Una manifestazione in sostegno dell’affirmative action a Washington (Chip Somodevilla/Getty Images)

La Corte Suprema statunitense si è espressa contro i sistemi di ammissione universitari basati sull’etnia

Cioè le misure adottate dalle università per selezionare più persone non bianche, in vigore da mezzo secolo

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Giovedì la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato illegale la pratica di alcune università di includere l’etnia di una persona tra i criteri di selezione per l’ammissione. Questa decisione limita di fatto l’affirmative action, ovvero l’insieme di politiche di contrasto alle discriminazioni adottate da tempo in molte prestigiose università americane, sia pubbliche che private, che favoriscono l’ammissione di studenti non bianchi. In base alla decisione della Corte Suprema, nessuna università statunitense potrà avere quote riservate alle persone di etnia non bianca (in nove stati del paese era già vietato dalle leggi locali).

È una decisione molto significativa su una misura che da mezzo secolo favorisce la composizione di corpi studenti più rappresentativi della popolazione statunitense, favorendo l’ammissione di studenti afroamericani e ispanici che storicamente accedono meno ad alti livelli di istruzione. Finora la Corte Suprema aveva difeso le leggi sull’affirmative action, da sempre contestate dai Repubblicani. Con la nomina di tre giudici conservatori da parte del presidente Donald Trump però gli equilibri della Corte erano via via cambiati, come dimostrato per esempio dall’eliminazione del diritto all’aborto a livello nazionale, decisa dalla Corte nel 2022.

I giudici della Corte Suprema avevano ricominciato a discutere della questione a ottobre, in seguito a due cause avanzate contro le università di Harvard e della North Carolina da un gruppo di studenti conservatori (Students for Fair Admissions) che aveva accusato le due università di favorire l’ammissione di studenti neri e ispanici ai danni di bianchi e asiatici.

– Leggi anche: Negli Stati Uniti si discute di “affirmative action”

L’affirmative action fu introdotta negli anni Sessanta dalle amministrazioni Democratiche di John F. Kennedy e Lyndon Johnson come una misura con una funzione di tipo “risarcitorio”. Il ragionamento era che obbligare le università a riservare un certo numero di posti a studenti di minoranze etniche, principalmente afroamericani, avrebbe permesso di compensare tramite discriminazioni positive secoli di discriminazioni negative legate alla schiavitù e al razzismo. E avrebbe impedito la riproduzione e l’amplificazione degli squilibri sociali prodotti da quella storia di segregazione e oppressione.

Che potesse arrivare una decisione del genere era un’ipotesi giudicata da tempo realistica: oggi su 9 giudici della Corte Suprema, 6 sono di orientamento conservatore.

Alcuni dei giudici conservatori in passato avevano più volte criticato l’affirmative action, sostenendo che nonostante le buone intenzioni misure del genere finiscono inevitabilmente per premiare alcune minoranze e danneggiarne altre. Chi contesta l’affirmative action sostiene che l’obiettivo della tutela della diversità nella composizione delle classi sia raggiungibile senza dover necessariamente tenere in considerazione l’origine etnica, e che distinzioni come quelle alla base dell’affirmative action siano state pensate per essere temporanee e non permanenti.

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