha spiegato Seymour in un’intervista alla BBC, «ma puoi anche pensare: “Ok, allora c’è qualcun altro che riconosce che il mondo è impazzito”».
Negli Stati Uniti, il dibattito su quanto un’opera di finzione debba essere focalizzata sulla diffusione di un particolare tipo di istanza politica o sociale è particolarmente sentito, e ci sono anche molte opinioni critiche su quest’approccio. Diversi critici infatti sottolineano il rischio che la preponderanza della tesi che si intende veicolare, per quanto condivisibile, finisca quasi sempre per andare a svantaggio di qualsiasi altro elemento del film, dalla trama alla caratterizzazione dei personaggi. E che insomma fare film “a tesi” impoverisca il valore dell’opera.
Un esempio fu CODA – I segni del cuore, remake americano della commedia francese La Famiglia Belier. CODA (acronimo internazionale utilizzato per indicare i figli udenti di genitori sordi, Children of deaf adults) racconta la storia di Ruby Rossi, unica persona udente del proprio nucleo familiare, e dei suoi sforzi per aiutare i genitori e il fratello, tutti pescatori, nelle loro attività quotidiane. Nonostante i numerosi riconoscimenti ottenuti nel 2021, tra cui tre premi Oscar, il film era stato giudicato perlopiù negativamente. Alcuni critici lo avevano considerato troppo stereotipato e calcolato, evidenziando come la ricerca di una risposta emotiva da parte del pubblico finisse per sovrastare tutto il resto. CODA era stato accolto negativamente anche da una parte di spettatori e addetti ai lavori sordi.
Ad esempio Jenna Beacom, una critica dei media sorda che lavora spesso come consulente per varie produzioni cinematografiche, aveva sottolineato come il film contenesse dei «messaggi davvero dannosi» e restituisse un ritratto vittimistico delle persone sorde, che nella maggior parte dei casi si avvalgono di interpreti professionisti per far fronte ai loro bisogni, senza caricare di eccessive responsabilità i figli udenti.
Un discorso simile riguarda i sottotesti sociali che vengono inseriti all’interno di film e serie tv per enfatizzare un certo tipo di messaggio, che possono svolgere una funzione importante e porre l’accento su questioni serie e divisive ma che a volte finiscono per distogliere l’attenzione da quella che avrebbe potuto essere una narrazione avvincente.
In relazione al racconto dei cambiamenti climatici al cinema, uno degli esempi più discussi in tal senso è sicuramente quello di Don’t Look Up, commedia satirica del regista Adam McKay che parla di due astronomi che provano ad avvertire il mondo dell’arrivo di una cometa che distruggerà il pianeta, senza che nessuno se ne curi granché: una metafora molto esplicita sul cambiamento climatico e sul disinteresse verso il tema di una parte di politica e opinione pubblica.
Don’t Look Up è stato giudicato favorevolmente da chi è interessato al cinema che trasmette messaggi di questo tipo, come lo scienziato del clima Peter Kalmus, che sul Guardian lo ha definito come «il film più accurato sulla terrificante mancata risposta della società al collasso climatico». Il film, però, ha ricevuto perlopiù recensioni negative: sempre sul Guardian Charles Bramesco ha scritto che«il film spiega anche ciò che è ovvio e lo fa da una posizione di altezzosa superiorità che allontana le persone che vorrebbe convincere». Altri ancora hanno criticato l’impostazione di McKay, reputandola troppo saccente e autocompiaciuta, come ad esempio David Rooney, che sull’Hollywood Reporter ha scritto che Don’t Look Up «si guarda troppo allo specchio e vuole far sentire i suoi spettatori superiori a quegli amorali conservatori, quei liberali che pensano solo a se stessi e quei capitalisti avidi e insaziabili».
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A detta di alcuni critici, insomma, Don’t Look Up sarebbe l’esempio perfetto di come l’enfatizzazione di un messaggio importante e fondamentale come la necessità di attivarsi immediatamente per mitigare gli effetti del cambiamento climatico possa risolversi in un disastro, indebolendo la trama e trasformando il film in una specie di atto di accusa calato dall’alto, didascalico e prescrittivo, che non farebbe altro che allontanare dalla causa le stesse persone che pretende di coinvolgere.
La penuria di storie capaci di inquadrare la nostra attuale era geologica, quella caratterizzata dalle trasformazioni terrestri dovute all’attività umana, e che sempre più scienziati identificano come “Antropocene”, è un tema che è stato sollevato anche nella letteratura.
