Quella dei rimborsi chiesti ai produttori di dispositivi medici è una grana bella grossa
Il governo non trova una soluzione al “payback”, che per lo stato vale oltre un miliardo di euro e che rischia di far chiudere molte aziende
Il governo ha una grossa grana da risolvere che riguarda i rimborsi milionari che le aziende di dispositivi medici devono allo Stato in seguito a una vecchia legge, mai applicata fino all’anno scorso, che era stata approvata per recuperare i soldi dovuti alle previsioni errate delle regioni sulle proprie spese sanitarie. È una questione intricata: in sostanza, le aziende che producono e forniscono garze, bende, ferri chirurgici, ma anche valvole cardiache, protesi ortopediche, accessori per la radioterapia, dispositivi per dialisi e per il pronto soccorso, devono restituire in teoria più di un miliardo di euro allo Stato, per via di una sorta di tassa – nota come “payback” – che il governo Berlusconi aveva introdotto nel 2011 per rientrare in parte dall’eccesso di spesa sanitaria.
Ma le aziende non la vogliono pagare, adducendo varie e articolate ragioni, e perciò è in corso una disputa legale, e nel frattempo la scadenza per i pagamenti viene posticipata. Lunedì la commissione Bilancio e Affari costituzionali della Camera ha infatti approvato un emendamento per rinviare di un mese, dal 30 giugno al 31 luglio, la scadenza per i rimborsi. L’emendamento dovrà essere approvato dal parlamento, ma non dovrebbero esserci sorprese perché è stato presentato e sostenuto dalla maggioranza.
La gestione di questo payback è un grosso problema per il governo. Recuperare tutti quei soldi è importante perché rappresentano un contributo essenziale per sostenere il sistema sanitario. Ne hanno bisogno soprattutto le regioni, che gestiscono la sanità e che negli ultimi anni hanno accumulato molti debiti a causa degli sforzi economici dovuti all’emergenza coronavirus. Peraltro, il periodo di riferimento su cui sono calcolati i rimborsi va dal 2015 al 2018: non si è ancora parlato di quelli relativi agli anni della pandemia, che sicuramente saranno molto più alti, e che quindi saranno un problema ancora più grosso da gestire.
Il nuovo rinvio proposto dalla maggioranza è solo l’ultimo di una lunga serie che si trascina da diversi anni: le richieste di rimborso si sono accumulate fino a raggiungere una cifra considerevole, che ora le aziende fanno fatica a gestire nei loro bilanci. Secondo le stime fatte dalle associazioni di categoria, il pagamento di somme così alte costringerebbe molti produttori e fornitori a chiudere, con conseguenze non trascurabili sulle forniture di dispositivi medici per gli ospedali e senza la possibilità di recupero completo dei soldi.
Nel 2011 il governo di Silvio Berlusconi introdusse un limite massimo alla spesa sanitaria per l’acquisto di farmaci e anche di dispositivi medici: a ciascuna regione fu imposto di non spendere più del 4,4% del fondo sanitario nazionale a lei destinato. Nel 2015 il governo guidato da Matteo Renzi stabilì che, in caso di spese superiori rispetto al limite massimo, le aziende produttrici che avevano vinto gli appalti avrebbero dovuto restituire una quota dello sforamento: il 40% riferito al 2015, il 45% per il 2016 e il 50% per gli anni successivi. Insomma: si trattava di una specie di tassa sulle aziende, per rimediare alle previsioni sbagliate delle regioni e delle aziende sanitarie, che negli ultimi anni hanno quasi sempre sforato il budget per assicurare prestazioni sanitarie per cui è indispensabile acquistare dispositivi medici.
Le gare di appalto comunque non si sono fermate nonostante fosse stato superato il limite massimo di spesa. Per come sono gestite le gare, inoltre, le aziende e i fornitori di dispositivi non possono sapere se le aziende sanitarie si stiano impegnando in un acquisto che non potrebbero permettersi. Cioè: un’azienda non può sapere se il bando che richiede, per esempio, 10mila siringhe per un ospedale sarà poi oggetto del payback, e cioè se una parte dell’importo pagato dovrà poi essere restituita. Anzi, chi vince le gare è obbligato a fornire tutti i dispositivi richiesti, altrimenti rischierebbe la rescissione dei contratti in seguito all’interruzione di un pubblico servizio, peraltro essenziale in quanto legato alla sanità.
