Cosa sta succedendo nello stato indiano del Manipur, spiegato
Da più di un mese e mezzo ci sono scontri etnici fra Meitei e Kuki in cui sono morte più di 100 persone: i motivi arrivano da lontano
Da più di un mese e mezzo nello stato indiano del Manipur è in corso uno scontro etnico fra la maggioranza Meitei e la comunità Kuki che ha già causato oltre 100 morti, più di 400 feriti e quasi 60mila sfollati. Il governo locale e quello centrale indiano hanno impiegato sul campo 40mila fra soldati, poliziotti e paramilitari per bloccare le violenze, ma senza ottenere risultati definitivi. Durante i primi giorni di scontri le due parti avevano assaltato stazioni di polizia e depositi di armi.
In molti dei distretti continua a essere in vigore un coprifuoco notturno. Le scuole sono chiuse e ci sono state interruzioni di internet, una misura che il governo indiano prende con crescente frequenza quando si trova di fronte a problemi di sicurezza, ufficialmente per evitare la diffusione di fake news.
La storia dell’India, anche recente, è caratterizzata da violenze e tensioni che sfociano a volte in linciaggi e scontri gravi: spesso nascono da conflitti religiosi e vedono opposta la maggioranza indù e la consistente minoranza musulmana. In Manipur la questione è differente, ma i conflitti sono altrettanto radicati e complessi: quelli attuali nascono da una contrapposizione etnica, ma le due comunità sono divise anche dalla religione. I Meitei sono per lo più induisti, i Kuki cristiani. In questi ultimi 50 giorni 200 chiese e 17 templi sono stati distrutti o danneggiati dalla folla.
Il Manipur è uno stato nord-orientale dell’India, confina con il Myanmar, geograficamente è situato a est del Bangladesh. Faceva parte dell’impero britannico indiano che nel 1947 venne diviso dai britannici nei due stati indipendenti di India e Pakistan in base alla religione della maggioranza della popolazione, nella cosiddetta partizione. La gran parte del territorio meridionale, centrale e settentrionale dell’impero divenne quella che oggi conosciamo come India, mentre le estremità nordoccidentali e nordorientali, separate tra loro da duemila chilometri di territorio indiano, divennero il Pakistan.
Uno dei due territori che componevano l’allora Pakistan, quello nordorientale, ottenne l’indipendenza negli anni Settanta e divenne il Bangladesh.
A est del futuro Bangladesh c’erano otto stati non islamici, con 45 milioni di persone e 400 diverse comunità. Il Manipur era fra questi e per due anni, fino al 1949, ambì a tornare indipendente, come era stato per secoli prima della colonizzazione britannica. Poi il 21 settembre 1949 il marajà Bodhchandra Singh, regnante sul Manipur nonostante un crescente movimento antimonarchico, firmò l’adesione all’India, secondo alcune fonti storiche dopo una detenzione e sotto minaccia. Da allora il Manipur ha una lunga storia di movimenti indipendentisti armati, che hanno portato a ripetuti interventi militari del governo centrale di Delhi.
A complicare le cose c’è una radicata divisione su base etnica della popolazione: poco più del 50 per cento dei 3,3 milioni di abitanti del Manipur sono Meitei. Vivono quasi tutti nella valle di Imphal, la capitale, sono induisti e negli ultimi decenni hanno controllato il parlamento locale e quindi il potere. Il primo ministro locale, Biren Singh, è un Meitei e appartiene al partito Bharatiya Janata Party (BJP), quello del primo ministro Narendra Modi.
I Naga e i Kuki rappresentano insieme poco più del 43 per cento della popolazione: sono le cosiddette “comunità tribali”, vivono sulle colline, in aree più rurali, sono prevalentemente cristiani e più poveri. Secondo alcuni storici indiani questa divisione così netta e la seguente contrapposizione sono in realtà frutto di una decisione arbitraria dei colonizzatori britannici, che non avrebbe reali basi storiche ma che si è cronicizzata e radicalizzata nell’ultimo secolo.
Le tensioni fra i gruppi etnici non sono una novità. Gruppi armati di Meitei, Naga e Kuki si sono fronteggiati più volte per dispute territoriali o religiose, mentre linciaggi di persone appartenenti a gruppi etnici differenti da parte della folla hanno causato negli anni centinaia di morti. Le violenze attuali però sono le più gravi dal 1993, quando Naga e Kuki si scontrarono per più di un anno.
Negli ultimi anni le tensioni fra gli abitanti delle valli (Meitei) e quelli delle colline (Naga, Kuki) sono cresciute, per una serie di motivi.
Molti riguardano il confine con il Myanmar, il crescente numero di immigrati e il commercio di droga, principalmente papavero da oppio. Il governo centrale ha attuato una radicale ma controversa “guerra alla droga” con l’obiettivo di estirpare la coltivazione del papavero: sono stati distrutti 73 chilometri quadrati di campi, quasi tutti in zone abitate da Kuki, che definiscono l’intera operazione come un modo per attaccare le minoranze. I Meitei invece accusano i Kuki di favorire l’immigrazione clandestina dal Myanmar con l’intento di aumentare il proprio peso “etnico”: la comunità Chin birmana è etnicamente vicina a quella Kuki. Il Myanmar è anche il secondo produttore al mondo di oppio, e il confine con il Manipur nelle zone collinari è piuttosto permeabile.
I Meitei inoltre mettono in discussione la legge che non permette loro di acquistare terreni o stabilirsi nelle zone collinari, rimanendo relegati nel 10 per cento di territorio occupato dalla valle. Infine c’è anche una classica disputa simbolico-religiosa, che riguarda due colline che i Meitei ritengono sacre, mentre i Kuki le considerano parte del loro territorio e vedono le istanze religiose come scuse per un’invasione.
Nessuno di questi motivi è però quello che ha scatenato le violenze a partire dal 3 maggio. La questione riguarda invece lo status di “comunità tribale”: è previsto dall’ordinamento indiano e garantisce a chi ne fa parte alcune corsie preferenziali nell’assegnazione di posti di lavoro pubblici, nelle università, nelle cariche elettive. La maggioranza Meitei chiede di essere inserita fra queste categorie protette, come già succede a Naga e Kuki: se accadesse, praticamente l’intera popolazione del Manipur avrebbe questo status, di fatto cancellando gli attuali privilegi degli abitanti delle colline, economicamente più svantaggiati.
Dopo un primo parere positivo alla richiesta da parte dell’Alta Corte del Manipur il 3 maggio, i Kuki hanno organizzato una manifestazione di protesta. Al termine ci sono stati scontri con i Meitei, a cui sono seguiti assalti alle stazioni di polizia e ai depositi di armi. La folla ha dato fuoco a interi quartieri delle comunità avverse e gli scontri di piazza si sono trasformati in scontri armati e linciaggi: dopo i primi due giorni i morti erano 56, in maggioranza Kuki.
L’intervento di decine di migliaia di soldati ha ridotto l’intensità degli scontri, ma non li ha fermati fino ad oggi. Oltre cinquanta giorni dopo il Manipur resta uno stato pesantemente militarizzato, in cui sono frequenti gli scontri anche fra i gruppi indipendentisti e l’esercito: sessantamila persone hanno lasciato le proprie case per cercare rifugio dalla violenza. Molti osservatori definiscono la situazione attuale vicina a una guerra civile.
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