Quelli che criticano le banche centrali
Oltre ai governi che protestano, ci sono molti economisti che stanno cercando soluzioni non convenzionali all'inflazione, con risultati incerti
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sostiene che la Banca Centrale Europea stia sbagliando a continuare ad aumentare i tassi di interesse per fermare l’inflazione, ossia l’aumento generale del costo della vita che va avanti da quasi due anni. È la tecnica che la teoria economica tradizionale reputa più efficace per tenere sotto controllo i prezzi, ma viene spesso criticata per tutta quella serie di effetti collaterali che comporta, tra cui il consistente aumento del costo dei mutui e il rischio concreto di causare non solo un rallentamento economico, ma addirittura una recessione.
Le critiche spesso sono portate avanti dalle componenti più estreme sia della destra che della sinistra, ma talvolta anche da chi è più moderato. Nel tempo vari economisti hanno sviluppato tutta una serie di idee alternative all’aumento dei tassi di interesse, che si inseriscono in un dibattito di teoria economica più ampio su tutti gli strumenti più o meno innovativi a disposizione delle banche centrali e dei governi per fermare l’aumento dei prezzi.
Nei periodi storici di aumento dei tassi di interesse è piuttosto comune assistere alle critiche di una parte del mondo politico proprio per tutte le conseguenze negative di una misura di questo tipo, che ha un impatto su qualsiasi aspetto dell’economia e che ha come obiettivo deliberato quello di “raffreddare” un’economia che cresce troppo, in cui i prezzi aumentano principalmente perché l’offerta delle aziende non sta al passo della domanda dei consumatori.
Le critiche però non vengono solo dal mondo politico ma talvolta anche dagli economisti: secondo alcuni gli effetti collaterali del rialzo dei tassi di interesse spesso rischiano di essere troppo gravi per l’economia e la società rispetto alla reale efficacia nel combattere l’inflazione. L’aumento dei tassi di interesse sarebbe una misura troppo generalizzata, mirata a far rallentare l’economia nel suo complesso senza la certezza di riuscire davvero a risolvere le cause dell’aumento dei prezzi.
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In un articolo sul Guardian del dicembre 2021 l’economista Isabella Weber ha detto «se la tua casa è in fiamme, non vorrai aspettare che l’incendio alla fine si estingua. Né vuoi distruggere la casa allagandola. Un abile vigile del fuoco spegne il fuoco dove sta bruciando per prevenire il diffondersi delle fiamme e salvare la casa. La storia ci insegna che un approccio così mirato è possibile anche per gli aumenti dei prezzi».
L’articolo fu molto contestato da tutta la comunità accademica con toni anche molto accesi – il premio Nobel per l’economia Paul Krugman arrivò a chiamarla «davvero stupida», poi scusandosi – perché suggeriva non solo un approccio all’inflazione meno convenzionale ma anche l’uso di uno strumento che non si vede da anni nel mondo occidentale: il controllo strategico dei prezzi da parte dello stato.
Nel corso della sua carriera Weber ha studiato molto questo strumento che fu applicato negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, quando l’amministrazione Roosevelt impose severi controlli sui prezzi per evitare aumenti nei settori più strategici o di necessità. Secondo lei l’economia di allora era piuttosto simile a quella durante la pandemia da coronavirus: molte materie prime erano introvabili e c’erano enormi inefficienze nelle produzioni, spesso bloccate proprio a causa dei semilavorati che non si trovavano. L’offerta non teneva il passo della domanda, proprio come durante e dopo la pandemia.
Con il controllo strategico dei prezzi, per tutta la durata della Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti l’inflazione rimase piuttosto stabile. La misura fu poi ritirata praticamente subito dopo la fine della guerra, senza dare modo alle imprese di riprendersi e di risolvere i blocchi produttivi, col risultato che aumentò tantissimo l’inflazione.
Secondo Weber un controllo strategico dei prezzi nei settori in cui stavano aumentando di più avrebbe potuto essere una soluzione nella fase di transizione in cui la crisi dei commerci globali aveva creato enormi distorsioni nelle produzioni: calmierare i prezzi avrebbe consentito di tenere a bada l’inflazione per tutto il periodo necessario alle aziende per ripristinare le loro produzioni.
