Altre testimonianze di violenze nella questura di Verona
Raccontano di abusi compiuti dagli agenti su persone fermate, e sembrano suggerire l'esistenza di un problema strutturale
di Giulia Siviero
Venticinque tra poliziotti e poliziotte della questura di Verona sono stati accusati, con diverse responsabilità, di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio. A seconda delle diverse posizioni sono stati arrestati o indagati per aver picchiato e torturato alcune persone, perlopiù di origine straniera che erano in custodia all’interno della questura, per non aver denunciato avvenimenti di questo tipo di cui erano a conoscenza o per non averli impediti quando ne avevano avuto l’occasione.
Le indagini su quanto accaduto alla questura di Verona sono state condotte dalla questura di Verona. Dopo la notizia, uscita all’inizio di giugno, alcuni giornali hanno pubblicato altre testimonianze di abusi avvenuti, secondo chi li ha raccontati, sempre all’interno della questura ma estranei all’inchiesta.
Una di queste testimonianze coinvolge il figlio di un sottufficiale in servizio alla polizia ferroviaria di Verona, ora in congedo per raggiunti limiti di età: «Leggere quanto accaduto purtroppo, nonostante mi abbia addolorato, non mi ha sorpreso», ha detto l’uomo lo scorso 8 giugno al quotidiano locale L’Arena. «Finalmente in quella sede si è aperta una crepa (…) Ma da quanto tempo si andava avanti così? (…) Tutti sanno come si comportavano alcuni colleghi di Volante (della squadra Volante della polizia, ndr) ma se parlavi venivi isolato e punito come è successo a me».
Il poliziotto in pensione non è l’unico a dire che la tesi delle poche “mele marce” – sostenuta tra gli altri dall’ex vice capo della polizia Achille Serra – non regge e che si dovrebbe invece parlare di un sistema di abuso più ampio e «strutturale». Lo ha detto la stessa giudice per le indagini preliminari che sta seguendo il caso di Verona, Livia Magri, che ha parlato di un «abituale utilizzo di violenza gratuita», di un «modus operandi consolidato» e del fatto che si debba «prendere atto che la pluralità e la gravità dei reati contestati non rappresentano certamente episodi isolati di violenza od occasionali illeciti».
A Verona lo sostengono anche una decina di movimenti e associazioni che hanno organizzato una manifestazione “contro gli abusi in divisa” durante la quale saranno letti o citati alcuni racconti di chi ha subito trattamenti umilianti e violenti dopo essere stato portato in questura in casi che non rientrano nell’inchiesta. In almeno due di questi casi “altri” sono implicati anche alcuni dei poliziotti poi indagati o arrestati, ma non solo. Il Post ha raccolto al riguardo le testimonianze di persone coinvolte nei fatti.
Altre storie
La prima testimonianza è quella di Simone (nome di fantasia), che a marzo 2020 aveva assistito a un fermo della polizia, e che ora ha raccontato la sua versione dei fatti di quello che era successo dopo.
Simone ha detto che durante il fermo, avvenuto per strada in tarda serata, si era messo da una parte a vedere quello che stava succedendo e che era stato immediatamente interpellato da uno dei due poliziotti della squadra Volante: «Tu che cazzo vuoi?». Simone gli aveva risposto di non volere niente e che stava per andarsene. «Lui insiste per avere i miei documenti, mi rifiuto, mi spinge contro il muro e mi minaccia di “portarmi dentro” se non glieli consegno. Io decido di salire sulla loro auto, la volante, di mia spontanea volontà».
A quel punto la situazione si era fatta più “affollata”: si erano avvicinati dei conoscenti di Simone che lo avevano visto sulla volante, ed era iniziata una discussione. «Io scendo, c’è confusione, non oppongo resistenza anche se nella ricostruzione dei poliziotti si dirà che li ho minacciati e presi a calci e a pugni. Io so solo che a un certo punto uno di loro mi ha preso per la trachea e mi ha sollevato contro un muro. Stavo per svenire, me la sono fatta addosso, lui mi ha mollato e sono caduto a terra. I miei ricordi a quel punto sono confusi».
