In America Latina si parla di un’OPEC per il litio
Il Messico e il Cile vogliono nazionalizzare le miniere, la Bolivia lo ha già fatto: potrebbero provare ad allearsi per controllare i prezzi
di Simone Fant
Per gli esperti dell’industria mineraria Cile, Argentina e Bolivia sono il “triangolo del litio”. Si stima che i tre paesi sudamericani detengano quasi la metà delle riserve note di questo metallo, attualmente molto importante per l’economia mondiale. Meno abbondanti ma comunque rilevanti sono poi i giacimenti presenti in Messico, Perù e Brasile. Viste le ingenti risorse, questi paesi dell’America Latina vogliono poter determinare i prezzi di vendita sul mercato mondiale a proprio beneficio ed evitare lo sfruttamento di aziende straniere seguendo il modello dell’OPEC+, cioè l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, citata sia dal presidente del Messico Andrés Manuel Lopez Obrador che da quello della Bolivia Luis Arce.
Il litio è un minerale essenziale per la transizione energetica e in particolare per la produzione delle batterie ricaricabili che alimentano veicoli elettrici e smartphone. È soprannominato “oro bianco” non tanto per la sua rarità (è il 21esimo elemento più abbondante sulla Terra), ma perché non si ha ancora la certezza che l’offerta di litio raffinato e processato soddisferà la futura domanda globale, che secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) potrebbe aumentare fino a 42 volte entro il 2040. Questa stima ha convinto la Commissione europea ad inserirlo nella lista dei minerali considerati critici e a presentare il Critical Raw Materials Act, una serie di misure per garantire un approvvigionamento sicuro e diversificato delle materie prime utili alla transizione energetica europea.
Il 23 marzo Arce ha dichiarato che sarebbe una buona idea creare una politica congiunta sul litio con gli altri paesi dell’America Latina. Dagli anni Novanta la Bolivia, che detiene il 21 per cento delle risorse globali di litio, ha sempre tenuto la gestione delle riserve sotto il controllo dell’azienda pubblica Yacimientos de Litio Bolivianos, scegliendo di non lavorare con le società minerarie straniere. La strategia di nazionalizzare l’industria, cioè di trasferirne la proprietà e il controllo allo stato, ha però compromesso lo sviluppo della produzione interna.
Dal 2018 al 2022 la Bolivia ha prodotto solamente 1.400 tonnellate di litio, mentre l’Australia, che ne possiede meno della metà, è diventata il maggior produttore al mondo con una capacità produttiva di 333mila tonnellate annue. Il litio boliviano è oggi tra i più difficili da estrarre sia per costi che per inefficienza dei processi. Questo ha reso la produzione boliviana meno profittevole rispetto a quella di Cile, attualmente il secondo produttore mondiale, e Argentina.
Quasi un mese dopo la dichiarazione di Arce, Gabriel Boric, il presidente più di sinistra che il Cile abbia mai avuto, ha annunciato alla stampa un piano per nazionalizzare la produzione di litio cilena con l’obiettivo di rafforzare il settore usando metodi estrattivi più sostenibili per l’ambiente.
A differenza del rigido approccio boliviano, il governo cileno sta progettando di accorpare la produzione delle due grandi aziende minerarie attive nel deserto di Atacama, la statunitense Albemarle e la SQM (Sociedad Quimica y Minera de Chile), in un’unica azienda controllata dallo stato, senza perdere gli investimenti e le competenze delle compagnie straniere. Tuttavia economisti come Bernardo Fontaine, dell’Università Cattolica del Cile, ritengono che la scelta di Boric potrebbe allontanare gli investitori privati, poco entusiasti di lasciare in gestione al settore pubblico la maggior parte dei loro affari.
Già nel 2022 il Messico aveva nazionalizzato le proprie riserve di litio, ancora da sfruttare, e a febbraio il presidente Lopez Obrador ne ha affidato la gestione al ministero dell’Energia. Secondo la divisione messicana della Camera di commercio internazionale, un’organizzazione commerciale che rappresenta aziende di tutto il mondo, la legge di nazionalizzazione violerebbe gli obblighi commerciali con una dozzina di società straniere che possiedono le licenze per esplorare potenziali giacimenti di litio. È possibile che il governo messicano dovrà risarcire quelle aziende in possesso delle concessioni minerarie.
Tra gli anni Cinquanta e Ottanta i paesi produttori di petrolio come il Venezuela e l’Arabia Saudita, contrari alle riduzioni dei prezzi decise dalle multinazionali del settore, decisero di aumentare gradualmente il coinvolgimento statale nelle loro industrie e crearono l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio per portare avanti strategie di gruppo. I paesi dell’OPEC oggi producono il 40 per cento del petrolio globale e regolano i prezzi riducendo o aumentando la produzione.
Teoricamente l’America Latina potrebbe seguire un percorso simile, in particolare se le imprese spostassero le parti più redditizie della filiera – come la lavorazione e la produzione di componenti per batterie che attualmente avvengono soprattutto in Cina – nei paesi come la Bolivia, che per ora esportano soprattutto litio grezzo. Per i leader latinoamericani parlare di un’OPEC per il litio significa sperare che l’economia legata a questo minerale si sviluppi come quella del petrolio e che i maggiori profitti derivati dalla sua estrazione e raffinazione contribuiscano alle entrate statali, evitando di arricchire solamente le compagnie minerarie straniere come è successo in passato.
Tuttavia ci sono anche varie ragioni per cui le cose potrebbero andare diversamente. Innanzitutto, il litio non è una materia prima come il petrolio che è un prodotto generalmente omogeneo, per cui cioè non ci sono differenze significative in termini di qualità tra i diversi produttori. Il litio raffinato viene valutato a seconda del grado di purezza a cui viene trovato e, nonostante si preveda che la domanda annuale globale raggiungerà le 4 milioni di tonnellate entro il 2030, è ancora commercializzato come un prodotto chimico specializzato. Questo rende più difficile stabilire i prezzi a seconda delle esigenze, come fa l’OPEC+ con il petrolio.
In secondo luogo non è detto che in futuro i paesi del “triangolo del litio” rappresenteranno ancora un terzo della produzione globale. La quota dovrebbe ridursi nei prossimi decenni. Ciò è in parte dovuto al fatto che i prezzi elevati del litio rendono profittevoli gli investimenti e di conseguenza l’esplorazione di depositi e lo sviluppo della produzione diventeranno più accessibili economicamente: anche in Italia, per esempio, si stanno studiando potenziali giacimenti.
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Ci sono poi da considerare le difficoltà tecniche legate a fattori geologici. Le risorse di litio sudamericane si trovano all’interno di laghi sotterranei che sono in una condizione di salamoia, cioè vicina alla saturazione, quando i sali disciolti nell’acqua sono prossimi alla cristallizzazione. Per ottenere il litio l’acqua viene pompata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. La soluzione salina che ne deriva viene processata ulteriormente finché il litio non è pronto per essere raffinato. Questo processo è lento e comporta il consumo di grandi quantità d’acqua. Soltanto in Cile sono già evaporati oltre 455 miliardi di litri d’acqua, ma in prospettiva si parla addirittura di 1.500 miliardi di litri solo per il deserto di Atacama, che è già uno dei luoghi più aridi del mondo.
Spaventate dalle politiche di nazionalizzazione dell’industria e dagli ostacoli tecnici, le società minerarie internazionali potrebbero esplorare nuovi giacimenti altrove, mettendo a rischio i piani dell’America Latina di formare un’OPEC per il litio.