Le persone arrestate per il naufragio in Grecia
A Kalamata si terrà un'udienza per 9 egiziani accusati di essere "scafisti", mentre in Kashmir sono stati fermati dieci presunti trafficanti
Lunedì nove uomini egiziani accusati di aver guidato l’ex peschereccio sovraffollato di migranti affondato il 14 giugno al largo del Peloponneso, in Grecia, compariranno al tribunale di Kalamata, la città greca dove erano state portate inizialmente le persone sopravvissute al naufragio, uno dei più gravi nella storia recente del mar Mediterraneo. I nove uomini erano stati arrestati nei giorni scorsi con l’accusa di far parte dell’organizzazione criminale che avrebbe organizzato il viaggio, e di avere guidato l’imbarcazione per diversi tratti, ma il loro coinvolgimento non è ancora chiarissimo.
Intanto in Pakistan, uno dei paesi da cui proveniva parte delle persone che si trovavano sull’ex peschereccio, sono state arrestate dieci persone che invece sono accusate di essere trafficanti di esseri umani: avrebbero mandato molti giovani pakistani in Libia, il paese da cui era partita l’imbarcazione, al fine di imbarcarsi verso l’Europa. Dopo aver saputo che tra le persone coinvolte nel naufragio c’erano cittadini del Pakistan – 12 tra i sopravvissuti – il primo ministro del paese Shehbaz Sharif aveva indetto una giornata di lutto nazionale per lunedì e ordinato un’indagine sui trafficanti. Gli arresti sono stati fatti nella regione del Kashmir.
In Grecia, così come in Italia, capita più spesso che nei casi di immigrazione irregolare sia processato chi si è trovato a guidare le barche usate dai migranti, i cosiddetti “scafisti”, piuttosto che i trafficanti di esseri umani realmente responsabili dei viaggi, che sono molto più difficili da individuare e raramente salgono a bordo delle imbarcazioni che cercano di arrivare in Europa. In alcuni casi i trafficanti guidano queste barche nelle fasi iniziali del viaggio, per poi abbandonarle in mare aperto.
Chi invece si trova a pilotare le imbarcazioni successivamente può essere una persona che si assume la responsabilità di farlo durante un’emergenza, una costretta a farlo con la violenza dai trafficanti, magari perché ha esperienze di mare, oppure qualcuno che è stato pagato dai trafficanti e però spesso è un migrante a sua volta.
Secondo Community Peacemaker Teams (CPT), un’ong che segue i processi di questo tipo, nelle carceri greche i detenuti condannati per avere pilotato imbarcazioni usate dai migranti sono il secondo più grosso gruppo di detenuti, dopo quelli condannati per reati legati alle droghe. Stando alle denunce dell’organizzazione la maggior parte dei processi contro queste persone viene portata avanti con gravi lacune procedurali: ad esempio, senza che gli imputati abbiano a disposizione interpreti che parlano le loro lingue.
Per il reato di traffico di esseri umani il codice penale greco, esattamente come quello italiano, non prevede grosse distinzioni fra le varie figure coinvolte nel traffico di esseri umani: per questo gli “scafisti” possono essere condannati con la stessa durezza riservata a chi invece organizza le traversate dei migranti in cambio di denaro.
Agli egiziani arrestati, che hanno età comprese tra i 20 e i 40 anni, sono stati assegnati dei difensori d’ufficio. I nove uomini non hanno potuto presentare richiesta d’asilo come le altre persone sopravvissute al naufragio e secondo Christina Karvouni di Community Peacemaker Teams sono stati individuati e arrestati dalla Guardia costiera greca senza che fosse chiaro, esattamente, perché.
Dopo il naufragio della scorsa settimana sono stati recuperati 78 corpi, ma il numero di persone morte è molto più alto: si stima che a bordo dell’ex peschereccio ci fossero tra le 400 e le 750 persone, mentre i sopravvissuti soccorsi sono 104. Provengono soprattutto da Siria, Afghanistan ed Egitto, oltre che dal Pakistan. L’ex peschereccio era salpato da Tobruk, nella Libia orientale, ed era diretto verso l’Italia.
Secondo l’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, il naufragio potrebbe essere il secondo più grave nella storia dell’immigrazione nel Mediterraneo dopo quello dell’aprile del 2015 avvenuto appena al di fuori delle acque nazionali libiche, in cui si pensa morirono circa 1.100 persone.