Le storie di molestie nelle agenzie di comunicazione italiane
Le notizie su una vecchia chat sessista dei dipendenti maschi di We Are Social stanno favorendo una condivisione di testimonianze tra le donne del settore
di Viola Stefanello
Da un paio di settimane molte persone che lavorano nel settore della pubblicità in Italia stanno discutendo sui social network del difficile ambiente lavorativo a cui molte professioniste donne vengono sottoposte nelle agenzie di comunicazione, tra sessualizzazione e molestie esplicite. La discussione e la condivisione di testimonianze, in larga parte anonime, è scaturita da un’intervista che il 9 giugno un pubblicitario molto conosciuto nel settore, Massimo Guastini, ha dato a “Monica Rossi”, profilo Facebook anonimo di un personaggio del mondo dell’editoria che da anni intervista scrittori, giornalisti e intellettuali di vario tipo.
Nell’intervista, alla richiesta di confermare il fatto che «nel vostro mondo, il mondo della pubblicità, attualmente ci sia un problema di molestie sessuali», Guastini ha fatto un discorso generale includendo diversi esempi del fenomeno, e ha citato «una famosa chat in cui diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie».
Nei giorni seguenti la chat è diventata oggetto di molte attenzioni e commenti, finché è stato reso noto, prima in un commento sul profilo di Guastini e poi in un’altra intervista di “Monica Rossi” a uno degli uomini che facevano parte della chat, che l’agenzia in questione è We Are Social, azienda multinazionale che ha la propria sede italiana a Milano, centinaia di dipendenti, e lavora alle campagne pubblicitarie di grandi aziende come Netflix, Barilla e Lavazza. Nell’agenzia si sta attualmente avviando un’indagine interna affidata a un ente terzo.
L’esistenza della chat (soprannominata “chat degli 80” perché conteneva un’ottantina di partecipanti, dagli ultimi arrivati a persone che ricoprivano ruoli di grande responsabilità), era già nota a qualcuno: ne aveva parlato nel 2020 il podcast Freegida, senza però rendere pubblico il nome dell’agenzia.
La prima persona ad aver scoperto che la chat esisteva è stata Zahra Abdullahi, che oggi lavora nell’ufficio londinese di Snapchat e si occupa degli aspetti creativi del social network. All’epoca dei fatti, nel 2017, aveva 24 anni e a We Are Social aveva il ruolo di writer, a metà tra copywriter e social media manager. Parlando col Post, Abdullahi descrive il clima di quegli anni a We Are Social come quello di un grande liceo in cui quasi tutti avevano poco più di vent’anni, divertente ma anche deresponsabilizzante.
Abdullahi, che ora si identifica con il genere non binario, racconta che una sera del novembre del 2017 era a cena con un collega con cui era in buoni rapporti e che non lavora più nell’agenzia. Scherzando sulla chat che le colleghe donne avevano su Skype, il programma di messaggistica usato a livello aziendale, gli chiese per scherzo se non ci fosse una chat degli uomini a cui potesse unirsi, ipotizzando però che potesse ospitare anche qualche conversazione da «sesso, droga e pastorizia», riferendosi a una pagina Facebook nota per contenuti maschilisti e beceri.
«Il mio amico è in imbarazzo, colgo un senso di “eh, ci hai proprio preso”, e quindi insisto, e gli chiedo di farmela vedere» dice Abdullahi, che racconta di averla infine potuta vedere «dopo un paio di birre». Letti alcuni messaggi, e rimanendone turbatə, decise inizialmente di parlarne «solo con mio padre e con una mia vecchia mentore che lavorava in pubblicità: entrambi mi consigliano di cercare di capire meglio l’entità della cosa, per capire quanto estesa fosse». Successivamente, Abdullahi ebbe modo di leggere più a lungo i messaggi nella chat, trovandosi a utilizzare il computer dei colleghi per lavoro: «Le conversazioni sono molto più estese e articolate di ciò che avevo letto io, e comincio ad avere una comprensione del sessismo e delle discriminazioni di genere che fino ad allora avevo intuito da tanti altri dettagli».
