Come procede il piano della Nuova Zelanda per liberarsi dei ratti?
L'ambizione è completarlo entro il 2050, ma ci sono dubbi che sia davvero fattibile in un paese grande quasi quanto l'Italia
Nel 2016 il governo della Nuova Zelanda annunciò un ambizioso progetto per eliminare dal proprio territorio tutti i ratti, gli opossum australiani e gli ermellini, che furono portati nelle isole dell’oceano Pacifico dagli esseri umani e che nel corso dei secoli hanno messo a rischio l’esistenza di moltissime specie autoctone di uccelli, rettili e insetti. Oggi sono circa 4mila le specie di uccelli a rischio di estinzione, tante altre si sono estinte negli ultimi secoli. Il piano è stato chiamato “Predator Free 2050” perché ha l’obiettivo di far sparire i predatori alloctoni, cioè non nativi, entro il 2050. Tuttavia c’è chi è scettico sul fatto che ci si possa davvero riuscire e pensa che in ogni caso richieda troppe risorse.
Il problema maggiore è l’estensione della Nuova Zelanda. In vari posti del mondo sono stati attuati con successo piani di eradicazione di specie animali invasive, ma mai in territori così vasti. La Nuova Zelanda ha una superficie di 267mila chilometri quadrati: è grande quasi quanto l’Italia, ma è un arcipelago composto da più di 600 isole con due molto grandi, l’Isola del Sud e l’Isola del Nord, di rispettivamente 151mila e 113mila chilometri quadrati in buona parte occupati da città e proprietà private. Il territorio più vasto che sia mai stato liberato dai ratti finora è la Georgia del Sud, un’isola grande poco più di 3.500 chilometri quadrati, un po’ più della provincia di Firenze, ma vicina all’Antartide e senza persone che ci vivono tutto l’anno.
Per provare a realizzare “Predator Free 2050” serviranno quindi moltissimi soldi, la collaborazione di un gran numero di persone e forse vari strumenti tecnologicamente avanzati come l’ingegneria genetica, con tutte le incertezze e i dubbi etici che si porta dietro. Per ora è stato investito l’equivalente di 54 milioni di euro e sono state avviate attività di controllo, cattura e uccisione dei predatori in 7.570 chilometri quadrati in totale.
Fino al 1200 gli unici mammiferi terrestri presenti nelle isole che oggi formano la Nuova Zelanda erano alcune specie di pipistrelli: l’arcipelago si divise dal resto delle terre emerse prima che i mammiferi si diffondessero in tutto il pianeta. L’assenza di predatori terrestri permise l’evoluzione di numerosissime specie di uccelli miti e senza grossi strumenti di difesa che non esistono in altre parti del mondo. Alcuni, come i kiwi e i pappagalli kakapo, poterono fare a meno della capacità di volare perché a terra non erano minacciati da animali carnivori, i principali predatori erano altri uccelli.
Le cose cominciarono a cambiare con la colonizzazione da parte dei Maori, che portarono ratti polinesiani (Rattus exulans) sulle isole neozelandesi: questi animali, facili da trasportare e capaci di riprodursi molto e in fretta, erano usati come affidabile fonte di cibo per i lunghi viaggi in mare.
Qualche secolo dopo, a partire dalla metà del Settecento, la colonizzazione europea fece arrivare i ratti bruni (Rattus norvegicus) e i ratti neri (Rattus rattus), che hanno più o meno sempre infestato le navi. Arrivarono anche altre specie di mammiferi. Le più dannose furono i tricosuri volpini (Trichosurus vulpecula), una specie di opossum australiani portati in Nuova Zelanda nel 1837 per essere allevati e produrre pellicce; e arrivarono gli ermellini (Mustela erminea), che invece furono introdotti nel 1879 nella speranza che potessero limitare la popolazione di conigli, a loro volta importati dagli umani.
Dato che le specie locali non hanno difese contro questi animali, le nuove generazioni non riescono a rimpiazzare il numero di individui uccisi dai predatori. Secondo uno studio del 2010 ogni anno i mammiferi terrestri alloctoni mangiano più di 26 milioni di uova e piccoli di uccelli. Dall’arrivo degli umani quasi un terzo delle specie di animali native della Nuova Zelanda si è estinto.
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I primi tentativi di affrontare il problema vennero fatti alla fine degli anni Cinquanta. Nel 1964 un isolotto di soli 0,02 chilometri quadrati fu dichiarato libero dai ratti dopo che per cinque anni un gruppo di volontari aveva distribuito delle esche avvelenate per proteggere la popolazione di uccelli delle tempeste facciabianca che ci nidificava. Da allora più di un centinaio di altre piccole isole sono state liberate dai predatori terrestri, non solo grazie a gruppi di scienziati che mettevano trappole manualmente, ma anche per le iniziative statali: più volte sono stati usati degli elicotteri per distribuire esche avvelenate sulle isole più piccole.
Sulle due principali sono state create zone prive di predatori all’interno di 27 aree di foresta recintate con barriere altissime, a prova di ratto. Dentro queste aree protette prosperano specie di uccelli rarissime nel resto del paese. Una delle più grandi copre 7 chilometri quadrati.
