La piscina in sedia a rotelle
«Non sono competitiva, ma confesso che ogni tanto seminare un normodotato mi dà soddisfazione. Faccio le mie vasche con una diligenza che piano piano diventa ottusità del pensiero: bracciata dopo bracciata vengono diluite le questioni che mi occupavano la testa fino a cinque minuti prima, mi concentro sulle crepe sul fondo, sullo sporco che si accumula negli angoli, e più di tutto quando il sole filtra dall’alto sul luccicare variabile dell’acqua, sulla sua permeabilità ad essere attraversata, scomposta e ricomposta. Mi sembra che sia la cosa più simile al mio corpo, al mio midollo spinale maciullato e poi riunito che fa di me una creatura ibrida, per metà paralizzata, per metà del tutto semovente. Alla quarantesima vasca, però, comincio a sentirmi stanca e lì inizia la fine dell’idillio»
Dopo vent’anni passati su una sedia a rotelle, muovendomi abbastanza a dire il vero ma sempre da seduta, vorrei potervi dire che non è così male, che in fondo si vive bene anche così, anzi si può vivere alla grande. Potrei aprire un profilo social in cui, anziché postare fiori gatti e libri, mostrare i momenti salienti e gioiosi della mia giornata: io che faccio yoga, io che annaffio le piante, io che guido in città, io che entro in biblioteca, io che mi trucco e mi vesto, io che vado in piscina a nuotare. Sono certa che accumulerei un sacco di follower in poco tempo.
Nonostante viviamo in un’epoca secolarizzata, anzi forse proprio per questo, nessuno rinuncia del tutto a credere ai miracoli e quello di una persona che sopravvive alla propria morte, alla propria paralisi, a un paese ostile verso ogni forma di diversità, non è un miracolo quotidiano? Non è un esempio da cui prendere forza e ispirazione? Conosco persone che lo hanno fatto e spesso con le migliori intenzioni: mostrare come la diversità fisica possa essere affrontata senza diventare tabù, sensibilizzare al problema delle barriere architettoniche e della discriminazione e, perché no, farsi nuovi amici o sostenitori.
Mi sembra un uso non disprezzabile dei social e un commento tipo – ammiro la tua forza e il tuo coraggio – a fine giornata, o – sei davvero super – penso che possa essere di conforto a chiunque, specie per chi ha a che fare con marciapiedi impraticabili, parcheggi riservati occupati, ascensori invariabilmente rotti, servizi igienici in cui i maniglioni sono ovunque tranne che dove servirebbero, cioè a fianco del wc, bancomat collocati ad altezze inarrivabili, e via dicendo. La vita comune di un disabile, però, raccontandosi così, – anche oggi sono sopravvissuto/a a tutto questo – diventa immediatamente quella di un super-abile. Un prodigio: un po’ martire, un po’ trans-umano, con quattro ruote a volteggiare sulla miseria del mondo.
Lasciatemi però spiegare il prezzo di questo miracolo, che nessuno mai calcola, che in pochi vogliono vedere.
Vado in piscina da una quindicina d’anni in un complesso che accorpa in un’area verde della città campi da calcio, palestre e scuole. Tutto appartiene alla curia, anche la piscina che è stata l’unica, per molto tempo a Bologna, ad avere una sedia con un pistone idraulico che consentiva alle persone disabili di essere calate in acqua. Il pistone dava qualche problema e in tempi recenti è stato sostituito da una specie di muletto che al termine dei due bracci elevatori ha una sedia: dalla mia carrozzina faccio il passaggio a quella e poi vengo fatta scendere in qualsiasi punto della vasca.
Cerco di andare sempre al sabato fra le due e le tre del pomeriggio, l’acqua della vasca più piccola viene portata a 28 gradi di temperatura perché durante la mattina ci sono corsi per mamme e neonati; se l’acqua è calda riesco a nuotare a lungo senza avere contrazioni alle gambe, altrimenti diventa una lotta con gli spasmi e non c’è gusto e non c’è beneficio. Dal parcheggio, ampio e mai occupato da abusivi o finti disabili (esistono in gran numero, non sono una finzione giornalistica) arrivo senza ostacoli agli spogliatoi, dotati di un cubicolo grande apposta per poterci entrare con una sedia a rotelle, uno specchio appeso alla giusta altezza mi consente di sistemarmi il costume. Anche la pozza dove i bipedi si lavano i piedi in acqua clorata prima di arrivare alle vasche è munita di una rampetta e non di un gradino e ha pure un corrimano laterale al quale certe signore anziane che fanno i corsi di acquagym si aggrappano, mentre io, per una volta tanto libera, le sorpasso cercando di non schizzarle. Tutto questo mi mette invariabilmente di buon umore, è un paesaggio in cui le asperità a misura di ruota sono state livellate e riesco a pensarmi senza l’affanno del pericolo o del “non posso farlo”.
