Il giocatore dimenticato di un’annata memorabile per il basket NBA
Al draft di vent’anni fa il diciottenne Darko Milicic fu scelto dopo LeBron James e prima di Dwyane Wade e Carmelo Anthony: ancora oggi ci si domanda perché
di Pietro Cabrio
L’annuale draft del campionato di basket NBA, cioè l’evento in cui le trenta squadre selezionano a turno i migliori giocatori provenienti dai college e dall’estero, è in programma nella notte tra giovedì e venerdì. L’edizione di quest’anno è molto attesa perché fra le tante promesse che verranno scelte c’è un diciannovenne francese descritto come uno di quei talenti generazionali che capitano raramente, Victor Wembanyama. E a rendere ancora più suggestivo il draft di quest’anno c’è anche una ricorrenza piuttosto simbolica: il 26 giugno di vent’anni fa si tenne infatti una storica edizione dell’evento che contribuì a far diventare il basket NBA quello che è oggi.
I primi giocatori scelti al Madison Square Garden di New York quel 26 giugno furono LeBron James, Carmelo Anthony, Chris Bosh e Dwyane Wade. Il primo è uno dei più grandi atleti di sempre: a 38 anni è il leader dei Los Angeles Lakers, in questa stagione è diventato il miglior marcatore nella storia della NBA e sta ancora cercando di aggiungere un ultimo titolo ai quattro vinti finora. Di questi quattro, due li ha ottenuti a Miami con Bosh e Wade, due giocatori inseriti nella hall of fame del basket, cioè fra i migliori di sempre, nonostante non si siano ritirati da molto. L’altro, Anthony, è il nono marcatore nella storia della lega e ha da poco annunciato il suo ritiro.
Il draft del 2003 fu qualcosa di irripetibile, per concentrazione di talenti e per l’impatto che ebbe fin da subito nel campionato. Il successo ottenuto da quei quattro giocatori ha però fatto dimenticare che, subito dopo LeBron James, la seconda scelta di quel draft fu un allora sconosciuto diciottenne serbo, Darko Milicic, che negli Stati Uniti ebbe un’esperienza così sfortunata e deludente da essere ritenuto ancora oggi uno dei più grandi fiaschi del campionato, se non il più grande.
Milicic veniva da Novi Sad, la seconda città della Serbia, e a dieci anni era rimasto orfano del padre, rimasto ucciso durante le guerre jugoslave. Non era mai stato particolarmente attratto dal basket, ma vi fu indirizzato per via delle sue dimensioni e per la grande tradizione cestistica del paese. A quattordici anni andò a giocare per la squadra di Vrsac, un piccolo centro abitato all’epoca al vertice di quel che era rimasto del campionato jugoslavo, cioè serbo e montenegrino. Ci rimase tre anni, giocando come centro e senza vincere nulla di particolare, prima di essere dichiarato selezionabile, da minorenne, per il draft NBA.
All’epoca i Detroit Pistons erano fra le migliori squadre del campionato, eppure nel 2003 si ritrovarono stranamente con la seconda scelta al draft, peraltro in un anno in cui tutte le squadre avrebbero voluto essere in cima all’ordine di chiamata. La situazione dei Pistons fu strana perché anche all’epoca il draft premiava le squadre meno competitive concedendo loro le prime scelte, in modo da riequilibrare il campionato e distribuire omogeneamente i nuovi giocatori. I Pistons tuttavia ebbero la fortuna di guadagnarsi la seconda chiamata, nonostante avessero sfiorato le finali nella stagione precedente, grazie a una serie di concatenazioni nate da uno scambio fatto sei anni prima con i Vancouver Grizzlies.