Simone era stato caricato sulla volante e portato in questura: «Quando arriviamo mi tirano giù dalla macchina, sono per terra e lì nel piazzale mi arriva direttamente una secchiata d’acqua fredda addosso. Chiedo di chiamare i miei genitori, l’ambulanza, non mi sentivo bene e loro mi rispondono che o mi alzo “o te lo mettiamo nel culo”. Arriva qualche altro poliziotto, mi portano in bagno per farmi ripulire, mi tolgo le mutande, mentre qualcuno continua a insultarmi: “fai schifo, guarda che schifo che fai, sei pieno di merda”. Dopodiché mi fanno sedere a una scrivania e lì mi accorgo che dentro uno stanzino con un grande vetro, dietro di me, c’è uno dei miei amici».
L’amico è Claudio (nome di fantasia): era tra i conoscenti di Simone presenti sulla strada al momento del fermo della terza persona e aveva cercato di aiutare Simone dopo che era stato preso per il collo. Le carte del processo dicono che Claudio aveva «aggredito verbalmente gli agenti»; Claudio ha sostenuto però di avere urlato dopo avere visto il suo amico svenuto, e ha aggiunto che gli agenti gli hanno sparato dello spray al peperoncino negli occhi prima di caricarlo su una volante e portare anche lui in questura.
Dopo aver dato le proprie generalità Simone era stato messo dentro lo stanzino a vetro con Claudio mentre da fuori, prosegue Simone, «i poliziotti, almeno quattro, ci insultano e ci fanno gesti tipo “suca”. Qualcuno ride, e io rispondo alle provocazioni, verbalmente, fino a che uno di loro si incazza, entra nello stanzino, ci prende a sberloni in faccia e poi socchiudendo da fuori la porta della stanzetta spruzza lo spray al peperoncino». Claudio racconta che sentiva un fortissimo bruciore in faccia e su tutto il corpo e che si era dovuto togliere i vestiti e sdraiarsi a terra per trovare sollievo nel freddo del pavimento: «Ci hanno lasciato lì tutta la notte, senza dirci niente, poi ci hanno portato in due celle separate».
La mattina dopo c’era stato un processo per direttissima: «Mentre ci accompagnavano», racconta Simone, «un poliziotto ancora mi prendeva per il culo chiedendomi se avessi bisogno di carta igienica e mi diceva che se fosse stato per lui mi avrebbe mandato “in sala gessi”». Simone e Claudio erano stati infine condannati a 8 mesi con pena sospesa. In una causa civile separata erano stati condannati a risarcire quattro poliziotti coinvolti nella loro storia per danno all’immagine, all’onore e al decoro e poi due di loro anche per lesioni: ai due agenti della prima volante era stata data una prognosi per lesioni di 10 giorni. «I video che i poliziotti hanno prodotto per dimostrare che erano stati minacciati da noi» spiega Claudio «erano stati comunque accuratamente tagliati e comparivano solo le nostre risposte alle loro provocazioni, ma non quello che loro ci avevano fatto».
Simone dice infine che durante una delle udienze era stato detto «che le escoriazioni e le ecchimosi che avevo al collo (refertate dall’ospedale con 15 giorni di prognosi, ndr) e che mi erano state fatte dall’agente che mi aveva appeso per la trachea me le ero procurate da solo sbattendo all’indietro la nuca sul vetro della volante e poi sul muro». Né Simone né Claudio hanno presentato a loro volta denuncia contro i poliziotti «visto com’erano andati i processi fino a lì e vista la versione completamente distorta data dai poliziotti su quello che era successo veramente». Nella loro vicenda sono coinvolti degli agenti che risultano oggi tra gli arrestati e gli indagati: Simone e Claudio stanno dunque ragionando con i loro avvocati se riaprire il caso oppure no.
La modalità con cui sono finiti in questura è simile a quella di Tiziana (nome di fantasia), che ha raccontato al Post la sua storia risalente al febbraio del 2022.
Tiziana ha detto che una mattina, mentre andava a piedi al lavoro, aveva trovato la strada bloccata da una volante della polizia. Due agenti avevano fermato un ragazzo a petto nudo, in pantaloncini corti e a piedi scalzi che secondo lei era «palesemente in una condizione di confusione e disagio. Più che un problema di sicurezza pubblica sembrava essere una questione sanitaria. Questo ragazzo delirava, non voleva consegnare i propri documenti perché diceva di essere come un albero». Tiziana si era fermata a guardare, in disparte. Racconta che il ragazzo a un certo punto aveva iniziato a dire che una macchina parcheggiata lì accanto era la sua e che dentro c’era il suo zaino: «Ho pensato che forse i documenti erano dentro la macchina, ma i poliziotti non volevano fargliela aprire, nonostante lui avesse le chiavi».
