Negli Stati Uniti le squadre continuano a cambiare città
È una prassi per lo sport nordamericano, ma di recente sta creando parecchi problemi: ora potrebbe spostarsi la squadra di "Moneyball", che è stata lasciata allo sbando
di Pietro Cabrio
Fino a pochi anni fa a Oakland, l’ottava città della California, che sta nella parte interna della baia di San Francisco, c’erano tre grandi squadre che mettevano insieme 18 titoli nazionali: 6 con i Golden State Warriors nel basket, 3 con i Raiders nel football americano e 9 con gli Athletics nel baseball. La città stessa, da sempre all’ombra di San Francisco, ma anche delle altre grandi città californiane, doveva gran parte della sua notorietà alle sue tre squadre, vincenti e molto presenti nella cultura sportiva americana, per tanti motivi.
Da due anni però a Oakland ci sono rimasti soltanto gli Athletics, e probabilmente ancora per poco. I Warriors hanno sfruttato il periodo più vincente della loro storia per spostarsi definitivamente dall’altra parte della baia, nella più ricca San Francisco, mentre i Raiders hanno scelto di rilanciarsi a Las Vegas. E anche gli Athletics sono in trattative avanzate per spostarsi a Las Vegas, città che sta mettendo a disposizione strutture e soldi pubblici per diventare un nuovo centro dello sport nordamericano.
La scomparsa dello sport professionistico a Oakland è strettamente collegata al periodo di difficili cambiamenti che sta vivendo la città. Da anni è infatti alle prese con seri problemi economici e sociali, comuni anche ad altri centri in quella zona degli Stati Uniti al centro della grande espansione del settore tecnologico degli anni Duemila. Oakland è diventata una delle aree più diseguali, invivibili e costose del paese, e si è trovata a gestire nel giro di pochi anni tante emergenze una dopo l’altra: la chiusura delle piccole attività commerciali, i senzatetto, le periferie degradate.
In tutto questo, le strutture sportive della città, già fra le più vecchie in uso, avrebbero avuto bisogno di nuovi investimenti. Ma l’amministrazione locale, alle prese con problemi piuttosto seri ed economicamente in difficoltà, non ha potuto collaborare. Così le proprietà hanno deciso una dopo l’altra di cambiare città per rilanciarsi in mercati più invitanti, e soprattutto disponibili a sostenerle.
Il trasferimento delle squadre professionistiche è una delle due grandi differenze tra lo sport nordamericano e quello europeo. L’altra è l’assenza di promozioni e retrocessioni, e le due cose sono strettamente collegate fra loro. Per ciascuno sport principale (basket, football, hockey, baseball, calcio) esiste soltanto un vero campionato professionistico, con un numero chiuso di partecipanti che va da un minimo di 29 a un massimo di 32. In questi campionati si concentrano quindi le proprietà più ricche, le città più grandi o quelle in cui la tradizione sportiva è maggiore, in modo da massimizzare richieste, interesse e quindi ricavi.
A ciascuna di queste squadre corrisponde una sorta di licenza che le riconosce come tali e che non è strettamente collegata al luogo in cui hanno sede (un po’ come i titoli sportivi in Italia, ossia i diritti a partecipare a determinati campionati). Per questo negli Stati Uniti si parla di attività in franchise, cioè attività date in concessione a privati dai rispettivi campionati di riferimento, un po’ come succede per le singole attività locali delle grandi catene di ristorazione. È per questo che in Italia, per indicare le squadre americane, si usa spesso il termine “franchigie”, il cui significato reale è però diverso da quello inteso in America.
Le squadre dipendono esclusivamente dalle loro proprietà, ma queste a loro volta fanno capo ai rispettivi campionati in modo molto più stringente e vincolante di quanto non succeda in Europa. I campionati impongono limiti di spesa comuni e contratti standard per tutti, ma si possono spingere molto più in là: possono arrivare anche a espropriare una squadra in casi di violazioni ritenute particolarmente gravi, o decidere se concedere o meno il trasferimento di città.
In genere un trasferimento viene approvato se ritenuto di beneficio a tutto il campionato. Il caso più famoso ed emblematico è ancora quello dei Brooklyn Dodgers e dei New York Giants, due storiche squadre di baseball newyorkesi che nel 1958 vennero entrambe trasferite con grande stupore dall’altra parte del paese, in California: i Dodgers — la squadra di Jackie Robinson — a Los Angeles e i Giants a San Francisco. All’epoca i dirigenti del baseball ritennero che il trasferimento di due squadre così importanti avrebbe fatto diventare la Major League un vero campionato nazionale, dato che fino all’anno prima non esistevano squadre più a ovest di Kansas City. E a occupare il mercato newyorkese sarebbero rimasti comunque i già famosissimi Yankees, con le loro storiche rivalità sulla costa orientale (e poi sarebbero arrivati i Mets).
La storia e l’evoluzione della Major League premiò quella scelta, che trainò l’espansione del campionato dalle 16 alle attuali 30 partecipanti. E sia a Los Angeles che a San Francisco, Dodgers e Giants continuarono ad essere due delle maggiori squadre del campionato, nonché delle vere e proprie istituzioni locali. Da allora i trasferimenti sono diventati una consuetudine: già nel 1996, delle 113 squadre professionistiche presenti all’epoca in Nord America 25 si erano trasferite almeno una volta dopo il 1950.