La calata, devo ammetterlo, ha qualcosa di trionfale: prima vengo sollevata in alto e poi fatta scendere in acqua mentre intorno, per forza, devono spostarsi. C’è qualcosa di rituale e maestoso in questo muletto manovrato da un bagnino che mi solleva, come un’ostia consacrata o come una regalità orientale, per poi farmi scivolare con dolcezza. Ma lì finisce il privilegio, poiché una volta in acqua devo rispettare le regole di tutti gli altri nuotatori, in genere più veloci, in quanto a spingerli hanno anche un paio di gambe oltre che di braccia. A quell’ora sono comunque pochissimi, qualche signora attempata e con problemi all’anca, un sub che perlustra con insistenza il fondo, qualche nuotatore freddoloso.
Non sono competitiva, ma confesso che ogni tanto seminare un normodotato mi dà soddisfazione. Faccio le mie vasche con una diligenza che piano piano diventa ottusità del pensiero: bracciata dopo bracciata vengono diluite le questioni che mi occupavano la testa fino a cinque minuti prima, mi concentro sulle crepe che vedo sul fondo di piastrelle in ceramica, sullo sporco che si accumula negli angoli, e più di tutto quando il sole filtra dall’alto sul luccicare variabile dell’acqua, sulla sua permeabilità ad essere attraversata, scomposta e ricomposta. Mi sembra che sia la cosa più simile al mio corpo, al mio midollo spinale maciullato e poi riunito che fa di me una creatura ibrida, per metà paralizzata, per metà del tutto semovente. Alla quarantesima vasca comincio a sentirmi stanca e lì inizia più o meno la fine dell’idillio. Come tutte le piscine, anche questa ha soffitti altissimi e il rumore prodotto dalle voci degli istruttori e dalla gente che nuota diventa una massa acustica in cui è difficile farsi sentire. Io mi ritrovo lì, a bordo, appesa a un galleggiante, mi sbraccio affinché il bagnino che manovra il muletto venga a prelevarmi ma lui non mi sente, né mi vede.
Va detto che, vedendo altri nuotatori salire la scaletta e andarsene, le ultime dieci vasche le faccio sempre con questo pensiero: anch’io adesso ho quasi finito e me ne vado, che bello: tra poco mi faccio una doccia calda. E, credetemi, invariabilmente visualizzo una me stessa che sale le scalette d’acciaio poste in angolo ed emerge dalla vasca. Forse drogata dall’eccesso di libertà di movimento che l’acqua mi consente, dimentico che sulla terraferma le mie gambe tornano a essere un peso da sollevare e non le alghe fluttuanti che scorrono con la corrente. Sta di fatto che mentre mi faccio fregare da questa fantasia, la vasca si è svuotata, c’è un cambio di turno fra i bagnini e io rimango sola a sbraitare finché qualcuno mi sente o mi vede, perché da lì non posso proprio uscire se non con l’aiuto di un altro umano.
Quanti minuti passo così, a urlare e non essere udita, a sbracciarmi e non essere vista? Cinque minuti forse? Talvolta magari di più, e allora per disperazione e per scaldarmi mi faccio un’altra vasca, perché non appena smetto di nuotare mi viene freddo e questa cosa di non poter uscire da sola, di dipendere da qualcuno per tornare sulla terra mi fa sentire come un naufrago in mare, anche se sono solo dentro una piscina poco profonda, larga 16 metri e lunga 25.
In quel piccolo tempo che passo in attesa si scava una voragine di solitudine e di impotenza, ho i brividi e i muscoli indolenziti, mi sento dimenticata dal mondo, e quando finalmente dalla mia posizione ribassata dentro la vasca vedo un paio di gambe avvicinarsi, nude e in ciabatte di gomma come sono sempre quelle di chi lavora in piscina, tiro un sospiro di sollievo. Di più: mi si riempie il cuore di un misto di gratitudine e invidia (che le due cose possano convivere mi sembra un altro prodigio dell’acqua) alla vista di quell’azione così semplice, così naturale e a me preclusa che è il camminare. La risalita è molto più prosaica della discesa, è decisamente il ritorno a una condizione di baratto continuo fra ciò che il mio corpo non riesce più a compiere, stare in piedi e camminare, e ciò che la meccanica e la tecnologia gli consentono: spostarsi comunque.
Al prezzo di contrazioni alle gambe per il freddo che ci mettono un po’ a calmarsi e mi fanno saltellare i piedi sul predellino, neanche fossi una marionetta impazzita, ma soprattutto di quell’angolo buio di impossibilità totale, dove il respiro si fa corto, e la paura entra nei miei polmoni inaggirabile come l’odore del cloro, nonostante sia una giornata di sole che si riversa dai lucernari, nonostante il bagnino arrivi scusandosi e dicendo che non mi aveva vista, che non mi aveva sentita, che la prossima volta ci farà più attenzione; ma tanto la prossima volta forse non c’è nemmeno lui di turno, e in ogni caso la prossima volta dovrò di nuovo, da sola, affrontare la certezza di sentirmi inadeguata, la faticosa necessità di venire salvata.