Il caso di Emanuela Orlandi è pieno di depistaggi e millantatori
In 40 anni si è parlato di servizi segreti di paesi stranieri, alti prelati, gruppi criminali: nessuna teoria o ipotesi ha mai trovato riscontro
Emanuela Orlandi scomparve a Roma attorno alle 19 del 22 giugno 1983. Da allora, in 40 anni, sono state fatte molte ipotesi. Alla scomparsa è stata accostata, tra le altre, l’opera dei servizi segreti turchi, di quelli bulgari e di quelli della Germania Est, ma anche di quelli italiani e americani, di gruppi terroristici turchi di estrema destra ma anche della mafia siciliana, di ambienti legati al Banco Ambrosiano (la banca presieduta da Roberto Calvi) e della banda della Magliana. Si è parlato del ruolo di Paul Marcinkus, allora presidente dell’Istituto opere religiose (Ior, la banca vaticana). Un’altra ipotesi giornalistica è che Emanuela Orlandi fosse morta nel corso di quello che venne definito un “incontro” a casa di un prelato nei pressi del Gianicolo.
Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi non è solo un cold case, un caso irrisolto, ma è un caso di cronaca di cui si è parlato a livello internazionale con ipotesi che sono rimaste, appunto, solo ipotesi. Ed è stato probabilmente sfruttato anche da persone che volevano accreditarsi presso investigatori e magistrati come conoscitori di segreti e verità.
Una delle ultime e controverse teorie esposte è che Orlandi sia stata vittima di uno scontro tra chi all’epoca sosteneva la politica di papa Giovanni Paolo II a sostegno del sindacato cattolico polacco Solidarność (e più in generale a sostegno dei gruppi dissidenti dell’Europa dell’Est contro i regimi comunisti), e chi invece cercava di contrastare le sue iniziative. Un’altra è che la scomparsa sia comunque stata sfruttata a favore dell’una o dell’altra parte, nonostante in realtà non ebbe nulla a che fare con contrasti politici internazionali. Ancora, secondo ipotesi ogni volta diverse, Orlandi sarebbe stata sepolta nel cimitero Teutonico in Vaticano, nella chiesa di Sant’Apollinare o in una tomba anonima del cimitero del Verano. Secondo altre ipotesi, potrebbe aver vissuto molti anni a Londra, rinchiusa in un istituto religioso sotto il controllo di autorità vaticane.
In tutti questi anni non c’è mai stato un riscontro concreto a queste ipotesi, né gli investigatori che si sono alternati nelle indagini hanno trovato riscontri a tutte le cose dette da testimoni e persone coinvolte a vario titolo, cose spesso basate esclusivamente su voci. Ora sulla scomparsa di Orlandi stanno nuovamente indagando due procure, quella romana guidata da Francesco Lo Voi, e quella vaticana, guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi, che collaborano tra loro e che sono tornate a esaminare le migliaia di documenti, testimonianze e interrogatori relativi al caso.
Il padre di Orlandi, Ercole, morto nel 2004, era commesso della prefettura della Casa Pontificia: in pratica era fattorino e postino di prelati di alto grado. La famiglia viveva dentro le mura vaticane. Esistono due dati certi relativi alla cronaca del giorno della scomparsa. Emanuela Orlandi telefonò a casa verso le 19, le rispose la sorella, a cui disse che era in attesa dell’autobus per tornare e che era stata avvicinata da un uomo, che le aveva proposto di distribuire volantini della ditta di cosmetici Avon nel corso di una presentazione nella sede della casa di moda Sorelle Fontana qualche giorno dopo. In realtà la Avon non aveva in previsione nessun volantinaggio né le Sorelle Fontana avevano in programma alcuna iniziativa in quei giorni.
Quindi, e questo è uno dei pochi dati certi, qualcuno avvicinò Emanuela Orlandi attirandola con una falsa offerta di lavoro. La ragazza andò alla fermata dell’autobus con due compagne che aveva atteso all’uscita della scuola di musica che frequentava: Raffaella Monzi e Maria Grazia Casini. Anche alle due amiche, secondo il loro racconto, Emanuela Orlandi accennò all’offerta di lavoro ricevuta. Entrambe le ragazze salirono su autobus diversi diretti a casa. Monzi disse che Orlandi non salì sull’autobus che avrebbe dovuto prendere perché era troppo affollato.