Quello che stava succedendo in strada aveva iniziato ad attirare altre persone e i due agenti della volante avevano chiamato rinforzi. Tiziana ha raccontato che nel frattempo la persona fermata, e verso la quale erano iniziate varie manovre di contenimento, cioè era a terra rannicchiato con due agenti che lo tenevano, continuava a urlare: «Diceva che non aveva fatto niente, continuava a ripetere “per favore” e chiedeva aiuto. Io avevo a quel punto cominciato a fare un video, un poliziotto mi si è avvicinato, ha cominciato a chiedermi i documenti dicendo che servivano per una diffida contro la diffusione delle immagini. Dopo un po’ glieli ho consegnati ma ho detto anche che volevo chiamare un avvocato. Lui ha tentato poi di togliermi il telefono dalle mani». Una ragazza amica di Tiziana che abita lì di fronte e che aveva sentito delle grida era intanto scesa in strada. Tiziana racconta:
«[La ragazza] ha provato a mediare tra gli agenti e il ragazzo fermato dicendo che era impaurito da tutti quei poliziotti addosso. Poi succede tutto in una frazione di secondo: mentre cercano di ammanettarlo lui si agita, la ragazza è lì accanto, si piega verso di lui, e viene subito presa per la testa, sbattuta sulla volante e buttata dentro. Io, a quel punto, corro verso di lei, vengo a mia volta placcata da dietro, mi spruzzano dello spray al peperoncino negli occhi, vengo sbattuta sulla volante e poi a terra. Mi mettono le manette, mi viene continuamente urlato di stare ferma mentre non potevo far altro che stare ferma. Poi mi sollevano e mi buttano in macchina». Tiziana dice che lungo il percorso verso la questura non riusciva né a vedere né a respirare, e che aveva chiesto di abbassare il finestrino: «Loro mi hanno minacciata dicendomi “vedrai cosa ti succede adesso”».
In questura Tiziana aveva ritrovato l’altra ragazza intervenuta durante il fermo e il ragazzo che continuava ad urlare. «Ero pietrificata, avrebbero potuto farmi fare qualsiasi cosa, riesco solo a chiedere dell’acqua: mi portano in bagno, mentre continuano a dirmi “così impari ad andare contro la polizia”». Fermata per resistenza a pubblico ufficiale, messa agli arresti domiciliari e processata per direttissima in tribunale, Tiziana è stata poi assolta. Ha presentato denuncia contro ignoti per lesioni e minacce.
Una delle associazioni che hanno organizzato la manifestazione contro gli abusi in divisa, il Circolo Pink che a Verona lavora per i diritti delle persone migranti LGBT+, racconta poi i casi di almeno due persone omosessuali costrette a camminare lungo un corridoio della questura perché i poliziotti presenti volevano vedere come e se «sculettassero».
Il paradosso dell’acquario
L’indagine sulla questura di Verona è cominciata a seguito di un’intercettazione compiuta nell’ambito di una diversa indagine nei confronti di Alessandro Migliore, uno dei poliziotti arrestati. Il 22 agosto del 2022 Migliore era stato intercettato mentre al telefono si vantava delle violenze commesse in questura nei confronti di una persona fermata la sera prima. A quel punto la squadra mobile guidata dalla questora Ivana Petricca decise di non denunciare Migliore e, d’accordo con la procura di Verona, di continuare a indagare inserendo microspie e telecamere nascoste nei locali della questura per verificare se ci fossero stati altri casi di pestaggio. Ad aprile a Ivana Petricca è stato assegnato un incarico alle risorse umane del ministero dell’Interno ed è stata sostituita a Verona dal nuovo questore Roberto Massucci che ha portato avanti le indagini. Massucci era già stato a Verona all’inizio degli anni Novanta ricoprendo anche l’incarico di dirigente del reparto Volanti.