Uno degli scrittori maggiormente apprezzati per la sua capacità di integrare i cambiamenti climatici nella narrativa è l’indiano Amitav Ghosh. Il suo romanzo Il paese delle maree (2004) è ambientato nella regione delle Sundarban, un arcipelago di isole nel Bengala Occidentale che si estende per più di 300 chilometri e in cui le correnti alterano di continuo la fisionomia delle isole, sommerse ogni giorno dalle maree che inghiottono le foreste di mangrovie per lasciarle riemergere parecchie ore dopo. Dagli stessi luoghi partono anche le vicende di L’isola dei fucili, romanzo del 2019 in cui Ghosh affronta il fenomeno dei cosiddetti migranti climatici, cioè le persone costrette a lasciare la propria casa e la propria terra di origine per circostanze ambientali, attraverso il viaggio compiuto da Deen Datta, un commerciante di libri rari.
Nel 2015 Ghosh tenne una serie di conferenze sulla mancanza di storie dedicate al clima nella narrativa contemporanea. Queste lezioni sono state rielaborate e inserite nel saggio La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile. Nell’ambito del romanzo contemporaneo, spiega Ghosh, lo spazio dedicato ai cambiamenti climatici è pochissimo: «è come se nell’immaginazione letteraria il cambiamento climatico fosse in qualche modo imparentato con gli extraterrestri o con i viaggi interplanetari», scrive. In particolare, Ghosh ritiene che gli scrittori siano restii ad affrontare il tema dei cambiamenti climatici perché questi riguardano direttamente i nostri stili di vita e il modo in cui essi «ci rendono complici degli occultamenti messi in campo dalla cultura in cui siamo immersi».
Un esempio della letteratura più recente spesso citato è quello de Il sussurro del mondo, romanzo di Richard Powers del 2018 in cui le vite umane si intrecciano con quelle degli alberi e del mondo vegetale.
Raccontare in maniera più puntuale i cambiamenti climatici è un’esigenza avvertita anche in Italia. Negli ultimi anni, nel cinema e nella letteratura, alcuni autori hanno provato a parlare di questi temi adottando approcci differenti dal catastrofismo. Un esempio è quello di Siccità, commedia del 2022 che il regista Paolo Virzì ha scelto di ambientare in una Roma trasformata dai cambiamenti climatici: una città in piena crisi idrica, in cui non piove da tre anni e il Tevere è completamente prosciugato, cosa che costringe le persone a stare in fila per ore pur di ottenere una tanica d’acqua. Un’altra opera recente apprezzata dalla critica per la sua capacità di rappresentare il cambiamento climatico è Il colibrì, il romanzo di Sandro Veronesi che vinse il Premio Strega nel 2020. I personaggi de Il colibrì mostrano una certa sensibilità per il futuro del pianeta, in particolare Miraijin, la nipote del protagonista Marco Carrera, che a molti lettori ha ricordato Greta Thunberg.
Anche Paolo Giordano ha parlato di emergenza climatica nel romanzo Tasmania (2015), il cui protagonista P.G. (alter ego dello stesso Giordano) è uno scrittore che nel 2015 si fa mandare dal Corriere della Sera a Parigi per seguire i lavori della COP21, la 21esima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Una volta arrivato a Parigi, però, P.G. comincia a soffrire per la monotonia dell’evento: «Sì, il clima è una vera rottura di palle», commenta in una delle prime pagine del romanzo. E ancora: «Eccolo il problema nascosto dell’emergenza climatica: la noia atroce. Assistere alla messa a punto di un accordo internazionale era addirittura soporifero». Mettendo in risalto la noia della conferenza, Giordano ha assunto il punto di vista di quelle persone che del riscaldamento globale conoscono poco o nulla, o che se ne disinteressano perché trovano l’argomento troppo ostico e incomprensibile.
Un altro esperimento che ha ricevuto attenzione negli ultimi anni è quello di Medusa, newsletter in cui Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi raccontano e analizzano i punti di contatto tra le conoscenze scientifiche e tecniche sul cambiamento climatico, il modo in cui divulgatori ma anche e soprattutto scrittori e artisti lo raccontano, le iniziative di attivismo per contrastarlo e il nostro rapporto con la natura. Nel 2021 Medusa è diventata anche un libro che si concentra sul modo in cui la letteratura si intreccia con la crisi climatica.