Il 24 giugno il Tempo e il Messaggero, due quotidiani romani, pubblicarono la notizia della scomparsa e la foto della ragazza. Nei giorni successivi iniziarono ad arrivare a casa Orlandi alcune telefonate. Due uomini che si identificarono come Mario e Pierluigi dissero di avere visto Emanuela. Mario disse anche che Emanuela si era allontanata volontariamente da casa. Le telefonate furono considerate inattendibili.
Un vigile urbano e un poliziotto dissero di aver visto una ragazza che pensavano potesse essere Orlandi parlare con un uomo vicino al Senato, secondo il poliziotto arrivato a bordo di una BMW di colore verde. Un agente dei servizi segreti amico della famiglia Orlandi sostenne di aver scoperto negli anni successivi che la BMW di cui parlavano i due testimoni sarebbe stata poi portata in un’officina di piazza Vescovio da una donna, che però poi si sarebbe rifiutata di collaborare. Anche questa è una storia piuttosto nebulosa, mai chiarita e soprattutto priva di verifiche.
Il 3 luglio del 1983, durante l’Angelus domenicale, papa Giovanni Paolo II rivolse un appello ai responsabili della scomparsa di Emanuela Orlandi come se fosse un dato certo che la ragazza fosse vittima di un rapimento. Non c’era però alcun riscontro investigativo in quel senso. Da quel giorno Giovanni Paolo II fece in totale otto appelli per la liberazione di Orlandi.
Margherita Gerunda, la magistrata che indagò inizialmente sulla scomparsa, era convinta che Emanuela Orlandi fosse stata attirata da qualcuno, quindi rapita, violentata e uccisa o che comunque morì per le violenze subite. Gerunda è sempre rimasta convinta di questa versione, in base alla quale solo in un secondo momento qualcuno approfittò del clamore del caso di cronaca per inserire il rapimento in un contesto di complotti internazionali e scontri tra l’allora blocco occidentale e quello sovietico, in piena Guerra fredda.
Gerunda fu sostituita e non si è mai compreso il motivo di quella scelta. Arrivò un altro magistrato, Domenico Sica, esperto di terrorismo internazionale che infatti orientò le indagini verso le ipotesi di un complotto internazionale.
A casa Orlandi e a un numero messo a disposizione dalla segreteria vaticana iniziarono ad arrivare telefonate di una persona che i giornali identificarono come “l’Amerikano”, perché aveva un accento anglosassone. L’uomo chiese che in cambio della liberazione di Orlandi venisse liberato Mehmet Ali Agca, l’uomo di cittadinanza turca che il 13 maggio del 1981 aveva sparato a papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. Chi telefonava fissò anche un termine: lo scambio doveva avvenire entro il 20 luglio. In 16 telefonate il cosiddetto “Amerikano” non fornì mai una prova del fatto che Emanuela Orlandi fosse realmente con lui, e non diede neanche, come avviene di solito in casi come questo, una prova dell’esistenza in vita della persona rapita.
Anzi, a domande specifiche della famiglia, l’uomo cadde in evidenti contraddizioni. Inoltre, nessuno poteva realmente pensare che potesse essere liberato l’attentatore che due anni prima aveva sparato al Papa, un atto gravissimo e senza precedenti.
Il 17 luglio del 1983 su indicazione di presunti rapitori venne fatta trovare un’audiocassetta in cui si sentivano i lamenti di una ragazza. Gli inquirenti sostennero che si trattava però di uno spezzone audio estratto da un film pornografico.
Le telefonate dell’“Amerikano” furono in tutto 16 e poi cessarono. Quindi iniziarono ad arrivare i comunicati di un gruppo, il Fronte di liberazione turco anticristiano Turkesh che chiedeva anch’esso la liberazione di Ali Agca. Anche in quel caso non fu mai presentata una prova che Orlandi fosse viva e tenuta prigioniera dal gruppo.
Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 Günther Bohnsack, un ex colonnello della Stasi, spiegò in parte l’origine del coinvolgimento del gruppo Turkesh. La Stasi era la polizia segreta della Germania Est (all’epoca la Germania era divisa in due, e la parte orientale era alleata dell’Unione Sovietica). Bohnsack spiegò che i comunicati del gruppo Turkesh erano stati diffusi dal servizio segreto per allontanare l’ipotesi che i mandanti dell’attentato a Giovanni Paolo II fossero servizi segreti di paesi dell’Europa orientale, in particolare quelli bulgari. La Stasi, addossando la responsabilità della scomparsa di Orlandi a un gruppo terrorista turco, voleva anche allontanare il sospetto, diffuso invece da parte occidentale, che il sequestro fosse da attribuire a servizi di spionaggio di un paese comunista. Bohnsack affermò che l’ordine di effettuare il depistaggio era venuto dal servizio segreto sovietico, il KGB.
Ci furono anche telefonate da parte dell’organizzazione turca di estrema destra dei Lupi Grigi, di cui faceva parte Ali Agca, che disse di avere rapito anche un’altra ragazza, Mirella Gregori, scomparsa a Roma il 7 maggio del 1983 poche settimane prima della scomparsa di Orlandi. La madre di Gregori, due anni dopo, durante una visita del Papa nella parrocchia romana di San Giuseppe, riconobbe in un agente della Gendarmeria vaticana della scorta un uomo che a suo dire si intratteneva spesso con la figlia. Anche le indagini sulla sparizione di Gregori, così come quelle sulla scomparsa di Orlandi, non hanno mai ottenuto risultati concreti.
L’11 luglio del 2005, 22 anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, un uomo telefonò alla trasmissione Chi l’ha visto? dicendo che per capire la scomparsa di Orlandi bisognava verificare chi fosse sepolto in una tomba nella basilica di Sant’Apollinare e «controllare il favore che Renatino fece al cardinale Poletti». Il Cardinale Ugo Poletti fu arciprete della basilica di San Giovanni in Laterano e poi, dal 1985, presidente della Conferenza episcopale italiana. Renatino era il soprannome di Enrico De Pedis, personaggio importante della banda della Magliana, gruppo criminale romano molto attivo tra gli anni Settanta, Ottanta e primi Novanta. La banda della Magliana era in realtà costituita da più bande di vari quartieri che strinsero un patto di non belligeranza e si unirono per alcune operazioni criminali. Non era quindi una banda strutturata nel vero senso della parola e non aveva un capo unico.
De Pedis era sicuramente un personaggio importante all’interno della criminalità romana ed era stato in effetti sepolto nella basilica di Sant’Apollinare. La notizia era però nota già da due anni, quando era stata pubblicata dal Messaggero. De Pedis negli ultimi anni della sua vita, prima di essere assassinato, aveva tentato di ripulire la sua immagine, per cui aveva anche fatto donazioni alla Chiesa ottenendo l’assicurazione di essere sepolto nella basilica. Vennero riesumati i resti di De Pedis, che oggi non sono più nella basilica, seguendo l’ipotesi che lì potessero esserci anche quelli di Orlandi. Non fu trovato nulla che potesse interessare all’indagine. È anche difficilmente ipotizzabile che alti esponenti vaticani avessero comprato il segreto di De Pedis garantendogli la sepoltura nella basilica attirando così, di fatto, le attenzioni e non allontanandole.
In ogni caso anche la morte di De Pedis venne collegata in qualche modo al caso Orlandi. Le indagini indicarono che a sparare fu un ex esponente della banda e che il delitto fosse stata una vendetta decisa negli ambienti della criminalità romana. Secondo ipotesi giornalistiche mai confermate, De Pedis potrebbe essere stato invece ucciso dai servizi segreti italiani perché a conoscenza di troppi segreti.
Nel 2006 Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano poi divenuta compagna di De Pedis, fece alcune dichiarazioni ai magistrati della procura di Roma. Minardi disse di aver assistito la sera del 22 giugno del 1983 al trasferimento di Orlandi da una BMW verde guidata da un uomo all’auto di De Pedis. Minardi disse che Orlandi venne poi spostata in varie case sempre custodita da Daniela Nobili, compagna di Danilo Abbruciati, altro esponente della banda. Nobili ha sempre negato di conoscere Sabrina Minardi. Nella cantina della casa indicata da Minardi come una di quelle dove venne imprigionata la ragazza non fu trovato, forse anche per i tanti anni trascorsi, alcun riscontro.