Nell’inchiesta sono coinvolti venticinque tra poliziotti e poliziotte del reparto Volanti in cui lavorano, come operativi o come amministrativi, 104 agenti in totale. Cinque di loro sono stati inizialmente arrestati e messi agli arresti domiciliari: Alessandro Migliore, Filippo Failla Rifici, Loris Colpini, Roberto Da Rold e Federico Tomaselli. Sono stati interrogati la settimana scorsa dalla giudice per le indagini preliminari Livia Magri e solo uno di loro, Da Rold, ha deciso di fare delle dichiarazioni. Per lui, la gip ha dunque deciso la revoca dei domiciliari. I venti indagati, dice Massucci, sono stati ora spostati a fare «attività burocratica, passaporti, vigilanza interna». Non sono in servizio agli sportelli delle persone migranti.
Molte delle violenze di cui i poliziotti di Verona sono accusati, mostrate anche da alcuni video, sono avvenute all’interno di quello che sui giornali è stato definito “l’acquario”, la stanza di attesa delle persone fermate e che non sono in stato di arresto. Ha una grande parete in vetro e sembra essere progettata proprio per favorire la trasparenza e rendere possibile, così come suggerisce il nome, la visione di quello che succede dentro.
Quella di «acquario» non è una definizione giornalistica, è una definizione interna usata tra poliziotti, che Massucci spiega di aver abolito il giorno dopo essere arrivato a Verona dalla questura di Livorno. Spiega anche di aver rivisto le regole e le modalità operative di trattenimento all’interno di questa stanza così come quelle di altre due sale, usate per le persone arrestate e per le persone in attesa di espulsione. «Andavano riviste e riposizionate in un quadro di regolarità giuridica», dice, in modo che non ci fosse «incertezza su come ci si deve comportare e con chi». Non esplicita che cosa non funzionasse prima, ma precisa che questi suoi interventi non dipendono dalle indagini interne già in corso. Così come non c’entrano nella sua decisione di installare delle telecamere «anche dove non sono previste per legge ma sono opportune, tipo nei corridoi di transito: un fatto di trasparenza e di modalità operativa che garantisce tutti».
“Trasparenza” è una parola che il questore ha ripetuto spesso anche pubblicamente, in queste ultime settimane. Ma in Italia non sono presenti delle agenzie di controllo della polizia che esistono invece nella maggior parte degli stati europei e in quasi tutti gli stati membri dell’Unione Europea: pur nelle loro differenze, queste agenzie sono esterne alla polizia, hanno un certo grado di indipendenza dal governo e hanno il compito di garantire il rispetto della buona condotta da parte di quei soggetti che svolgono attività di pubblica sicurezza sul territorio e di tutelare i diritti e le libertà della cittadinanza in caso di abusi. Sono particolarmente importanti perché consentono spesso di superare la logica del corporativismo: quando infatti le indagini sugli abusi della polizia vengono fatte all’interno della polizia stessa, il rischio è che si verifichino insabbiamenti, impunità o parzialità.
Diverse ricerche dicono invece come queste strutture indipendenti alle quali denunciare le violenze delle forze dell’ordine favoriscano una maggiore garanzia di trasparenza, rendendola meno eccezionale e meno occasionale.
Il questore dice che comunque in Italia esiste «un sistema di pluralità delle forze dell’ordine» (carabinieri, polizia o guardia di finanza, ad esempio) e che «anche questa è una garanzia, tanto che molte volte, quando si fanno le indagini che riguardano altri corpi, vengono suddivise le responsabilità. Proprio per evitare che ci siano parzialità». Non è il caso della questura di Verona, però, e quando gli chiediamo perché risponde di aver sufficientemente «dimostrato che la polizia di stato non intende macchiarsi né per reticenza né per poca trasparenza». E ricorda che le indagini interne sono durate otto mesi: «Otto mesi. Indagini di otto mesi si fanno per casi di criminalità strutturata».
Eppure nessuno, all’interno della questura e per i fatti in questione, ha mai parlato di violenza strutturale o «strutturata». È stata usata l’espressione «pagina nera», si è insistito molto sul lavoro della questura che ha dimostrato, indagando su sé stessa, di essere un organo sostanzialmente sano, molti esponenti politici dell’attuale maggioranza al governo hanno commentato quanto accaduto dicendo che occorra dare più garanzie a chiunque lavori per la sicurezza, «in una specie di ribaltamento totale su chi sia l’aggredito e l’aggressore, chi la vittima, chi il colpevole, chi dovrebbe garantire la legalità e chi subisce la violenza», ha commentato la consigliera comunale di Verona Jessica Cugini, eletta con una lista di sinistra.
