In Turchia due milioni di sfollati vivono ancora nelle tende
Sono passati più di quattro mesi dal terremoto, ma non è stata superata la prima fase dell'emergenza
di Valerio Clari
A più di quattro mesi dal terremoto che il 6 febbraio ha colpito le regioni centrali e meridionali della Turchia e quelle nord-occidentali della Siria, per centinaia di migliaia di persone non è finita la prima fase dell’emergenza, quella in cui la priorità è rispondere alle esigenze basiche. Una parte consistente degli sfollati continua a vivere in tende, non ha accesso (o ha accesso parziale) ad acqua corrente ed energia elettrica, in certi casi ha ottenuto solo nei giorni scorsi i primi bagni chimici e aspetta le prime docce.
Nelle province turche più colpite, Hatay, Adiyaman e Kahramanmaras, le tende sono dappertutto, in quelli che sono definiti “campi informali”: se ci sono almeno dieci tende, ovunque esse siano, quello è un campo informale. Occupano i campi sportivi e i parchi cittadini, circondano scivoli e altalene delle aree giochi, ma sono piantate anche negli spiazzi sterrati a bordo strada e nei cortili delle case storte e inagibili, da cui pendono pericolosamente calcinacci. «Se non sono caduti fino ad adesso, non cadranno ora», dice con un certo fatalismo la signora che continua a lavare i piatti nei lavandini del primo piano, dove l’acqua corrente funziona.
Nelle prime ore della mattina del 6 febbraio un terremoto di magnitudo 7.7 colpì le regioni centrali e meridionali della Turchia, e quelle nord-occidentali della Siria. Le province turche coinvolte furono dieci, a cui si aggiunse, due settimane dopo, la zona di Defne, colpita da un distinto terremoto. Le repliche (cioè i successivi eventi sismici di entità inferiore) sono state 83: la più forte di magnitudo 6.7.
Nelle regioni colpite della Turchia (il paese che ha avuto i danni maggiori) vivono oltre 13 milioni di abitanti: gli sfollati sono stati 3 milioni, gli edifici danneggiati quasi mezzo milione, di cui 298.000 sono crollati o sono risultati inagibili in modo definitivo (e andranno demoliti). I feriti sono stati oltre 100.000, i morti 50.783 in Turchia e 8.476 in Siria: i numeri danno un’immagine chiara delle enormi dimensioni dell’evento, che ha cancellato interi quartieri di grandi città e lasciato senza casa moltissime persone.
Gli sfollati quattro mesi dopo sono per lo più ancora ospitati in tende: erano freddissime a febbraio, subito dopo il terremoto, tanto che c’era chi preferiva dormire comunque in auto, e diventano caldissime ora, sotto il sole quasi estivo del sud della Turchia. Le tende in materiale plastico raccontano anche la storia di una mobilitazione internazionale: visto il numero enorme di sfollati per settimane non ce ne sono state abbastanza per tutti. Ora molte hanno il marchio AFAD, il corrispondente turco della nostra Protezione civile, ma altre hanno i simboli dell’ONU, della Cina, della Corea del Sud, dell’Unione Europea e della Croce Rossa Internazionale, solo per citare i più frequenti.
Sono strutture rettangolari, di circa quattro metri per tre, alte abbastanza per starci dentro in piedi, e quasi sempre con un’unica apertura frontale, da dove si entra. Dentro di solito ci sono tre-quattro materassi lungo i lati, spesso un tappeto, e poco altro. Ospitano una media di quattro-cinque persone, ma se la famiglia è da otto (cosa tutt’altro che eccezionale), ci si stringe. Nei campi informali, le tendopoli di dimensioni ridotte sparse in centinaia di diversi angoli dei centri urbani e delle campagne, gli aiuti sono limitati, l’arrivo di un bagno chimico è atteso per mesi, l’acqua è fornita ancora con le taniche, o nel migliore dei casi con serbatoi.
Il governo e quindi AFAD si occupano principalmente e con continuità dei “campi ufficiali”: sono quelli di maggiori dimensioni, in aree identificate per ospitare molte persone, e in cui gli sfollati vivono in tende o in container, con allacci alla rete idrica ed elettrica. I container sono il massimo a cui aspirare per chi ha avuto la casa distrutta: per la ricostruzione ci sarà bisogno di qualche anno. I container però non sono abbastanza per rispondere a una domanda di questa entità.
Secondo gli ultimi dati disponibili, provenienti da alcune organizzazioni non governative, fra cui Support to life (STL) e Croce Rossa internazionale (IFRC), a inizio giugno gli sfollati erano ancora oltre 2,6 milioni: di questi 270 mila vivono in un container, 80 mila in edifici di proprietà pubblica, 400 mila in tendopoli ufficiali, ma quasi due milioni sono ancora in campi di tende informali o in zone in cui non sono raggiunti da infrastrutture funzionanti. Il governo turco non fornisce dati ufficiali e complessivi: una scelta che secondo molte ong operanti sul campo rende più difficile capire necessità della popolazione ed emergenze, e condiziona l’efficacia degli interventi.