Minardi disse che Orlandi era stata rapita per conto di Paul Marcinkus, presidente dello Ior, «per mandare un messaggio a qualcuno». Non disse però chi potesse essere questo qualcuno. Disse anche che Orlandi fu uccisa da De Pedis e il suo corpo gettato in una betoniera a Torvaianica, sul litorale romano, assieme a quello di un bambino, Domenico Nicitra, figlio di un esponente della banda che doveva essere punito per un presunto tradimento. Nicitra fu però rapito nel 1993, ben dieci anni dopo la data a cui Minardi faceva risalire l’omicidio Orlandi. Inoltre quando il bambino fu rapito e ucciso De Pedis era morto già da tre anni.
Un altro esponente della banda, Antonio Mancini, disse di aver saputo in carcere che la banda era coinvolta nel sequestro Orlandi. Mancini disse che la ragazza venne rapita per fare pressioni sul Vaticano affinché restituisse grosse somme di denaro che la banda della Magliana aveva prestato allo Ior attraverso il Banco Ambrosiano. Anche Maurizio Abbatino, altro criminale romano, disse che De Pedis rapì la ragazza nell’ambito di non meglio chiariti rapporti con alti prelati vaticani. Nessuna di queste dichiarazioni ha mai trovato riscontri. Alessandro Diddi, procuratore vaticano che ha riaperto l’inchiesta, ha detto: «Temo che il ruolo della banda della Magliana in questa vicenda sia stato molto sopravvalutato, anche se esistono alcune evidenze».
C’è un altro personaggio che negli anni ha fatto presunte rivelazioni sul caso Orlandi: il fotografo romano Marco Accetti. Nel 2015 Accetti fece trovare alla procura di Roma un flauto dicendo che era quello di Emanuela Orlandi. La famiglia Orlandi disse che in effetti quel flauto poteva essere quello di Emanuela ma, come ha spiegato al Post Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, «non c’è mai stata una prova concreta che si trattasse in effetti di quello strumento. Purtroppo il DNA presente era troppo esiguo per poter arrivare a qualsiasi conclusione».
Il nome di Accetti era già noto alla procura romana: il 20 dicembre del 1983 un bambino di undici anni, figlio di un diplomatico uruguayano, uscito dalla sua casa all’Eur per andare dal barbiere, venne trovato morto nella pineta di Castel Porziano, a Ostia, a venti chilometri da casa. Sul posto venne fermato un uomo: era Accetti. Disse all’epoca: «Il bambino l’ho ucciso io, l’ho investito accidentalmente». Accetti venne condannato a un anno per omicidio colposo. La madre del bambino commissionò un’indagine a un detective privato e si convinse che suo figlio fosse in realtà stato rapito e ucciso e che Accetti avesse avuto un ruolo nella vicenda.
Accetti si autodenunciò dicendo di aver partecipato al rapimento Orlandi, e disse che il sequestro era avvenuto nel corso di uno scontro tra due fazioni avverse presenti allora in Vaticano. Da una parte c’era la fazione di cui diceva di aver fatto parte lo stesso Accetti, e che voleva esercitare pressioni su Giovanni Paolo II affinché abbandonasse la sua politica anticomunista e di sostegno ai movimenti antisovietici come Solidarność. Dall’altra parte c’era la fazione che invece sosteneva il Papa nella battaglia contro il blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica.
Accetti sostenne anche che la fazione anticomunista, in risposta al sequestro Orlandi, aveva ucciso Katty Skerl, studentessa di un liceo artistico e figlia di un regista svedese. La ragazza, che aveva 17 anni, era iscritta alla federazione giovanile comunista ed era una militante femminista. Il 21 gennaio del 1984 Skerl era uscita di casa con un borsone per andare a una festa. Venne ritrovata il giorno dopo in una vigna di Grottaferrata: era stata strangolata prima con un filo di ferro e poi con la cinghia del suo borsone. Secondo i risultati dell’autopsia era stata spinta a terra a faccia in giù e tenuta ferma con un ginocchio sulla schiena con una forza tale da sfondarle alcune costole. Venne esclusa la violenza sessuale.
