Chi è stato Primo Carnera
Novant’anni fa divenne il primo pugile italiano a vincere il titolo dei pesi massimi: ma la sua storia era iniziata molto prima e continuò anche dopo
di Pietro Cabrio
In Italia la notizia del primo pugile italiano campione del mondo dei pesi massimi fu pubblicata con tre giorni di ritardo, il primo luglio del 1933. «Appena disceso dal ring il nuovo campione del mondo ha dichiarato agli accorsi per felicitarlo: “Non ho voluto vincere per me, ma per il Duce e per l’Italia”» scrisse La Gazzetta dello Sport. La sera del 29 giugno, al Madison Square Garden di New York, era successo che Primo Carnera, pugile friulano di 27 anni, aveva battuto il campione del mondo in carica, lo statunitense Jack Sharkey, e si era preso il titolo più ambito e significativo della boxe mondiale, quello dei pesi massimi. Nessun italiano ci era mai riuscito e dopo di lui ce ne fu soltanto un altro (ma con un titolo mondiale minore).
Da quel giorno Carnera divenne un personaggio famoso in tutto il mondo industrializzato. Il pugilato era ancora lo sport più seguito, insieme al ciclismo, e la carriera di Carnera, iniziata in Europa anni prima, durò ancora molto. Rimase campione del mondo per un solo anno ma restò un’attrazione tale da essere impegnato complessivamente in oltre cento combattimenti, a differenza degli altri campioni dell’epoca che a fatica superavano i sessanta incontri in carriera.
Carnera non era solo un campione: aveva caratteristiche uniche e inconfondibili. Affetto da un probabile caso di acromegalia, cioè di un’eccessiva produzione di ormoni della crescita, aveva superato i 2 metri di altezza già da adolescente, in anni dove altezze simili erano estremamente rare, in particolare in Italia, un paese storicamente di bassa statura dove agli inizi del Novecento l’altezza media della popolazione era di circa 1 metro e 60 (oggi è di circa 1 metro e 71). All’apice della carriera arrivò a pesare quasi 120 chili, con una circonferenza del torace di oltre 110 centimetri e il 52 di scarpe.
Veniva da Sequals, un paesino delle prealpi friulane in provincia di Pordenone. Era nato in una famiglia povera in una zona d’Italia già di per sé molto povera che in seguito ai fatti della Prima guerra mondiale lo era diventata ancor di più. In quella situazione Carnera emigrò in Francia ancora adolescente. Per via della sua stazza già enormemente sviluppata entrò facilmente a contatto con il mondo circense, divenne un cosiddetto “fenomeno da baraccone” e fu notato da un impresario ex campione di pugilato francese, che lo formò per fargli iniziare una carriera vera e propria.
Con quelle dimensioni, e non avendo avuto trascorsi nella boxe, non diventò un pugile tecnico. Gli bastò modellare un fisico imponente, che già alla vista poteva incutere timore, e affinò in particolare una sequenza di pugni che divenne il suo punto di forza.
Per il pubblico Carnera fu soprattutto “la montagna che cammina”, come era soprannominato, anche se dopo la sua morte la figlia Giovanna Maria ci tenne a far conoscere il più possibile chi era stato veramente, dietro la stazza, i successi e la propaganda. Recuperò e fece pubblicare foto, filmati e scritti che il padre aveva prodotto in vita, e fra le altre cose disse: «Il regime fascista lo elesse a icona, ma la verità è che il regime usò mio padre come usava ogni sportivo di quei tempi. Papà non è mai stato fascista e non apparteneva a nessun partito. Amava la letteratura classica, l’arte e l’opera. Cercava sempre di migliorarsi e fu lui a volere che mio fratello e io studiassimo il più possibile».
In Italia però la sua affermazione a livello mondiale coincise non solo con l’apice del ventennio fascista, ma con una società che in certi ambiti, e già dall’Ottocento, «puntava sulla cura del corpo e sull’esercizio fisico per ribaltare l’immagine dell’italiano effeminato e svigorito in un campione di virilità, una maschia figura di combattente pronto a marciare e a difendere il suolo patrio, convintamente e senza risparmio, contro gli oppressori e i nemici», come scritto da Massimo Arcangeli nel suo libro Itabolario – L’Italia unita in 150 parole.