In questi campi informali l’assistenza è delegata prevalentemente alle ong: sul terreno ne operano un centinaio, molte sin dai primi giorni dopo il terremoto. Una cinquantina sono locali, le altre internazionali e molte erano già presenti nell’area da circa un decennio.
In seguito alla guerra civile siriana l’area ha accolto un numero considerevole di rifugiati: oggi i siriani registrati in Turchia sono 3,6 milioni. Per molti di loro il terremoto ha azzerato i progressi fatti in dieci anni: prima del sisma il 98 per cento dei rifugiati siriani viveva in abitazioni e non più in campi profughi, oggi quella percentuale è scesa drasticamente.
Le organizzazioni non governative hanno riconvertito i loro programmi in corsa per rispondere all’emergenza. Negli ultimi otto anni l’Unione Europea, e in particolare il suo programma di Protezione civile e aiuti umanitari, ha finanziato 100 diversi progetti, condotti da 20 diverse ong: per questa emergenza ha riconvertito parte dei fondi già stanziati per il 2023 e ne ha aggiunti altri, fino a una cifra di 78,2 milioni di euro.
Sono fondi europei che non passano dal governo turco, ma rendono possibili programmi specifici portati avanti da organizzazioni quasi sempre internazionali, che poi si appoggiano anche a ong locali. In un decennio i programmi umanitari dell’Unione Europea hanno trasferito in Turchia 3,46 miliardi di euro: la parte più consistente con un programma di carte di credito prepagate destinate a 1,5 milioni di rifugiati su cui vengono caricate piccole somme per contribuire agli acquisti di base (ESSN). Sono fondi umanitari, distinti da quelli relativi all’accordo che l’Unione Europea trovò con la Turchia nel 2015 e firmò nel 2016 per moderare il flusso dei migranti verso la Grecia e quindi l’Europa.
Ali Fuat Sutlu, direttore del programma turco dell’ong internazionale Concern, dice: «Ancora oggi, quattro mesi dopo il sisma, non abbiamo superato la prima fase dell’emergenza: molte zone rurali e molti piccoli paesi non hanno ancora ricevuto l’assistenza di base. E le piccole case, ma anche le stalle, sono crollate come i palazzi delle città». Sutlu mostra un magazzino, appena fuori Adiyaman, pieno di pacchi di prodotti per l’igiene, di pannolini, di taniche d’acqua e tende per creare delle zone d’ombra: vengono distribuiti giornalmente, sulle strade più periferiche.
In questa fase ha diritto a ottenere un container solo chi ha avuto la casa completamente distrutta. Nella lista di priorità segue chi ha registrato danni consistenti, tali da rendere l’abitazione inagibile a lungo termine; in fondo ci sono i rifugiati, per lo più siriani, per cui le eccezioni sono minime, e soltanto in situazioni particolarmente gravi. La stessa filosofia ha governato anche la distribuzione delle tende, che nel migliore dei casi sono arrivate dopo che le persone avevano passato alcuni giorni in macchina, in depositi, o nei parchi, con coperture di fortuna ottenute da teli di plastica (in quei giorni pioveva molto).
Ci si può iscrivere a una lista d’attesa per ottenere un container o a una lista d’attesa per ottenere un aiuto economico per affittare una casa. Le due possibilità sono in alternativa, la seconda consiste in 3.000-5.000 lire turche al mese (115-190 euro). Il primo problema è che dopo il terremoto sono ulteriormente saliti i prezzi degli affitti, già aumentati per la forte inflazione: molti degli sfollati dicono che non si trova nulla sotto le 7000-10.000 lire turche. Il secondo è che le case in affitto sono pochissime o del tutto assenti, nelle città più colpite.
Chi invece possiede o possedeva una casa paga dal 1999 una sorta di assicurazione statale anti terremoti: dovrebbe almeno parzialmente rimborsare i danni, ma prima di iniziare i lavori per rendere agibile l’abitazione bisogna aspettare una visita di periti, che valutino i danni e gli eventuali rimborsi. Come è facile immaginare il sistema si è intasato, le attese sono di mesi. Senza contare che i soldi poi dovranno effettivamente partire, e che raramente saranno sufficienti. È stato istituito anche un sistema di prestiti statali, fino a 7.000 euro, da richiedere per coprire le spese per i lavori: si ripagano in dieci anni, le rate iniziano dal terzo.