Fino al 2007 però nessuno aveva espresso l’ambizione di eliminare tutti i mammiferi predatori dalla Nuova Zelanda. Il primo a farlo fu un pensionato rientrato nel paese dopo 25 anni in Australia, Les Kelly: notando che molti degli uccelli che ricordava dalla sua gioventù erano diventati difficili da vedere, Kelly fondò l’associazione Predator Free New Zealand per convincere altre persone che la Nuova Zelanda doveva sbarazzarsi dei carnivori invasivi. Nel 2011 l’idea venne citata da Paul Callaghan, un fisico di una certa notorietà nel paese, durante una conferenza a Zealandia, l’area naturale recintata di Wellington.
Lo scienziato morì qualche mese dopo, ma aveva influenzato un gruppo di biologi che nel 2015 stimarono che in 50 anni e con l’equivalente di 5 miliardi di euro si sarebbero potute eradicare le specie di mammiferi predatori. La stima e il consenso di molti neozelandesi convinsero la politica e l’anno successivo una legge individuò le tre specie di ratti, gli opossum, gli ermellini e gli altri mustelidi meno diffusi, cioè donnole e furetti, come gli animali da eliminare. Il governo poi fondò Predator Free 2050, un’organizzazione indipendente per gestire i fondi pubblici e privati raccolti a questo scopo: da un lato finanzia progetti locali in cui decine di volontari distribuiscono trappole, dall’altro sostiene le ricerche scientifiche per capire ad esempio come si potrebbe modificare il DNA dei ratti in modo che ne nascano di un unico sesso.
Predator Free 2050 collabora con università, ong e parchi naturali, ma anche con tante persone disposte a mettere trappole ed esche avvelenate nei propri giardini, o desiderose di passare il proprio tempo libero a cercare feci di ratto in un bosco. Sebbene il piano di eradicazione preveda l’uccisione di milioni di animali, e anche per questo riceva critiche da qualcuno, ha il sostegno di moltissimi neozelandesi.
Le critiche principali al progetto tuttavia riguardano la sua effettiva realizzabilità e i suoi costi.
Attualmente per liberare dai mammiferi predatori un ettaro di territorio, cioè un centesimo di un chilometro quadrato, servono dai 600 ai 1.000 dollari neozelandesi, cioè 330-560 euro, e per pensare di eliminare questi animali da tutto il paese bisogna ridurre questo costo. C’è chi spera che si riuscirà a farlo grazie all’ingegneria genetica, cioè diffondendo animali dotati di geni che, una volta trasmessi alla popolazione di riferimento, la farebbero estinguere senza che siano necessarie uccisioni di massa. Ma anche se le ricerche in corso dovessero avere buoni risultati, non è detto che si arrivi davvero a liberare ratti o ermellini geneticamente modificati, anche perché una ventina d’anni fa la maggioranza dei neozelandesi si era opposta all’ingresso degli OGM nel paese.
Nel frattempo le aree recintate devono essere costantemente difese dai piccoli mammiferi, e anche le piccole isole devono essere controllate perché i ratti sanno nuotare per almeno 800 metri. Non si può del tutto escludere che qualcuno riesca ad approdare su un’isola già liberata dalla specie.
Tra le persone che hanno dei dubbi sulla fattibilità del progetto Predator Free 2050 c’è James Lynch, il fondatore dell’area naturale recintata di Wellington, Zealandia. Di recente ha detto a BBC di essere d’accordo con lo scopo del progetto, ma di essere scettico «perché al momento manca la cassetta degli attrezzi per riuscirci». Lynch ritiene che le aree come Zealandia possano essere sufficienti per garantire la sopravvivenza delle specie native. Dice inoltre che invece di ambire a uccidere tutti i ratti della Nuova Zelanda bisognerebbe concentrarsi solo sulle zone boscose vicine alle aree protette, per aumentare le probabilità di sopravvivenza degli uccelli che ne escono.
L’esperto di conservazione naturale Wayne Linklater invece pensa che Predator Free 2050 non potrà mai avere successo, visti i fallimenti del passato con i conigli e altri animali invasivi. Il progetto, dice, avrebbe inoltre premesse etiche sbagliate: «Abbiamo messo insieme una grande quantità di risorse e la passione delle persone per portare avanti una grande crudeltà. Come possiamo essere così giulivi davanti a questa sofferenza?». Per Linklater la campagna per l’eliminazione dei ratti e degli altri mammiferi predatori consiste nel demonizzarli al punto da diventarne nemici; e gli umani non dovrebbero avere il diritto di sterminarli essendo la causa principale dei danni agli ecosistemi naturali.
James Russell, uno dei biologi autori della stima del 2015 e uno dei principali portavoce del progetto, ha descritto invece la situazione come una sorta di “dilemma del carrello” ecologico: «Se scegliamo di non uccidere i mammiferi, stiamo scegliendo di far morire gli uccelli». Russell pensa anche che un approccio come quello di Lynch sia sbagliato perché richiederebbe grandi sforzi per proteggere le zone recintate a tempo indeterminato: solo con l’eradicazione di tutti i predatori alloctoni secondo lui si potrà davvero risolvere il problema.
Lui stesso riconosce che non possiamo davvero stimare quanto tempo ci vorrà per farlo, ma è ottimista sui progressi tecnologici dei prossimi 27 anni.
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