Un’ottantina di uomini con cui lavorava si scambiavano quotidianamente commenti molto espliciti e degradanti nei confronti delle colleghe: le uniche donne di cui non si parlava mai erano quelle che stavano insieme a uno dei membri del gruppo. «In un giorno qualsiasi, i commenti andavano da “che bona è quella”, “come fa quella ad andare in giro senza reggiseno”, “quella si è messa un vestitino pensando di avere un bel culo ma non sa di essere una cazzo di balena”, “oggi quella sorride, si vede che ieri ha preso il cazzo dal fidanzato», racconta. Tra i commenti più degradanti ricorda: «glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola» e «[quella collega] è talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la scoperei comunque, di prepotenza».
Abdullahi spiega che «ogni persona di sesso femminile che veniva invitata a fare un colloquio per una posizione a We Are Social veniva poi discussa talvolta dalle stesse persone che le avevano fatto un colloquio: direttori e supervisori creativi, senior manager che condividevano i profili delle candidate sui social per poter fare una piccola assemblea di condominio parlando dell’aspetto di quella persona: è cessa? Una figa? “Un roito se la guardi in faccia”? E poi c’è il fatto che l’edificio di We Are Social è sviluppato su tre piani, e ci sono persone che hanno il ruolo di avvertire quando una delle “fighe dell’ufficio” passa da un piano all’altro, in che sala si trovano e così via». Fuori dalla chat su Skype, in un documento Excel in condivisione, di tanto in tanto si teneva anche un “torneo”: decine di colleghe venivano confrontate, e i membri dovevano votare in base a specifici criteri, come la loro “scopabilità” e le supposte preferenze e doti sessuali.
Mario Leopoldo Scrima, che a We Are Social arrivò a sua volta nel ruolo di writer nel settembre del 2017 ed è l’unico membro della chat ad averne parlato pubblicamente negli ultimi giorni, conferma quanto letto da Abdullahi. «C’era un senso di tutela più che di segretezza: per entrarci non c’era bisogno di nessun rito di iniziazione, era come se fosse il nostro diario personale. Scrivevamo le nostre idee ed era tacito e implicito, come in tutti i branchi, che non dovevano uscire. La banalità della chat era questa: scrivevamo come se nulla fosse, sembrava che non stessimo facendo nulla di male. Cambiava nome di continuo per eludere eventuali sospetti, ma aveva nomi normalissimi», ha raccontato.
Parlando anche lui con “Monica Rossi”, ha aggiunto che «durante le riunioni, le colleghe non sapevano che prima o addirittura durante noi intanto chattavamo in tempo reale commentando la loro voce odiosa, il loro culo grosso, le loro tettine acerbe o cose così. E quando i meeting finivano, non sanno che molto spesso i maschi rimanevano qualche minuto in più per “approfondire” i discorsi iniziati in quella famosa chat. Questo era l’ambiente tossico di quel periodo».
Dopo aver osservato e considerato la situazione per vari giorni, Abdullahi decise di parlarne con una collega, Linda Codognesi, che lavorava lì dal 2016 (si licenziò nel 2019 e oggi lavora come copywriter freelance). Dissero della chat a «un altro paio di donne fidate all’interno dell’agenzia e poi decidiamo di comune accordo di trovare una portavoce che sia più senior di noi per tutelarci». Si rivolsero a una loro superiore, che parlò della chat all’ufficio delle risorse umane, che a sua volta parlò con i tre capi e fondatori di We Are Social, Ottavio Nava, Gabriele Cucinella e Stefano Maggi.
Al Post, Cucinella ha detto che i capi scoprirono dell’esistenza della chat solo in quel momento: «l’azienda ha sempre ritenuto che questa iniziativa fosse stata ignobile e vergognosa e l’abbiamo subito condannata. Abbiamo anche fatto un controllo interno, ma sui nostri sistemi non avevamo la possibilità di identificare alcun contenuto, perché la chat Skype non era utilizzata ufficialmente dall’azienda». Parlando con il sito specializzato Prima Comunicazione, ha aggiunto: «Era stata creata da dei singoli, nessuno di noi tre fondatori dell’agenzia era presente al suo interno e non abbiamo avuto alcuna possibilità di risalire ai contenuti».