Milicic, che all’epoca già superava i 2 metri e 10 centimetri di altezza, era talmente consigliato negli ambienti del basket professionistico che le regole del draft vennero cambiate appositamente per lui, dato che al momento delle prime procedure non aveva ancora compiuto diciotto anni. Secondo pareri piuttosto condivisi, tuttavia, Milicic non sarebbe mai dovuto arrivare in NBA in quel modo, e se invece andò a finire così fu anche per via dell’entusiasmo che l’impatto avuto dal tedesco Dirk Nowitzki al suo arrivo ai Dallas Mavericks aveva generato nei confronti del basket europeo, in particolare verso certi tipi di giocatori.
Quell’anno i Pistons, che avevano già una squadra completa e molto competitiva, decisero di aggiungere un talento alla rotazione dei titolari e preferirono Milicic a giocatori considerati più pronti come Anthony, Wade e Bosh (se non altro perché cresciuti nel sistema scolastico americano). Dal lato sportivo la scelta dei Pistons di puntare su un giovane da formare per il futuro ebbe senso, dato che con la squadra costruita in precedenza giocarono due finali consecutive, e vinsero la prima battendo i Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. Ma per Milicic quella situazione si rivelò un ostacolo che, unito ad altri fattori, contribuì in modo decisivo al fallimento della sua carriera.
Nella sua prima stagione giocò meno di 5 minuti a partita nelle 34 in cui fu mandato in campo, e in una di queste si ruppe anche una mano. Vide la squadra vincere il titolo del 2004 dalla panchina e nei due anni successivi non superò mai le 37 partite stagionali, per una media di gioco inferiore ai 7 minuti a partita. Questo scarso utilizzo ebbe presto effetti psicologici su di lui, come raccontò nel 2020 in una lunga intervista concessa a ESPN. Accusò sintomi depressivi che sfogò inizialmente con scatti d’ira, alcolismo e in generale una mancanza di disciplina invece indispensabile per poter essere un atleta di alto livello.
Questi problemi se li portò dietro a lungo e di fatto gli impedirono sia di correggere le sue abitudini che di migliorare come cestista: alcuni suoi errori, spesso incomprensibili, girano ancora online da allora. Fu sempre ritenuto fisicamente poco adatto allo stile di gioco della NBA, lento per sostenere i suoi ritmi di gioco e troppo poco aggressivo in campo. Così nel 2006 i Pistons decisero di cederlo: ancora oggi ci si domanda che cosa sarebbero potuti diventare se tre anni prima avessero scelto un altro giocatore tra i più quotati di quel draft.
Nei successivi sette anni, cinque squadre, dai New York Knicks ai Boston Celtics, provarono a tirar fuori qualcosa di buono da Milicic, ma anche se il suo utilizzo aumentò notevolmente, i risultati non arrivarono mai. «A Boston tutti cercavano di trovare un modo per trattenermi. Ma ero arrivato a odiare veramente il basket. Volevo solo tornare a casa e vivere un’altra vita» ha raccontato di recente. Il 17 novembre del 2012, poco prima di una partita, andò nell’ufficio del suo allenatore, Doc Rivers, e gli disse che sarebbe tornato in Serbia quel giorno stesso, e così disse anche al resto della squadra. I Celtics giustificarono il suo ritorno in Serbia per motivi familiari, ma poi tutti vennero a sapere che Milicic aveva di fatto smesso di giocare a basket.
In dieci anni di NBA tenne una media di 18 minuti e 6 punti a partita, ma guadagnò anche circa 52 milioni di dollari, una somma che in Serbia «potrebbe bastare per duecento anni», come ha detto a ESPN. Una volta tornato a Novi Sad ed essersi dato brevemente al kickboxing, con quei soldi ha avviato un’attività agroalimentare con cui ora possiede estese coltivazioni tra Serbia, Russia e alcuni paesi africani. Ogni tanto lo si vede anche spuntare tra i tifosi della Stella Rossa Belgrado, la squadra di calcio per cui tifa, come accadde qualche anno fa nel settore ospiti dell’Emirates Stadium di Londra per una partita di coppa.
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