Dove abitiamo dormendo
«Prima di vivere sulle Ande peruviane pensavo che il sonno fosse un’esperienza orizzontale, che dura otto ore, intima e privata come i sogni. Quando mi sono trasferita a Marsiglia ho capito che dormire e sognare su una montagna, non è lo stesso che farlo in un palazzo di dieci piani in cemento nella periferia di Marsiglia»
È sugli altipiani delle Ande peruviane che mi son accorta per la prima volta di quanto il sonno e i sogni siano influenzati dall’epoca storica, dalla società e dai luoghi in cui si dorme. Per tre anni sono stata ospitata da famiglie di comuneros quechua, in villaggi a tremila metri d’altitudine, in case fatte di terra dove non era ancora arrivata l’elettricità. In una stessa camera si dormiva in tanti, ci si poteva svegliare più volte e al mattino il primo gesto era condividere i sogni. Una volta ho chiuso gli occhi sdraiata in un campo di mais e Damasina, una comunera del villaggio di Contay, si è avvicinata per dirmi che non dovevo assolutamente dormire lì, poteva essere pericoloso, e per proteggermi aveva infilato un coltello nella terra.
Da quando negli anni Ottanta e Novanta la guerra tra Sendero Luminoso e l’esercito peruviano ha colpito questi altipiani, i comuneros sanno che addormentarsi in alcuni luoghi, teatro di avvenimenti violenti, può provocare degli incubi. «Ogni volta che vado in quel posto sogno militari, che stanno sdraiati, o che stanno camminando o che stanno sparando. È un luogo brutto, ti rivela nella forma di un militare». Le comuneras andine mi spiegavano che ci sono sogni che vengono «da dentro» influenzati dai pensieri del giorno o dall’aver troppo mangiato o bevuto, e sogni che vengono «da fuori», visite delle anime dei morti, delle divinità o dei luoghi. Sono questi ultimi a portar messaggi e premonizioni non solo per gli individui ma per la collettività. È grazie ai sogni che le comuneras hanno continuato a dialogare con i familiari desaparecidos durante la guerra. «Vieni a cercarmi, sono quassù dietro questa roccia» e molte di loro si sono messe in viaggio per andar a cercarli nei luoghi rivelati.
Su questi altipiani i sogni sono il filo che tiene uniti i vivi e i morti, sono una “comunità di linguaggio” come dice l’antropologo Philippe Descola in Les lances du crépuscule, che ci permette di parlare con chi non c’è più, con chi è lontano o non ha un linguaggio umano, come gli animali, la montagna, un fiume, che durante il giorno sembrano zitti e invece nei sogni comprendiamo perfettamente. Per esempio la Montagna, chiamata Apu, può assumere in sogno le sembianze di un uomo o una donna, in genere gringo, ben vestito, con il cappello, che visita gli abitanti per avvisarli se le loro pecore si sono perse, per annunciare l’arrivo di un figlio, di una malattia o di un buon raccolto.
Quando nel 2013 mi sono trasferita a Marsiglia, ho portato dentro di me le esperienze andine e delle domande che prima non mi facevo. Da dove vengono i sogni? Come cambiano a secondo dei luoghi e dei contesti sociali? Dormire e sognare su una montagna, in una casa fatta di terra a tremila metri sopra il livello del mare, non è lo stesso che dormire e sognare in un palazzo di dieci piani, in cemento, vicino all’autostrada, nella periferia nord di Marsiglia. È qui che ho continuato a raccogliere i sogni, in un quartiere dove la maggior parte degli abitanti sono originari dell’Algeria, del Marocco, della Tunisia, dell’Italia, della Turchia o delle Comore e che da anni dormono a Marsiglia dove sono nati i loro figli e nipoti.
«Io quando sogno sono quasi sempre au pays, nel mio paese, in Algeria, ci si crede qui, con delle persone di qui, ma più spesso sono laggiù». Jamila vive a Marsiglia da ormai trent’anni ma, come molte delle sue vicine, dice di sognare raramente la casa e il quartiere in cui vive. Invece la notte, in sogno, si ritrova spesso nella sua casa d’infanzia, al di là del Mediterraneo. «Io sogno spesso la casa dove sono cresciuta e mi sembra che sia cresciuta anche lei. Ma è sempre la stessa, e io vivo la mia vita là dentro; è strano! Mi succede spesso… Proprio l’altra notte, ho sognato di essere a casa di mia nonna in Algeria. In realtà era la casa di mia nonna, ma si trovava qui a Marsiglia, con persone di là e di qui, che erano nella stessa casa».
