L’ultima volta che i carri armati ci arrivarono, a Mosca
Nel 1993, al culmine di una crisi istituzionale, colpirono su ordine del presidente Boris Eltsin la sede del parlamento occupata dai membri rivoltosi
Il 4 ottobre 1993 una grave crisi politica in corso da mesi tra l’allora presidente russo Boris Eltsin e il parlamento sfociò in un conflitto armato in cui i carri armati schierati a Mosca colpirono su ordine del presidente la sede del parlamento occupata dai suoi oppositori politici. Il numero di persone morte non fu mai chiarito, ma secondo le stime dell’epoca furono almeno 147. Fu la cosa più vicina al primo colpo di stato nella storia della Federazione russa, dopo che un precedente tentativo fallito nel 1991 aveva avviato gli eventi che portarono alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Il 21 settembre 1993 Eltsin aveva indetto nuove elezioni dopo aver sciolto il parlamento, contrario alle sue riforme di liberalizzazione: sebbene privo di quel potere in base alla costituzione allora vigente, il presidente basava la legittimità della sua azione sui risultati di un precedente referendum tenuto ad aprile dello stesso anno. Guidati dai due principali oppositori al governo di Eltsin, ossia il vicepresidente Aleksandr Rutskoi e il presidente del parlamento Ruslan Khasbulatov, i membri del parlamento si erano quindi asserragliati nella sede in riva alla Moscova, il fiume che attraversa Mosca, e avevano votato per mettere Eltsin in stato di accusa, giudicando incostituzionale lo scioglimento del parlamento.
Quando all’inizio di ottobre Khasbulatov e Rutskoi incitarono bande armate di manifestanti a occupare lo studio televisivo della torre di Ostankino, centro nevralgico dei media russi, e l’ufficio del sindaco Yuri Luzhkov, Eltsin dichiarò lo stato di emergenza e mise fine alla crisi istituzionale ordinando all’esercito russo di aprire il fuoco sulla sede del parlamento occupata e arrestare i rivoltosi.
La crisi del 1993 fu sostanzialmente determinata dal progressivo peggioramento delle relazioni tra Eltsin e il parlamento, che considerava le politiche del presidente la ragione della crescente instabilità economica e sociale della popolazione. Prima della crisi, all’inizio degli anni Novanta, Eltsin e Rutskoi erano però stati a lungo alleati in parlamento contro i membri conservatori dell’esercito e del KGB che avevano tentato il colpo di stato nel 1991, opponendosi al piano di riforme economiche di Michail Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica.
Diventato primo presidente della Russia postsovietica, Eltsin proseguì le riforme avviate da Gorbaciov e ne impose di nuove, con l’obiettivo di accelerare la trasformazione dell’economia russa in un’economia di mercato. E lo fece anche attraverso grandi operazioni di privatizzazione delle società statali, delle quali spesso beneficiarono gli amici della classe dirigente, mentre migliaia di impiegati pubblici persero il lavoro. Queste politiche generarono profonde insoddisfazioni da parte degli ex alleati di Eltsin, tra cui Rutskoi, che attribuivano a quelle riforme un peggioramento dell’economia russa dopo tre decenni di sostanziale stagnazione.
Eltsin chiese l’approvazione di un riforma che concedesse maggiori poteri per il presidente, nel tentativo di accelerare le riforme, mentre una larga maggioranza del parlamento guidata dal vicepresidente Rutskoi voleva piuttosto limitare quei poteri e rallentare, se non invertire del tutto, la transizione a un’economia di mercato. Per tutta la primavera e l’estate del 1993 presidente e parlamento, che all’epoca si chiamava ancora Soviet supremo, si affrontarono promulgando leggi e decreti in contraddizione e sfiduciandosi l’uno con l’altro.
Il 25 aprile, forte del mandato diretto ricevuto due anni prima alle elezioni, Eltsin indisse quindi un referendum – molto osteggiato dal parlamento – che poneva domande sulla fiducia nel presidente, sul sostegno alle politiche socio-economiche del suo governo e sulle elezioni anticipate per il presidente e per i membri del parlamento. I risultati confermarono la fiducia a Eltsin ma non quella al parlamento, che rimase però comunque in carica dato che oltre alla maggioranza dei votanti per ottenere elezioni anticipate era necessario un quorum del 50 per cento dell’elettorato, che non fu raggiunto.
Nei mesi successivi le tensioni sfociarono nelle prime manifestazioni antigovernative a Mosca, in alcuni casi anche violente, mentre il giro di collaboratori del presidente e i membri del parlamento lavoravano a due differenti e di fatto inconciliabili riforme della costituzione. «Il presidente emana decreti come se non ci fosse il parlamento, e il parlamento sospende i decreti come se non ci fosse il presidente» commentò un giornalista del quotidiano russo Izvestiya.