Il payback è rimasto inattuato fino alla scorsa estate, quando il governo guidato da Mario Draghi aveva deciso che era arrivato il momento di riscuotere dalle aziende i rimborsi relativi al periodo compreso tra il 2015 e il 2018. Il ministero della Salute ha definito in modo preciso le spese sostenute dalle regioni negli anni precedenti e in questo modo sono stati calcolati gli sforamenti rispetto al limite imposto.
Secondo i conti del ministero, in riferimento al 2015 le aziende produttrici dovevano rimborsare 416 milioni di euro; 473 milioni per il 2016; 552 milioni per il 2017; e infine 643 milioni di euro per il 2018. In totale 2 miliardi e 84 milioni di euro.
Dallo scorso autunno tutte le associazioni che rappresentano le aziende produttrici e i fornitori di dispositivi medici hanno criticato il payback, sostenendo di pagare errori di valutazione non commessi da loro, e messo in guardia il governo dalle conseguenze di questo provvedimento. Moltissime aziende hanno presentato ricorsi al tribunale amministrativo regionale del Lazio (TAR): secondo le stime delle associazioni, sono circa 1.800.
Il 12 gennaio il governo ha approvato un primo rinvio per i rimborsi, da versare entro il 30 aprile. Poi con il decreto Bollette, in vigore dall’1 aprile, è stato stanziato poco più di un miliardo di euro per dimezzare i rimborsi dovuti dalle aziende. Il governo ha introdotto anche alcune regole per evitare i contenziosi al TAR. Le imprese che non hanno presentato ricorso o che rinunciano alla causa possono pagare il 48 per cento dell’importo dovuto entro il 30 giugno, mentre chi vuole continuare il ricorso dovrebbe pagare l’intera somma richiesta. Molte piccole aziende, a cui era stato chiesto un rimborso contenuto, hanno pagato subito il 48 per cento del totale, mentre chi deve allo stato rimborsi milionari continua ad affidarsi al tribunale amministrativo convinto che il meccanismo del payback sia illegittimo.
Il governo non sa ancora bene come gestire questo problema: nonostante non sia al centro del dibattito politico, il caso è comunque notevole perché l’importo dei rimborsi è molto alto e trovare un miliardo di euro per coprire gli eventuali rimborsi annullati è complicato.
Nonostante il dimezzamento, la protesta delle associazioni di categoria non si è fermata e anche il recente rinvio al 31 luglio è stato accolto con scetticismo. «Trenta giorni in più per pagare non cambiano nulla», ha detto al Sole 24 Ore Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici. «Può essere positivo se questo mese in più servirà per trovare una soluzione definitiva, ma se invece serve solo a guadagnare un po’ di tempo magari per consentire alle regioni di calcolare le fatture al netto dell’Iva come chiedono le ultime norme approvate allora è solo uno schiaffo alle aziende».
Tra le ipotesi discusse nelle ultime settimane c’è anche la possibilità di alzare il limite massimo di spesa imposto alle regioni: dall’attuale 4,4 per cento si passerebbe al 5,4 per cento nel 2023 e gradualmente fino al 7,4 per cento dal 2027. In questo modo la spesa rimarrebbe nei limiti e non ci sarebbero più sforamenti. Il costo di questa misura non è indifferente: circa 2 miliardi di euro, esattamente l’importo del payback richiesto per il periodo compreso tra il 2015 e il 2018.
Ma non è ancora chiaro come saranno gestiti i rimborsi già richiesti e soprattutto quelli relativi al periodo tra il 2019 e il 2023, non ancora calcolati dal ministero della Salute e che sicuramente saranno ingenti per via delle spese dovute alla pandemia. «Si tratta di un processo di revisione di una normativa che questo governo ha ereditato, di un processo di revisione di una normativa che questo governo non condivide e di un processo di revisione di una normativa estremamente onerosa per le casse dello Stato e per cui, per la prima volta, questo governo ha stanziato somme a supporto», ha detto il sottosegretario al ministero delle Finanze e dell’Economia Federico Freni rivendicando l’impegno economico assicurato finora dal governo.