Le Zone Economiche Speciali nel Sud Italia stanno diventando operative
Sono nate nel 2017 per promuovere lo sviluppo economico di alcuni territori, ma ci sono ancora molte incertezze
di Mariasole Lisciandro
Nel 2017 il governo di Paolo Gentiloni istituì le cosiddette Zone Economiche Speciali (ZES), ossia aree che in genere hanno una legislazione economica differente e agevolata rispetto a quella in vigore nel resto del paese: l’obiettivo era di attrarre investimenti e rilanciare l’economia. Le ZES sono tantissime in tutto il mondo e, con le opportune differenze, in molti casi hanno avuto successo: quelle più famose e studiate sono in Polonia e in Cina, dove hanno sostenuto la crescita e lo sviluppo di interi distretti.
Le ZES in Italia sono otto e sono tutte al Sud. Ognuna di esse ha un commissario straordinario che garantisce procedure amministrative semplificate per favorire l’attività imprenditoriale e che risponde direttamente al ministero per gli Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR. Secondo gli esperti lo strumento è promettente e dopo anni le ZES sembrano diventate più o meno operative, e stanno cominciando a offrire certi vantaggi per le imprese dei territori. Manca però un complessivo disegno di politica industriale per lo sviluppo vero dei territori: il rischio è che le ZES serviranno solo a dare agevolazioni fiscali e autorizzazioni più veloci, ma che non siano un reale punto di partenza per lo sviluppo di distretti industriali.
La creazione di zone economiche speciali per favorire lo sviluppo di certi territori esiste da tempo in tutto il mondo. Solitamente le ZES prevedono regole amministrative semplificate per accelerare gli investimenti e gli appalti, oltre che una serie di incentivi e sgravi fiscali per le aziende che intendono investire sul territorio, a prescindere che siano già operative o che si debbano ancora insediare. Seppur con risultati molto diversi e a volte di difficile misurazione le ZES si sono affermate come laboratori per l’attrazione degli investimenti e come incubatori di innovazione.
Secondo i dati della Fondazione Ambrosetti più del 40 per cento delle oltre 4 mila ZES presenti nel mondo si trova in Asia. In Cina le ZES contribuiscono al 22 per cento del Prodotto Interno Lordo, attirano quasi la metà di tutti gli investimenti esteri e generano il 60 per cento delle esportazioni. Uno degli esempi più studiati è quello della ZES di Shenzhen: è stata la prima istituita in Cina e risale agli anni Ottanta. Da allora ha attratto principalmente imprese manifatturiere specializzate nella produzione di beni di esportazione, approfittando anche della vicinanza con la città portuale di Hong Kong. Nato come villaggio di pescatori, oggi Shenzen è una megalopoli e una delle città più ricche della Cina, e questo sviluppo è in buona parte attribuito alla creazione di una ZES sul suo territorio.
In Europa il paese che conta il numero maggiore di ZES è la Polonia, che ne ha 14. Negli anni le ZES polacche hanno attratto centinaia di miliardi di euro di investimenti, hanno creato oltre 280 mila nuovi posti di lavoro, di cui la metà sono stati mantenuti. In queste aree il tasso di disoccupazione è tra 1,5 e 2,9 punti percentuali inferiore rispetto a quello nazionale. Proprio per i risultati concreti che hanno portato all’economia locale il governo polacco ha deciso di estendere la vita delle ZES, che dovevano cessare di esistere nel 2020, ma che invece resteranno operative almeno fino al 2026.