All’inizio di settembre Eltsin cercò di sospendere dalla carica il vicepresidente Rutskoi, suo ex alleato, eletto nella stessa lista elettorale nel 1991 e diventato in due anni il suo principale avversario politico. Dopo che il parlamento aveva respinto la sospensione di Rutskoi, Eltsin dichiarò che avrebbe accettato di indire elezioni presidenziali anticipate a condizione che anche il parlamento convocasse nuove elezioni per i suoi membri, ma la sua rischiesta fu ignorata.
Il 21 settembre, appellandosi a un decreto che gli conferiva poteri esecutivi straordinari, Eltsin dichiarò sciolto il parlamento e indisse un referendum per approvare la nuova costituzione e richiedere a dicembre di quell’anno le elezioni legislative per il nuovo parlamento: la Duma di Stato, che avrebbe preso il posto del Soviet supremo. Non aveva i poteri per farlo, in base alla costituzione del 1978 all’epoca ancora in vigore.
Rutskoi definì quella decisione un passo verso il colpo di stato. Il 22 settembre il parlamento lo proclamò presidente ad interim fino a nuove elezioni, da indire entro marzo 1994, e sostituì contestualmente i ministri ritenuti più importanti in quella fase. Da quel giorno e fino alla fine della crisi, in Russia, ci furono due ministri della Difesa, della Sicurezza e dell’Interno, oltre che due presidenti: Eltsin e Rutskoi.
Il 23 settembre la maggioranza dei parlamentari si riunì all’interno della Casa Bianca russa (Bielij Dom), la sede del Soviet supremo a Mosca, e votò favorevolmente – il quorum era di 638 membri – la messa in stato di accusa di Eltsin. Il giorno dopo Eltsin fece tagliare l’elettricità, l’acqua e la rete telefonica nell’edificio del parlamento.
A partire dal 25 settembre e per dieci giorni decine di migliaia di persone manifestarono per tutta Mosca contro Eltsin, contestato da un ampio fronte politico contrario alle sue riforme: comunisti, grandi sindacati, organizzazioni patriottiche, partiti di estrema destra e formazioni paramilitari di ultra-nazionalisti. Gruppi paramilitari si introdussero nella sede del parlamento e si prepararono a difenderla da eventuali tentativi di irruzione delle forze di sicurezza: secondo una stima diffusa il 1° ottobre dal ministro dell’Interno di Eltsin c’erano all’interno della Casa Bianca almeno 600 persone armate.
Dopo i primi morti negli scontri tra manifestanti a favore del parlamento e forze di sicurezza, Eltsin proclamò lo stato di emergenza in tutta Mosca. Lo stesso giorno, il 2 ottobre, Rutskoi si affacciò al balcone della Casa Bianca e chiese alla folla riunita di assaltare l’ufficio del sindaco Luzhkov, fedele a Eltsin, e di occupare la sede della televisione nazionale, nella torre di Ostankino. La sera del 3 ottobre, superati i cordoni della polizia davanti al parlamento, i manifestanti occuparono il municipio e si spostarono verso la sede della tv, presidiata da diverse unità di polizia, che dopo scontri durissimi respinsero i manifestanti.
La scelta di Rutskoi di sollecitare l’intervento dei manifestanti fu criticata da diversi generali dell’esercito che fino a quel momento erano rimasti neutrali, e che a quel punto fecero sapere a Eltsin di essere dalla sua parte. La mattina del 4 ottobre diverse unità dell’esercito regolare russo circondarono il parlamento e decine di carri armati si disposero lungo una strada da cui avevano una buona visuale dei piani alti degli edifici.
Poco dopo le otto, su ordine di Eltsin, i carri armati fecero fuoco mirando verso i piani più alti del palazzo, con l’obiettivo di ridurre al minimo le morti e generare panico e confusione tra i parlamentari asserragliati. A mezzogiorno i gruppi d’assalto entrarono nel palazzo e cominciarono a combattere per liberarlo, piano per piano. Alle cinque del pomeriggio, dopo circa dieci ore di battaglia, Rutskoi e i leader del parlamento si arresero e furono arrestati.
Secondo le stime diffuse all’epoca dal ministero dell’Interno morirono negli scontri 147 persone, in gran parte civili, e altre 437 rimasero ferite: fu il singolo evento che provocò più morti a Mosca dalla Rivoluzione d’ottobre.
I video e le fotografie dei carri armati dell’esercito russo che facevano fuoco contro un palazzo del governo circolarono in tutto il mondo. Ma nonostante le preoccupazioni e la paura che l’assalto potesse avviare una prolungata guerra civile, il potere di Eltsin ne uscì provvisoriamente rafforzato. A dicembre riuscì a far approvare con un referendum una nuova costituzione, la prima da quella approvata nel 1978, che trasformò la Russia in una repubblica fortemente presidenziale, guidata da Eltsin fino al 1999 e all’elezione dell’attuale presidente Vladimir Putin.