Dopo qualche giorno la chat fu chiusa e tutte le comunicazioni aziendali da Skype vennero spostate su Workplace, un’applicazione di Facebook. «Da lì Skype è bandito, non se ne parla mai più», dice Abdullahi. «Ogni due lunedì, dalle due alle due e mezza, il “trio” convoca una riunione aziendale, detta “All agency meeting”, e noi pensiamo che al suo interno questa cosa verrà comunicata, che se ne parlerà. Sono passati quasi dieci giorni, la voce è girata, le donne fidate a cui ne abbiamo parlato l’hanno raccontato ad altre donne fidate, ci aspettiamo che succeda qualcosa. Invece non viene detto nulla e tra gli uomini diventa quasi un inside joke: ogni volta che una donna prova a parlare di questa chat a un uomo rispondono “ma di cosa stai parlando? Quale chat? Zero, non so di cosa parli”».
Scrima ricorda che il giorno della chiusura della chat non fu un evento vissuto come particolarmente significativo. Da quel momento «non se n’è mai più fatta parola, nemmeno alla macchinetta del caffé per dire “siamo dovuti uscire perché qualcuno ha spifferato quello che ci scrivevamo”. Omertà totale. Non c’è stato nulla di ufficiale, una presa di posizione da parte della leadership, una comunicazione interna, una circolare. L’unica cosa che sapevamo è che quando camminavamo nei corridoi sentivamo le frecce lanciate dagli occhi delle nostre colleghe».
Secondo Abdullahi per molte delle donne dell’agenzia ci furono serie ripercussioni psicologiche: furono spinte a «domandarsi se la loro carriera e la loro passione potesse sopravvivere a un ambiente così cameratista e sessista» e a «chiedersi se avrebbero mai avuto l’occasione di presentarsi al lavoro ed essere più del loro culo, delle loro tette, della loro faccia, del loro corpo».
A quanto risulta, nessuna delle persone nella chat fu licenziata, né furono messi in atto provvedimenti disciplinari di qualche tipo. Molti membri attivi della chat tuttora lavorano nella stessa agenzia in posizioni di responsabilità. Cucinella ha ammesso che «avremmo forse potuto indagare di più, ma senza possibilità di accedere alla chat abbiamo ritenuto di procedere diversamente con una dura condanna dell’accaduto internamente all’agenzia e con azioni proattive di formazione e sensibilizzazione».
Nei mesi e negli anni seguenti alla chiusura della chat la vicenda tornò a essere oggetto di discussioni e attenzioni. Nel marzo del 2018, in occasione della Giornata internazionale della donna, Erica Mattaliano, arrivata a We Are Social nel settembre del 2017 e all’epoca ignara della chat, propose di organizzare delle iniziative interne «per parlare di eventuali problemi dell’ufficio». Fu convocata per una riunione «con varie personalità senior e responsabili delle risorse umane». «Il mio capo mi disse che non dovevo far riferimento a episodi di sessismo interni all’agenzia, che erano già stati risolti e che non avevano bisogno di ulteriori commenti. Ha fatto riferimento alla chat, di cui io non sapevo nulla. Mi riferivo a tutt’altri episodi più sporadici e meno sistematici». Mattaliano dice che «dopo quella riunione ho continuato a vivere in uno stato crescente di tensione, fino a quando questa cosa non mi ha portata a dare le dimissioni».
Nel 2021 la vicenda riemerse in una discussione su LinkedIn. La segnalò Abdullahi sotto a un post di Nava – uno dei fondatori dell’agenzia – in occasione della Giornata internazionale delle donne. Nava definì le accuse di non avere fatto niente riguardo alla chat «un’insinuazione grave e inaccettabile», e in una successiva conversazione telefonica tra i due, dice Abdullahi, Nava chiese di cancellare il commento.
Dopo però dentro a We Are Social si mosse qualcosa: Mattaliano dice che «alcuni ex colleghi che lavoravano ancora in agenzia mi hanno raccontato che, dopo la discussione, sono state fatte delle riunioni che hanno coinvolto l’intera agenzia in cui internamente è stata assunta la responsabilità della chat e se ne è parlato con tutti i dipendenti. I responsabili delle risorse umane mi hanno anche detto che erano state messe in capo delle iniziative per tutelare i dipendenti, creando per esempio dei meccanismi per eventuali segnalazioni anonime. Mi raccontarono anche di altre iniziative legate alla tutela della salute mentale, che però erano legate al Covid e non in risposta a situazioni di mobbing, sessismo o discriminazione che avevamo segnalato noi in passato», prosegue.