Si è poi tornati a discutere dell’abolizione del reato di tortura, si è parlato di poliziotti «mortificati», «provocati» per le strade della città, «in difficoltà» dopo quanto accaduto e per i quali è stato attivato un gruppo di sostegno psicologico. E sulla stampa locale è stata data particolare enfasi al racconto dei numerosi interventi e sgomberi fatti dalla polizia in queste ultime settimane in zone della città particolarmente frequentate da persone migranti o a episodi di reati di strada, rafforzando l’ipotesi di un legame diretto, legame non confermato e a volte smentito, fra immigrazione e criminalità.
Sembrano essere stati marginali, invece, i ragionamenti sulla formazione delle cosiddette forze dell’ordine, delle pratiche o dei controlli a cui dovrebbero essere sottoposte. E anche della loro funzione, del ruolo che hanno nella gestione del territorio e di tutte le persone che lo abitano, di come rispondano in modo non forse sempre adeguato alla mancanza di politiche e interventi sociali, a situazioni che meriterebbero attenzioni e competenze ben diverse. «Si continua a parlare di cittadinanza attiva» dice Tiziana ricordando che l’attuale amministrazione di Verona ha fatto partire un progetto di controllo del vicinato, «che punta a coinvolgere attivamente i cittadini sul tema della sicurezza», dice il comune. «Dopodiché se qualcuna non rimane indifferente a un fermo condotto con modalità discutibili rispetto a una situazione che anche io sono chiaramente riuscita a fotografare, se ti permetti di chiedere che cosa sta succedendo e perché o dici due robe che non vanno nella direzione della politica securitaria, ecco che cosa ti può succedere: subisci violenza perché sei lì a dire che c’è stata una violenza».
Per quanto riguarda le persone fermate e portate in questura e che hanno dichiarato di avere subito delle violenze, il questore dice di non averle contattate, né incontrate. Non c’è stata nemmeno alcuna presa di parola pubblica di sostegno o vicinanza, perché, ci spiega, fino a quando «non c’è una sentenza passata in giudicato non ci sono colpevoli».
Le manifestazioni a Verona
I movimenti coinvolti in una manifestazione indetta per sabato “contro gli abusi in divisa” da una decina di movimenti veronesi, molti dei quali lavorano con le persone migranti, sostengono che la violenza delle forze dell’ordine non si manifesti soltanto negli atti brutali ed eclatanti denunciati nelle ultime settimane o in quelli mai denunciati. Parlano «dell’odissea» delle persone a cui servono i documenti necessari per vivere e lavorare regolarmente in Italia e dei tempi infiniti per ottenerli. «Anche questa è violenza», dicono, così come la mancanza di informazioni chiare o gli atteggiamenti umilianti e degradanti di alcuni funzionari, la militarizzazione di alcune zone della città, gli sgomberi di persone in condizione di difficoltà, l’identificazione del “degrado” con tutto ciò che è marginalità, le foto segnalazioni nei confronti di centinaia di minorenni, spesso migranti, per opera della polizia locale. E sono violenza, sostengono ancora, le lunghe code su uno stretto marciapiede davanti all’ingresso della questura, che costringono uomini e donne, spesso con figli e figlie piccole al seguito, a ore di attesa, sotto il sole e sotto la pioggia. Ora, e dopo anni di richieste e proteste, sarà finalmente montata all’interno del piazzale della questura una struttura che dovrebbe risolvere almeno in parte il problema.
Nel 2021, a seguito di un episodio che coinvolgeva una donna che era andata a chiedere informazioni agli sportelli immigrazione della questura con il figlio appena nato e che ne era uscita molto turbata per il trattamento ricevuto, era già stato organizzato un presidio. Nel volantino che era stato distribuito in quell’occasione si denunciavano «atteggiamenti e comportamenti arbitrari e offensivi, quando non esplicitamente razzisti» da parte di alcuni funzionari e operatori della questura. Quattro persone presenti al presidio, una per ciascuna associazione, erano state denunciate per calunnia. Il tutto è stato poi archiviato dal tribunale perché la notizia di reato di calunnia a loro carico era stata giudicata «infondata» e «inidonea a sostenere fondatamente l’accusa».