Il pugilato era inoltre considerata “l’arte nobile” che univa tecnica, prestanza atletica e dedizione, tutti aspetti da cui il regime fascista voleva essere rappresentato e che voleva quindi trasmettere. Proprio nell’anno in cui Carnera divenne campione del mondo, Benito Mussolini disse che «i giovani fascisti avrebbero dovuto costituire il vivaio dei futuri pugilatori» perché gli sorrideva «l’idea di vedere una generazione di così potenti cazzottatori sfasciare i connotati ai campioni degli altri paesi».
Pur continuando a concentrare vita e attività professionali negli Stati Uniti, dopo il titolo Carnera tornò in Italia per ricevere gli omaggi del suo paese e per entrare a far parte a tutti gli effetti della propaganda fascista. Il 22 ottobre il regime gli organizzò un incontro in Piazza di Siena a Roma, all’interno di Villa Borghese, che divenne una sorta di manifesto per l’epoca. Fu allestito uno stadio per contenere oltre 60mila spettatori. Lì Carnera difese il titolo e vinse anche quello europeo battendo ai punti il basco Paulino Uzcudun, noto più che altro per la sua tenacia.
Carnera era diventato campione del mondo al suo ottantaduesimo incontro. Negli anni precedenti aveva combattuto ovunque: in Europa alla Royal Albert Hall di Londra, a San Siro, allo Sportpalast di Berlino, ma soprattutto negli Stati Uniti, al Madison Square Garden ma anche allo Yankee Stadium di New York. Si ritiene però che gran parte degli incontri a cui prese parte in America furono in realtà organizzati a tavolino da impresari legati alla mafia italo-americana, che avevano individuato in Carnera un grossa opportunità di guadagno.
Fu fatto combattere spesso contro sconosciuti in ogni angolo del paese: dal New Jersey all’Oregon, passando anche per Nebraska, Ohio e Colorado. Veniva venduto come un’attrazione e soltanto la sua presenza suscitava curiosità e interesse ovunque: un po’ come accadde decenni dopo a un altro lottatore europeo affetto da acromegalia, André the Giant, il primo wrestler di fama mondiale.
Ma Carnera era soprattutto un vero pugile e lo dimostrò, oltre che con il titolo mondiale, con un record complessivo di 84 vittorie e 14 sconfitte (arrivate peraltro negli ultimi anni di carriera): si misurò con tutti i migliori dell’epoca, come George Godfrey e Jack Sharkey (nome d’arte di Joseph Paul Zukauskas). Mise fine alle carriere di tanti atleti, talvolta anche in modo tragico. Accadde per esempio nel 1933 al tedesco Ernie Schaaf, che fu mandato al tappeto, non si rialzò più e morì tre giorni dopo. Soltanto successivamente si venne a sapere che Schaaf aveva già subito grossi danni cerebrali nel suo precedente incontro.
All’apice della carriera venne sconfitto in particolare da pugili più tecnici e rapidi, come Max Baer e soprattutto Joe Louis, più giovane di otto anni, che il 25 giugno del 1935 allo Yankee Stadium lo atterrò per tre volte vincendo per KO tecnico. Da lì la sua carriera si avviò al termine, anche a causa degli anni di sosta per la Seconda guerra mondiale, al termine della quale fu catturato dai partigiani per il ruolo che aveva avuto durante il ventennio, salvo poi essere liberato senza conseguenze.
Nel dopoguerra rimase nel mondo della lotta e divenne un wrestler partecipando a eventi d’intrattenimento nel Nord America, tanto da essere ricordato ancora oggi nella hall of fame della WWE, l’attuale azienda di riferimento per il wrestling mondiale. In quegli anni ottenne anche la cittadinanza statunitense e recitò in una ventina di film. Quando si ammalò di cirrosi epatica tornò a Sequals, dove nel 1967 morì il 29 giugno, lo stesso giorno in cui 34 anni prima era diventato campione del mondo.
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