Per molte abitanti di questo quartiere i sogni sono il filo che tiene uniti luoghi lontani e a volte inaccessibili a causa dell’esilio: le case si spostano, si trasformano, permettendo di realizzare incontri impossibili nella vita diurna. Alcune donne di origine kabyle parlano anche dell’airsess ou aurham, lo «spirito della casa» che si manifesta nei sogni per farti sapere se ti ha accettato oppure no. È successo a Ranya la prima notte che ha dormito nel suo appartamento a Marsiglia, quando ha sognato una donna vestita di bianco in piedi davanti alla porta che le diceva di non avere paura di lei, perché non le avrebbe fatto niente di male. Anche le case nei sogni ti parlano. Al risveglio Ranya ha sentito che quell’appartamento l’aveva accolta e l’avrebbe protetta.
Se dormire è perdere il controllo e abbandonarsi, per poterlo fare dobbiamo innanzitutto fidarci del posto in cui ci troviamo. Nel quartiere di Noailles, nel centro di Marsiglia, non è più stato possibile da quando il 5 novembre del 2018 sono crollati due palazzi in rue d’Aubagne portandosi via otto persone. Stavano dormendo o si stavano preparando per uscire e invece i loro polmoni si sono riempiti di polvere. A volte le case possono interrompere il sonno e i sogni per sempre. Il crollo in rue d’Aubagne ha fatto esplodere lo scandalo del parco immobiliare del centro di Marsiglia, abbandonato alla sua decadenza. Nel 2020 l’associazione Noailles Debout ha contattato me e l’amica e artista Tuia Cherici (con cui collaboriamo da anni alla ricerca sui sogni e all’Atelier del sonno) per raccogliere testimonianze tra gli abitanti.
Appel à la solidarité avec les personnes sinistrées de la Rue d’Aubagne.
Voici les adresses où déposer vos dons ainsi que la liste des produits de première nécessité à apporter. Merci pour elles. Lire ici notre article : https://t.co/IPpLatQfeI#Marseille #RueDaubagne pic.twitter.com/IwNTXzFnKu— OhaiMe-Passion.com (@ompassion) November 8, 2018
Come si dorme e cosa si sogna a Noailles? Anche prima del 5 novembre le persone sapevano di abitare in case malsane e insalubri, ma dopo il crollo dei palazzi ogni fessura nella parete, ogni porta che fatica a chiudersi, ogni rumore nella notte sono diventati un pericolo reale. La loro dimora non era più un nido ma un posto pericoloso da tenere in permanenza sotto controllo. «Avevo sognato il quartiere, come se la tavola ballasse, io cercavo di prendere la tavola ma lei se ne andava e poi ritornava», racconta Dalida che ha fatto quel sogno premonitore qualche notte prima del crollo dei palazzi. «Nel sogno sentivo degli odori che entravano nelle narici, l’odore del fumo, l’odore della polvere», dice Karim, e quell’odore di macerie perseguita ancora molti abitanti. «Ho smesso di dormire, non mi era mai successo così in vita mia. Le medicine e i sonniferi che mi han dato non sono serviti a niente», racconta Miriam che di notte fissa per ore le crepe del soffitto.
C’è stato invece chi dal sonno è stato aspirato, come Nathalie che dopo il crollo dei palazzi per sei mesi non ha fatto altro che dormire perché per lei era l’unico modo per sopravvivere. Erano gli altri a prendersi cura di lei, a dirle che doveva mangiare. «Ero tornata ad essere come un bebè, era come se le persone intorno mi cullassero mentre dormivo». Ma la sua posizione del sonno era cambiata, ora dormiva mezza seduta perché da sdraiata aveva sempre la sensazione di soffocare.