Cucinella spiega che «da anni abbiamo attivato un organo interno dedicato specificamente alla diversity & inclusion ed è molto propositivo e attivo con dati e statistiche anonime. Esiste anche uno sportello psicologico. Abbiamo fatto dei training specifici, con partner esterni qualificati, per spiegare bene il codice etico che tutti firmano al momento dell’assunzione e nel quale è stato sottoscritto uno strumento di segnalazione di casi intollerabili o che ledono la dignità delle nostre persone».
Attualmente nell’azienda è stata avviata un’indagine interna condotta da una terza parte. Varie persone che lavorano oggi nell’agenzia dicono che la situazione è nettamente migliorata rispetto al 2017, soprattutto in seguito alle misure messe in atto a partire dal 2021, e che oggi esistono maggiori spazi per condividere eventuali casi di disagio. A Prima Comunicazione, la responsabile delle risorse umane Giuliana Piana Caramella ha detto che «quello che posso dire senza temere di essere smentita è che il clima aziendale di We Are Social è sano» e che «abbiamo implementato da tempo delle pratiche strutturate per raccogliere i segnali in tutta trasparenza e senza timori di un eventuale disagio tra chi lavora in agenzia».
Sulla scia delle notizie sulla chat si è sviluppato anche un discorso più ampio sulle situazioni ricorrenti di sessismo e molestie nel settore. Tania Loschi, pubblicitaria freelance pluripremiata, ha condiviso alcune delle proprie esperienze sul profilo Instagram chiedendo a chi volesse di raccontargliene altre: ha raccolto nell’arco di qualche giorno più di quattrocento testimonianze.
«Sentivo l’urgenza di parlarne perché non volevo che sembrasse un problema che riguarda solo We Are Social: so che è sistemico perché ho visto queste cose accadere in tutte le agenzie in cui ho lavorato, l’ho sentito raccontato da amici e amiche che fanno questo lavoro, ovunque. È un problema culturale», dice Loschi.
Tra le testimonianze ricevute e poi ripubblicate in versioni anonimizzate su Instagram ce ne sono tantissime che riguardano le foto fatte alle colleghe – sotto la gonna, della scollatura, del sedere – senza consenso e poi fatte circolare tra gli uomini delle agenzie. «A questo punto faccio prima a contare le agenzie di cui mi è stato detto che non esiste una chat degli uomini rispetto a quelle che ce l’hanno. E poi ci sono le battute tipo “quanto sei vestita figa oggi, adesso ti voglio scopare”: il commento sull’abbigliamento che sfocia nella molestia».
Data la grande mole di testimonianze, Loschi si è organizzata con Codognesi e altre persone per mettere a disposizione un form che permette a tutti di condividere in modo anche anonimo la propria esperienza. «Quello che chiediamo è che nelle agenzie in cui questi atteggiamenti sono stati sistemici i responsabili si assumano le responsabilità di quanto è successo e che venga condannato sia il gesto che il tipo di cultura che lo rende possibile».
Il 22 giugno l’Art Directors Club Italiano, una delle principali associazioni di categoria per pubblicitari, ha pubblicato un comunicato in cui «condanna con fermezza ogni forma di sessismo e comportamenti lesivi della dignità delle donne, e si impegna a promuovere presso tutti i soci un atteggiamento di tolleranza zero verso pratiche che ci lasciano inorriditi e sgomenti come quelle riportate nelle notizie di questi giorni».
«Secondo me è importante che l’attenzione venga dedicata al fatto che è un problema sistemico, non si tratta di una singola mela marcia, una strega a cui dare la caccia perché poi possa tornare tutto come prima», dice Scrima. «È proprio dietro all’idea che sia un lavoro molto bello in cui si sta insieme tra giovani, senza gerarchie, senza orari, tra amici, a lavorare a campagne per aziende bellissime che si instaura la tossicità: è un clima che può portare a soprusi, abusi, sfruttamenti. Il lavoro non è venduto come tale, ma come un’opportunità, un piacere, un privilegio. Quindi devi stare zitto e continuare a essere sfruttato senza lamentarti delle situazioni in cui ti trovi, perché di giovani brillanti appena usciti dall’università che vogliono il tuo posto ce ne sono un’infinità. Su questo si innestano le peggiori cose di cui stiamo parlando in questi giorni».