Per molti però quei soldi non bastano, sono irraggiungibili, la prospettiva di indebitarsi non è praticabile: per cui si resta in un limbo rappresentato dai campi informali, dalle tende nei cortili, dalla vita di comunità e da giornate scandite dalla distribuzione dei tre pasti.
Sara ha 23 anni, faceva la maestra di una scuola privata, ora vive con altre 35 persone in un campo informale su uno spiazzo di terra dove si affacciavano le loro case, a Defne, nella provincia di Hatay. Sono quasi tutti parenti, qualcuno avrebbe anche potuto trasferirsi in un container, ma ha rifiutato, per rimanere in gruppo: «Restare insieme è l’unica cosa che ci resta, anche i bambini non vogliono staccarsi dai genitori, nemmeno per andare a scuola». In una tenda c’è un frigo, alimentato da un cavo che si attacca a un palo della luce; una organizzazione non governativa ha portato qui un serbatoio d’acqua e un bagno. In mezzo alle tende si accendono fuochi per cucinare: la percezione dei rischi e il rispetto di misure di sicurezza si sono molto relativizzati. La preoccupazione maggiore del gruppo sono i serpenti: girano nella zona, gli sfollati mostrano pelli di esemplari che hanno fatto la muta. Temono di ritrovarseli nelle tende, di notte.
Nonostante tutto quei 36 – e molti altri come loro – restano lì da mesi e con la prospettiva di farlo per altri caldi mesi: dicono che i campi ufficiali sono lontani e che non vogliono abbandonare le case inagibili in cui restano i loro pochi beni (i furti sono ricorrenti). E poi magari un vicino di casa è stato risparmiato dai crolli. «All’ora di pranzo puoi trovare anche dieci famiglie che usano una sola cucina», racconta Mahal al Ahmad, 50 anni, siriana, vedova da quindici, madre di dieci figli e nonna di quindici nipoti, sparsi fra Siria, Turchia e Libano. Ora è in un campo non ufficiale a Adiyaman, altra città fortemente colpita. Si cucinano cose fornite dalla protezione civile e dalle ong o in alcuni casi acquistate nei negozi e nei mercati che stanno ricominciando ad aprire (spesso in container), ma ancora insufficienti a rispondere a tutte le richieste.
Ci si arrangia allo stesso modo per le docce, mettendo in comune quelle agibili, mentre qualcuno spera che il livello dei danni della propria casa venga rivalutato: se da “grave” passa a “medio” è possibile rientrare. Invece molti bambini e alcuni adulti che hanno perso parenti nei crolli faticano ancora a dormire dentro strutture in muratura: il sostegno psicologico è un altro dei settori in cui operano le organizzazioni non governative.
Unicef ha un programma di sostegno psicologico per i bambini attivo in 46 località: lo svolge con unità mobili, per andare in più campi possibili, ufficiali e non. Giochi, lezioni e attività all’aperto per provare a superare le paure, informare, istruire. Durante questi incontri, aperti anche ai genitori, gli operatori hanno riscontrato diffusi problemi del sonno e alimentari, una difficile gestione della rabbia, a volte problemi respiratori causati dall’ansia.
Agli adulti serve aiuto anche per immaginare un futuro. Insieme alle case sono crollati anche uffici, aziende, negozi: il lavoro è quasi inesistente, se non legato alla nuova economia dell’emergenza, della demolizione e della ricostruzione. A Nurdagi, dove sono morti quasi 2.500 dei 16mila abitanti, in un quartiere praticamente raso al suolo è rimasta in piedi per volere del caso una gioielleria e bigiotteria: è aperta, fra le rovine, ma si fa fatica a immaginare che possa fare grandi incassi. Intorno si muovono solo scavatrici, che hanno sostituito gli autobus nel paesaggio urbano.
Meryam Kalkan, 54 anni, era una casalinga a Defne. Ora vive in un campo di una cinquantina di tende dentro un parco cittadino, di quelli con le altalene, le panchine, e le aree per cani: «Non ho nessun piano per il futuro, non ho risparmi per ristrutturare la casa e se anche li avessi non so se vorrei spenderli per quei muri, dopo quello che è successo. Vivo qui e aspetto non so cosa: coi vicini siamo diventati una famiglia, anche se erano degli sconosciuti: abbiamo condiviso lo stesso dolore e la stessa distruzione».
Il presidente Recep Tayyip Erdogan, appena rieletto per un terzo mandato nonostante le forti critiche alla risposta del governo al terremoto, ha assicurato in campagna elettorale che «tutto verrà ricostruito». Negli enormi manifesti del presidente presenti in ogni città vengono pubblicizzati i numeri di nuove case costruite in questi mesi: lo sviluppo e la speculazione nel settore edilizio e delle grandi opere sono stati uno dei motori economici dei vent’anni del suo governo. L’attività di demolizione e ricostruzione è costante, ma sembra davvero solo all’inizio.