Nel marzo 2020 un altro evento ha trasformato il sonno, entrando nei sogni non solo degli abitanti di un quartiere ma dell’intero pianeta: la pandemia e il confinamento. Ci hanno detto di restare chiusi in casa, ma nessuno è venuto a verificare se la casa non fosse troppo piccola, troppo popolata, troppo pericolante. In quei mesi, mentre facevo lezioni di antropologia su Zoom, ho chiesto ai miei studenti di architettura, che vedevo dietro lo schermo del computer, di scrivere e disegnare i loro sogni, soprattutto quelli che avessero una relazione con luoghi particolari. Alcuni studenti erano confinati in nove metri quadrati nella città universitaria, altri erano ritornati a vivere dai loro genitori. Nei loro sogni le case e le stanze avevano cominciato a trasfigurarsi, apparivano porte che nascondevano altre porte da cui era impossibile uscire, soffitti e muri che si restringevano, le case si son trasformate in prigioni.
«Siamo esseri geografici», ha scritto il filosofo Augustin Berque in Ecumene. Introduzione allo studio degli ambienti umani. I luoghi in cui abitiamo influenzano la nostra vita diurna e notturna e al tempo stesso i sogni influenzano il nostro modo di abitare i luoghi.
Prima di vivere sulle Ande peruviane pensavo che il sonno fosse un’esperienza orizzontale, che dura otto ore, intima e privata come lo sono i sogni. Ci sono invece società dove si dorme tutti insieme attorno al fuoco, o si sperimenta il sonno in piedi o sospesi sulle amache. Queste diverse “tecniche del sonno”, sosteneva l’antropologo Marcel Mauss nel 1934 in Le tecniche del corpo, hanno anche effetti biologici. Che il sonno sia un fenomeno tanto naturale quanto sociale lo dicono anche gli storici che raccontano come nella società contadina europea si dormisse in tanti in una sola stanza e il sonno notturno fosse spesso frammentato o diviso in due (Roger Ekirck, La grande transformation du sommeil, 2021). Ti svegliavi dal “primo sonno” verso mezzanotte per andare in bagno, fumare un po’ di tabacco, contare le galline, far l’amore, pregare, raccontar un sogno e poi aspettare il “secondo sonno”.
Quando sono arrivate la luce elettrica e le fabbriche, il loro fumo si è infiltrato tra le lenzuola e il sonno è diventato uno solo. Bisogna dormire tutto d’un fiato per otto ore, come otto son quelle in cui devi restar sveglio a lavorare e otto quelle del tempo libero, in cui consumare. Fili elettrici, appartamenti uno sull’altro, catene di montaggio, un nuovo ritmo ha ricucito insieme il sonno, e quando gli individui non riescono a corrispondere alla norma sono i farmaci a offrire la soluzione. Eppure in altre società il sonno continua a essere un’attività più frammentaria, che può svolgersi sia di giorno che di notte, e dormire e sognare sono considerate esperienze collettive.
All’inizio di Sleeping among the Asabano, la sua etnografia in Papua Nuova Guinea del 2013, l’antropologo R. I. Lohmann descrive la sua sorpresa quando i suoi ospiti si scusano per non aver dormito con lui. La notte per gli Asabano è considerata una temporalità pericolosa, per questo è normale e desiderabile dormire con gli altri e un segno di ospitalità non lasciare la persona sola nel sonno. Tra gli Inuit, invece, il sonno cambia a seconda delle stagioni, ma non è gradito dormire da soli in una stanza, bisogna sempre lasciare le porte aperte (Guy Bordin, On Dansait Seulement la Nuit, 2011). Non sembra essere una coincidenza neppure il fatto che nelle società dove il sonno è un’attività collettiva anche i sogni sono condivisi e hanno un posto nella vita sociale.
Il sonno e i sogni sono un’esperienza tanto intima quanto politica, una porta per avvicinarci non solo agli individui ma anche a un’epoca storica, a una società, a una città, a un quartiere. Se oggi sempre più persone non riescono a dormire otto ore di fila e il sonno è diventato un problema di “salute pubblica”, è necessario interrogarsi sui ritmi sociali e sulle loro contraddizioni, sulle condizioni ambientali e abitative perché come diceva una abitante di Noailles «bisogna curare le case prima di dar medicine per dormire». Nei tempi di crisi collettive il sonno viene turbato, i sogni degli uni dialogano con quelli degli altri, si intrecciano in una trama collettiva: i sogni diventano dei “sismografi” direbbe la storica Charlotte Beradt (Il terzo Reich dei sogni, 1943). Osservarli e documentarli permette di ampliare e quindi trasformare la conoscenza del mondo in cui viviamo. Nel condividerli si crea un’intimità sociale che può aiutare a comprendere e superare collettivamente le paure e le crisi.