In Italia le ZES sono state formalmente istituite nel 2017. La legge italiana prevede che le ZES debbano avere almeno un grosso porto già connesso alla rete transeuropea dei trasporti e che possano includere anche territori non perfettamente adiacenti ma che abbiano un legame economico funzionale. L’intuizione dietro all’istituzione delle ZES italiane vicino a dei grossi porti è stata quella di «provare a valorizzare la posizione mediterranea del Mezzogiorno, identificando nei porti e nella logistica il luogo in cui sperimentare una politica di attrazione degli investimenti» spiega Luca Bianchi, direttore dello Svimez, un’organizzazione che studia le tendenze economiche del Sud Italia
In queste aree le aziende già operative e quelle che si insedieranno possono beneficiare di speciali condizioni legate agli investimenti aggiuntivi che porteranno sul territorio: le regole amministrative e burocratiche per le autorizzazioni sono più snelle e consentono di ottenere i permessi necessari in un tempo relativamente breve; in più potranno beneficiare di crediti di imposta, ossia di sconti fiscali.
Ogni ZES ha un cosiddetto Comitato di Indirizzo, presieduto da un Commissario straordinario indicato dal governo. Al Sud ne sono state istituite 8: Campania, Calabria, Ionica (Puglia-Basilicata), Adriatica (Puglia-Molise), Sardegna, Abruzzo, Sicilia Orientale e Sicilia Occidentale.
Le ZES sono argomento di discussione da anni. Nonostante a livello formale esistano dal 2017, sono diventate operative solo dal 2022. Spiega Bianchi che «il percorso attuativo è stato molto complesso e anche piuttosto lento». Il motivo principale è che ci sono state «modifiche normative subentrate nel tempo e difficoltà di attuazione», che hanno rallentato di molto le cose.
Dopo anni di lungaggini, tra il 2021 e il 2022 il governo di Mario Draghi ha effettivamente reso operative le ZES ridefinendo i poteri dei commissari, aumentando quelli autorizzativi e dotandoli di una struttura tecnica a supporto. In più dall’estate 2022 è operativo per ogni ZES uno “sportello unico” online a cui le imprese possono fare domanda per ottenere autorizzazioni rapide ai nuovi investimenti. Le autorizzazioni sono tipicamente di carattere urbanistico e ambientale e «mentre prima ci volevano sei mesi per ottenere tutte le autorizzazioni dai vari soggetti della pubblica amministrazione, oggi ci vuole solo qualche settimana per ottenerne una unica da un solo soggetto, ossia dal Commissario ZES», spiega Giuseppe Romano, Commissario straordinario per le ZES di Campania e Calabria.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha destinato 630 milioni di euro per interventi infrastrutturali nelle ZES, volti a collegare queste aree alla rete nazionale dei trasporti e alle reti transeuropee, e 1,2 miliardi per l’ammodernamento e il potenziamento dei porti del Sud che ricadono al loro interno.
Oggi tutte le ZES «cominciano a essere operative, anche se gli sportelli per le autorizzazioni hanno cominciato a funzionare in maniera abbastanza variegata nel territorio» spiega Bianchi. Secondo quanto raccontato dai funzionari sentiti dal Post le differenze sono principalmente dovute al fatto che alcune ZES sono diventate pienamente operative prima di altre e alla differenza di dimensioni dei territori.
Le prime ZES a diventare operative sono state Campania e Calabria: secondo i dati Svimez a marzo 2022 il 68 per cento degli investimenti autorizzati era concentrato nella sola Campania e il 15 in Calabria.
La ZES Campania resta quella più avanti in questo senso: nel complesso ha autorizzato circa 1 miliardo di euro di investimenti, di cui solo 400 milioni da quando esiste lo sportello unico, che ha consentito l’autorizzazione relativamente veloce di 30 domande. In più, con i poteri speciali attribuiti al Commissario, la ZES Campania ha avuto anche un ruolo attivo nella risoluzione della crisi industriale del sito produttivo di Whirlpool a Napoli, riconvertito a produttore di pannelli fotovoltaici.
