Quanto sono pericolosi gli ex pescherecci per i migranti
Tutti i più gravi naufragi avvenuti negli ultimi anni nel Mediterraneo – Lampedusa, Pilo, Cutro – hanno in comune una cosa: queste imbarcazioni
di Luca Misculin
Tutti i più gravi naufragi di migranti avvenuti nel Mediterraneo hanno in comune una cosa: le persone stavano cercando di raggiungere le coste europee a bordo di ex pescherecci, cioè imbarcazioni medio-grandi a due piani o tre piani (chiamati anche “ponti”, in gergo marittimo).
Era un ex peschereccio quello che naufragò a Lampedusa il 3 ottobre 2013, causando la morte di 368 persone. Così come era un ex peschereccio quello che affondò il 18 aprile 2015 al largo della Libia, con più di mille persone a bordo. Ed era un ex peschereccio quello naufragato pochi giorni fa al largo di Pilo, in Grecia: sono stati recuperati 84 corpi, ma ci sono molte decine di dispersi (e quasi nessuna possibilità che vengano trovati vivi).
Questi viaggi sono estremamente redditizi per i trafficanti di esseri umani, che chiedono a chi si imbarca una cifra che può arrivare anche a diverse migliaia di euro, ma sono anche molto difficili da organizzare: bisogna acquistare una grossa barca che verrà utilizzata soltanto per il viaggio in questione, avere una rete di intermediari e collaboratori che facciano in modo di far trovare 300, 500, 800 persone nello stesso luogo di partenza alla stessa ora, corrompere un numero sufficiente di autorità locali per fare in modo che non si accorgano di una barca così voluminosa, e molto altro ancora. I viaggi con barchini di dimensioni e capienza ridotta sono più semplici da organizzare.
A volte però i trafficanti riescono a mettere insieme viaggi che appartengono alla prima categoria, soprattutto in una regione del Mediterraneo. Negli ultimi mesi ex pescherecci con a bordo centinaia di persone partono quasi esclusivamente dal porto di Tobruk, nella Libia orientale, una regione dove da circa un anno si sono intensificate le partenze di migranti per ragioni contingenti alla guerra civile, che in Libia è in corso dal 2011.
A prima vista questi ex pescherecci possono sembrare in buone condizioni: fin quando il motore regge procedono a 6-7 nodi, fra i 10 e i 13 chilometri all’ora, più velocemente di barche più piccole che spesso hanno motori meno potenti. A volte lo scafo esterno viene dipinto dai trafficanti per rassicurare i migranti che stanno per imbarcarsi sulle buone condizioni dell’imbarcazione.
Spesso però sono barche vecchie e malandate, che i pescatori hanno rivenduto per pochi soldi, con diversi pezzi di legno ormai marcio, uno scafo arrugginito o un motore vecchio. E pur essendo più stabili dei barchini in ferro che da qualche mese arrivano a Lampedusa dalle coste tunisine, presentano comunque enormi rischi.
«I rischi principali legati alle imbarcazioni a due o più ponti sono sostanzialmente due», spiega Luca Marelli, responsabile delle osservazioni aeree per la ong Sea-Watch, e riguardano soprattutto le persone che passano il viaggio nel ponte inferiore: «rimanere incastrati là sotto, durante un naufragio, oppure morire asfissiati dai fumi del motore».
Il primo rischio è facilmente immaginabile. Spesso questi ex pescherecci hanno uno spazio sotto il ponte principale, chiamato sottocoperta, in cui vengono stipate più persone possibili. È uno dei posti più scomodi in cui passare i giorni della traversata. C’è pochissimo spazio per muoversi, per sgranchirsi le gambe o per fare i propri bisogni. Al contempo è anche uno dei più riparati dal sole, e dove vengono stipate le persone più vulnerabili. Alcuni sopravvissuti al naufragio del Peloponneso hanno raccontato che nel ponte inferiore al momento del naufragio si trovavano moltissimi bambini.
È plausibile che molti non abbiano nemmeno avuto il tempo di provare a uscire dal ponte inferiore, a cui di norma in queste imbarcazioni si accede da una specie di botola, o di scala.
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Il secondo rischio ha a che fare con la conformazione delle barche. «Spesso queste imbarcazioni hanno un motore sottocoperta per cui i fumi esausti vanno a rendere irrespirabile la poca aria presente, e il rischio è di morire asfissiati», spiega Marelli.
Un ex peschereccio di questo tipo non è al sicuro nemmeno durante un’operazione di soccorso. Nelle loro vite precedenti queste imbarcazioni ospitavano piccoli gruppi di pescatori. I trafficanti le stipano con centinaia di persone, che occupano quasi tutto lo spazio calpestabile.
In queste condizioni basta che un gruppo di persone si sposti da una parte all’altra, o che la nave responsabile del soccorso si avvicini troppo generando delle onde, perché il peschereccio perda l’equilibrio e si ribalti.
«Il problema principale nel soccorso di queste imbarcazioni è l’alto numero di persone a bordo che si muovono, che chiamiamo “carico liquido”», spiega Riccardo Gatti, fra i responsabili della squadra di ricerca e soccorso della Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere. «Ogni movimento brusco può scompensare la situazione di equilibro e comportare un capovolgimento», col rischio che le persone che siedono sul ponte scoperto finiscano in acqua, e che quelle nel ponte inferiore rimangano intrappolate.
Gatti preferisce non commentare le circostanze in cui è naufragato l’ex peschereccio al largo del Peloponneso, e la gestione del caso da parte della Guardia costiera greca – «è presto per dare giudizi» – ma spiega che in casi del genere usare una fune per rimorchiare la barca, come sembra sia stato fatto dalla Guardia costiera secondo le prime testimonianze, «è assolutamente scorretto».
Gli ex pescherecci sovraffollati vanno avvicinati con «manovre molto delicate, il cui obiettivo è mantenere la massima stabilità possibile dell’imbarcazione» per tutta la durata del soccorso. A differenza delle barche più piccole, però, i gommoni semirigidi con cui le ong trasportano i migranti sulle loro navi non possono avvicinarsi di lato e creare una specie di ponte fra le due imbarcazioni. «Rischieresti di fare pressione e capovolgerle dall’altro lato», spiega Gatti, che lavora nella ricerca e soccorso da molti anni e ha compiuto centinaia di soccorsi. «Non puoi nemmeno approcciarle da dietro, perché spesso hanno dei vecchi apparati da pesca: bisogna trovare un punto che influisca il meno possibile sulla stabilità, indicativamente lo trovi a circa tre quarti dello scafo verso poppa», cioè la coda dell’imbarcazione.
Gatti sottolinea anche che durante questi soccorsi la rapidità e la fluidità delle operazioni dipende in buona parte dal meteo: «una volta abbiamo soccorso 440 persone con onde da 4 metri e ci abbiamo messo 12 ore, poche settimane fa per soccorrerne 606 ce ne abbiamo messe tre perché il mare era piatto», spiega Gatti.
E che il soccorso può complicarsi improvvisamente: «durante un soccorso da più di mille persone a un certo punto a bordo si era diffuso il panico per via di un principio di incendio nel motore. Le persone hanno iniziato a muoversi e l’imbarcazione ha dondolato: saranno cadute in acqua 150 persone, fortunatamente il mare era piatto e l’imbarcazione ha ripreso l’equilibrio. In quei momenti puoi soltanto prepararti al peggio».