Quando questi trasferimenti sono stati dettati dall’esigenza di occupare nuovi mercati promettenti e fin lì inesplorati, i risultati sono evidenti ancora oggi. I Lakers, per esempio, vennero istituiti nel 1946 a Detroit e dopo un solo anno si trasferirono a Minneapolis. Ci rimasero per tredici anni e nel 1960 furono spostati nuovamente a Los Angeles proprio nel periodo in cui lo sport americano si stava espandendo da est a ovest, e in California in particolare. Adesso i Lakers sono di gran lunga la squadra di Los Angeles per eccellenza, nonché una delle più vincenti e riconosciute al mondo.
Le altre ragioni principali dietro questi trasferimenti riguardano stadi e amministrazioni locali, come nel caso di Oakland e in generale dei ricollocamenti avvenuti negli ultimi due decenni, molti dei quali si sono rivelati fallimentari.
Gli stadi sono sempre stati fondamentali per le squadre americane: averli moderni, capienti e al passo con i tempi è essenziale per mantenerle redditizie e competitive nei loro mercati (ed è per questo che soltanto nel football l’eta media degli impianti è di poco superiore ai trent’anni). Nel tempo però la crescita globale dello sport professionistico ha reso le squadre nordamericane così ricche, influenti e potenti da poter trattare alla pari con le amministrazioni locali, alle quali viene chiesto di contribuire con soldi pubblici alla costruzione di nuovi impianti. Se invece, come successo a Oakland, le amministrazioni locali non possono permetterselo, o non vogliono, le proprietà sanno che ci sono decine di città disponibili ad accontentarle in ogni modo possibile pur di avere una loro squadra, come nel recente caso di Las Vegas.
Questa tendenza è anche uno degli aspetti più criticati dell’attuale sistema sportivo professionistico nordamericano. Diversi studi sostengono per esempio che l’uso di soldi pubblici per la costruzione di grandi impianti sportivi vada perlopiù a beneficio dei privati che delle comunità nelle quali vengono costruiti. L’atteggiamento delle proprietà viene inoltre definito in certi casi ricattatorio nei confronti delle città e dannoso per la cultura sportiva locale, soprattutto nei casi in cui vengono trasferite squadre con tradizioni radicate.
Uno dei casi più emblematici degli ultimi anni ha riguardato la città di Saint Louis, a cui la National Football League (NFL) pagherà 790 milioni di dollari come risarcimento per il trasferimento della sua squadra di football a Los Angeles, sette anni fa. In precedenza l’amministrazione di St. Louis aveva denunciato la NFL per averle fatto spendere 17 milioni di dollari soltanto per avviare i progetti per la costruzione di nuovo stadio, una mossa peraltro consigliata dalla stessa lega come assicurazione sulla permanenza della squadra. Poi però la NFL permise comunque alla proprietà dei Rams di lasciare un centro minore come St. Louis per trasferirsi a Los Angeles con lo scopo di rilanciare il football nella seconda città degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda gli Oakland Athletics, invece, la situazione è diventata un problema un po’ per tutti i coinvolti. Da quando è diventata evidente l’intenzione della proprietà di cambiare città, la squadra è stata lasciata allo sbando: il suo caso ricorda sotto certi aspetti quello raccontato in un famoso episodio dei Simpson del 2001 in cui Homer scopriva che la squadra di baseball di Springfield, gli Isotopi, stava per essere trasferita ad Albuquerque.
Gli Athletics sono la squadra di Moneyball, uno dei più famosi film sul baseball prodotti dal cinema americano, tratto da un libro di Michael Lewis. Al centro di quella storia ci fu Billy Beane, il general manager della squadra che divenne famoso per come ampliò l’uso dell’analisi statistica del baseball, contribuendo in modo decisivo a farla diventare uno standard nella gestione di tutte le squadre. Quando Beane e i suoi collaboratori iniziarono ad applicarla a Oakland, i risultati furono eccezionali, tanto che la stagione del 2002 fu una delle migliori nella storia recente della squadra.
Negli ultimi anni, invece, i migliori giocatori degli Athletics sono stati venduti senza essere rimpiazzati e le sconfitte sono in costante aumento. La scorsa stagione hanno perso 102 partite su 162 giocate nella stagione regolare: è stato uno dei peggiori risultati di sempre, ma stando ai risultati della stagione in corso (55 sconfitte e 19 vittorie), ne potrebbe arrivare uno ancora peggiore. Anche lo stadio, il vecchio Coliseum, è ormai lasciato a sé stesso: le luci non funzionano, i seggiolini si staccano, le panchine vengono sommerse dal liquame quando piove, e sono stati trovati topi morti all’interno dei distributori di cibi e bevande.
Per tutti questi motivi il pubblico è ai minimi storici e gli Athletics, ultimissimi in classifica, sono ormai soliti giocare davanti a poche migliaia di spettatori. Ultimamente però, dopo le notizie che avvicinano sempre di più la squadra a Las Vegas, il Coliseum è tornato a riempirsi quasi completamente ma soltanto come protesta dei tifosi nei confronti della proprietà, invitata a vendere la squadra per mantenerla a Oakland.
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