Una sorta di controllo strategico dei prezzi è stato il price cap europeo alle importazioni di energia, uno degli strumenti più invocati nell’ultimo anno e mezzo per tenere sotto controllo il complessivo aumento dei prezzi. Dopo mesi di discussione, e forse un po’ troppo tardi, è stato introdotto un tetto massimo al prezzo di gas e petrolio: i paesi europei sono riusciti a introdurlo solo in casi eccezionali e a un valore anche piuttosto alto, per cui non ha avuto una grande efficacia.
Sul controllo dei prezzi proposto da Weber e altri circola ancora comunque un grosso scetticismo, sia perché sarebbe una misura parzialmente contraria all’ortodossia economica sia perché molti esperti sostengono che il paragone fatto da Weber con il periodo della Seconda guerra mondiale non tenga: in economie estremamente complesse e globalizzate, sostengono i critici della misura, controllare adeguatamente i prezzi è impossibile e probabilmente controproducente.
Il controllo dei prezzi è comunque solo uno dei vari approcci non convenzionali alla gestione dell’inflazione: alcuni economisti suggeriscono riforme della concorrenza per ridurre il monopolio di alcune imprese, che sfruttano la possibilità di aumentare i prezzi quanto vogliono senza mai sperimentare un calo della domanda; altri propongono di canalizzare gran parte del credito delle banche a tutti quei settori in cui ci sono gravi problemi produttivi; altri ancora propongono misure per incoraggiare (o addirittura forzare) il risparmio, in modo da smorzare la crescita dei consumi.
Sono tutte misure con un raggio d’azione ben delimitato, quasi chirurgiche, che effettivamente comporterebbero meno rischi di un rialzo dei tassi. Non sono però mai state davvero sperimentate nella lotta all’inflazione.
Il dibattito di questi anni non è stato solo su quali strumenti fossero migliori per fermare l’aumento dei prezzi, ma anche sulle cause all’origine dell’inflazione, che poi ovviamente condizionavano anche la discussione sulle possibili soluzioni.
Gli economisti con una visione più tradizionale hanno ricondotto l’inflazione degli ultimi due anni a due cause principali: la pandemia, che prima ha bloccato le produzioni e i consumi e che poi quando la domanda è ripartita ha creato tutta una serie di intoppi nelle catene produttive per i prezzi di tanti semilavorati e prodotti, che sono aumentati perché introvabili; e la guerra in Ucraina, che ha provocato un aumento fortissimo dei prezzi di petrolio e gas e quindi dei costi per produrre qualsiasi cosa, dalla carta, al cibo, ai più banali prodotti di consumo.
L’inflazione recente sarebbe stata quindi un misto: c’era sicuramente una componente legata a un’economia che correva, dopo l’enorme rallentamento imposto dalle restrizioni dovute alla pandemia da coronavirus, ma c’era anche un’inflazione dal lato dell’offerta, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi dell’energia.
C’è poi una minoranza di economisti che fin dal principio ha ricondotto l’aumento dell’inflazione al fatto che le aziende stessero speculando sulla situazione generale di aumenti dei prezzi per ottenere più profitti possibili, e che per questo abbiano aumentato i prezzi dei beni e dei prodotti molto più di quanto sarebbe necessario per coprire l’aumento dei costi.
Oggi c’è sempre più consenso su un intreccio delle cose: gli aumenti dei prezzi causati dalla pandemia e dalla guerra sono poi diventati strutturali nel sistema economico anche perché le aziende hanno mantenuto alti margini di guadagno nel frattempo.
E questo si vede dal fatto che il costo della vita continua ad aumentare nonostante molti dei fenomeni che avevano originariamente creato un aumento dei costi per le aziende sembrino ormai essere terminati. I rincari di oggi appaiono quindi piuttosto ingiustificati ed è una convinzione ormai diffusa che le aziende stiano decidendo arbitrariamente di continuare ad aumentare i prezzi per far crescere i profitti.
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