Le altre zone hanno conseguito finora risultati di dimensioni più ridotte: per esempio la ZES Calabria ha rilasciato 4 autorizzazioni uniche per un valore complessivo di 40 milioni di euro, la ZES Ionica (che comprende territori tra Basilicata e Puglia) ne ha rilasciate 10 per un valore di circa 35 milioni tra quelli autorizzati e in istruttoria, la ZES Sardegna ne ha rilasciate 7 a fronte di richieste per 340 milioni di euro di possibili investimenti, la ZES Adriatica ha approvato circa un terzo delle 113 istanze presentate con un valore potenziale di investimenti fino a 1 miliardo e la ZES Abruzzo ne ha rilasciate 3 per un valore complessivo di 28 milioni di euro. Ci sono poi altri investimenti che non richiedono questo tipo di autorizzazioni e che per questo non sono ancora stati conteggiati.
In generale però, a prescindere dai risultati conseguiti dalle diverse ZES che appunto dipendono da vari fattori, tutti i funzionari sentiti dal Post raccontano che uno dei risultati più importanti delle ZES è di tipo più immateriale e ha a che fare con il fatto di essere il punto di riferimento unico degli imprenditori del territorio e degli investitori che intendono avviare nuovi progetti. «È la rappresentazione plastica della semplificazione burocratica e dell’incarnare in un unico soggetto ruoli che prima erano di svariate persone e quindi la possibilità di dirimere le vicende in tempi più ridotti», spiega il commissario Romano. Cosa che poi si riflette anche sulla gestione dei bandi del PNRR di competenza delle ZES, che sono in gran parte a buon punto: quasi tutti banditi e in gran parte aggiudicati o in corso di aggiudicazione.
Una criticità rilevata dai funzionari sentiti dal Post riguarda però la cosiddetta “perimetrazione” delle ZES, ossia la definizione dei confini entro cui valgono le condizioni fiscali agevolate e le regole amministrative semplificate. Sono il risultato di un lavoro fatto dalle Regioni al momento di istituzione delle ZES e che talvolta comprende un tessuto economico anche molto cambiato in questi anni: è possibile che siano stati comprese nelle ZES territori con aziende che non hanno più modo di investire e che siano state escluse invece realtà che vorrebbero fare investimenti aggiuntivi e che però non possono usufruire delle condizioni agevolate. Le ZES stanno aspettando da tempo un Dpcm – un decreto della presidenza del consiglio dei ministri – che dia ai commissari un potere di riperimetrazione per tenere conto di questi cambiamenti: il decreto è stato approvato in Conferenza Stato-Regioni quando c’era ancora il governo Draghi, poi non se n’è saputo più nulla.
Il Commissario della ZES Sardegna Aldo Cadau sostiene che uno «strumento flessibile e funzionale alla perimetrazione permetterebbe una politica industriale a vantaggio dei territori», consentendo di includere anche quelle realtà che oggi sono interessate a investire ma che sono escluse dal perimetro della ZES.
Secondo il direttore dello Svimez Luca Bianchi però allargare troppo le ZES potrebbe essere controproducente perché rischierebbe di «snaturarne l’obiettivo principale, che era quello di attrazione degli investimenti, mentre alla fine è prevalso l’elemento di vantaggio fiscale per le imprese esistenti». Il rischio sarebbe quindi quello di perdere di vista il ragionamento di politica industriale che è stato fatto nel momento in cui le aree sono state definite: sono state incluse nella stessa ZES aree con un profilo economico simile, che avessero la possibilità di evolvere quasi in un distretto specializzato.
Secondo Bianchi «quello che ancora manca è una sorta di specializzazione delle ZES, a seconda di quali sono le imprese sul territorio e di qual è il potenziale di quel territorio. Bisognerebbe fare politica industriale in una logica un po’ distrettuale, le ZES non possono solo servire a ottenere sconti fiscali e semplificazione».
Ragionamenti di politica industriale secondo Bianchi mancano anche sotto il profilo del coordinamento nazionale tra i diversi commissari: bisognerebbe che le ZES diventassero il punto di inizio per lo sviluppo di tanti distretti specializzati in cose diverse, a seconda delle specificità dei territori, ed evitare che ci sia concorrenza tra le diverse ZES.