Accetti sostenne che il rapimento di Orlandi era collegato all’omicidio di Skerl, tuttora irrisolto. A conferma delle sue dichiarazioni disse che la tomba di Skerl era vuota e che all’interno del loculo, una volta aperto, sarebbe stata trovata solo una maniglia d’ottone con inciso un angelo. Allora Accetti non venne creduto: le verifiche sulla tomba di Skerl nel cimitero del Verano non furono fatte. Sono state compiute però a sette anni di distanza, nel 2022, quando la famiglia ha chiesto di poter spostare il corpo della ragazza. La cassa di legno con la salma della ragazza era effettivamente sparita e nel loculo è stata ritrovata solo una maniglia.
Nel 2015 il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, si convinse che Accetti era inattendibile e chiese e ottenne dal giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del fascicolo di indagine. Alla decisione si oppose il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Nemmeno lui riteneva attendibile Accetti per quanto riguardava la storia dello scontro in Vaticano, ma credeva che si dovesse continuare a indagare in particolare modo sulla figura di Accetti, ritenuta ambigua.
Ci sono altre ipotesi fatte in questi anni. Il giornalista Pino Nicotri ha sostenuto a più riprese che Orlandi morì durante un “incontro” nella residenza di un importante prelato e che il corpo venne poi occultato. In base a questa teoria, tutte le piste internazionali e criminali, compresa quella della banda della Magliana, furono solo depistaggi: ci sono molti punti in comune con l’ipotesi formulata della magistrata che per prima seguì il caso, Gerunda.
Un’altra teoria sostiene che Orlandi fu in effetti vittima di violenza da parte di un uomo, che fu uccisa e che il suo corpo venne fatto sparire. Il fatto che fosse cittadina vaticana fu utilizzato poi nello scontro tra Vaticano e regimi comunisti per indirizzare i sospetti. Allo stesso modo alcuni servizi segreti di paesi dell’Est Europa tentarono di coinvolgere nel caso la CIA, il servizio segreto americano che opera all’estero.
Nel 2019 la famiglia Orlandi ricevette segnalazioni secondo cui i resti di Emanuela erano stati sepolti in due tombe nel cimitero Teutonico, adiacente al Vaticano. Le tombe vennero aperte ma non fu trovato nulla che conducesse a lei. Un anno prima erano state analizzate alcune ossa rinvenute nella Nunziatura vaticana (cioè l’ambasciata) a Roma durante alcuni scavi, ma anche in quel caso non fu individuato nessun riscontro.
Nell’aprile del 2023 Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha detto di essere entrato in possesso di una lettera scritta nel 1993 dall’allora arcivescovo di Canterbury, George Carey, indirizzata al cardinale Ugo Poletti: c’era scritto che i due dovevano «discutere personalmente la situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza». Carey sostiene di non aver mai scritto quella lettera, che sarebbe quindi un falso.
Pietro Orlandi, parlando di quella lettera, ha detto che la pista secondo cui Emanuela Orlandi sia stata portata a Londra e lì nascosta dopo il rapimento non dovrebbe essere abbandonata. Orlandi si riferisce a una pista indicata nel 2017 dal giornalista Emiliano Fittipaldi, ora direttore di Domani. Il giornalista era entrato in possesso di carte che sembravano firmate dal cardinale Lorenzo Antonetti, al tempo (parliamo del 1998) capo dell’APSA, l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica. Fittipaldi in un’intervista disse che in quelle carte si parlava «delle spese sostenute per mantenere la Orlandi a Londra. Da una serie di indirizzi si capisce, o quantomeno si vuole far credere, che la ragazza sia stata a Londra fino al 2008». Del documento non è stata provata l’autenticità.
La presunta lettera di Carey, così come altri documenti, sono stati consegnati da Pietro Orlandi al procuratore vaticano Diddi, che condivide le informazioni con la procura di Roma. L’obiettivo delle inchieste è riuscire a capire tra tante piste, depistaggi e millantatori se ci sia in effetti qualcosa di concreto che possa portare, 40 anni dopo, a una soluzione del caso.