I candidati alla presidenza degli Stati Uniti, finora
Un sintetico riassunto del punto a cui siamo, a sette mesi dall'inizio delle primarie
Il 5 novembre 2024, quindi tra poco meno di un anno e mezzo, si terranno le 60esime elezioni per scegliere il presidente degli Stati Uniti. Fino a oggi dodici politici del Partito Repubblicano e tre del Partito Democratico hanno ufficialmente annunciato la propria candidatura, e competeranno alle primarie che sono obbligatorie per legge, anche per il partito che esprime il presidente. Tra questi, solo due sono donne.
Le “primarie”, il sistema di elezioni interne a ogni partito, prevedono regole diverse in ogni stato. In una minoranza di stati (per esempio in Iowa, in passato spesso il primo stato a votare, tra gennaio e febbraio) non si terranno delle vere e proprie elezioni ma dei “caucus”, ovvero delle particolari assemblee politiche “dal basso” (qui una guida a come funzionano) dove gli attivisti locali dibattono apertamente su quale candidato sostenere prima di votarlo, il voto non è segreto ed è possibile cambiare idea durante la sessione.
Terminata la fase delle primarie – sulla carta a giugno, ma spesso un vincitore emerge già tra marzo e aprile – i due partiti indicheranno ufficialmente il proprio candidato con un voto dei “delegati” eletti con le primarie in ciascuno stato in occasione di due convention nazionali, tra luglio e agosto. Sebbene il calendario completo non sia ancora disponibile, è già noto che la convention repubblicana si terrà dal 15 luglio per una settimana a Milwaukee, e quella democratica dal 19 agosto a Chicago, a meno di duecento chilometri di distanza.
I politici democratici che parteciperanno alle elezioni primarie e ai caucus organizzati dal partito sono l’attuale presidente ottantenne Joe Biden, l’avvocato ambientalista e antivaccinista Robert Kennedy Jr. (grande teorico del complotto, figlio dell’omonimo senatore e nipote del presidente John Kennedy) e Marianne Williamson, attivista per varie cause progressiste e autrice di numerosi libri di auto-aiuto.
Biden vincerà di certo, forte del consenso all’interno del partito e della legittimazione che ha come presidente in carica. Negli ultimi tre anni e mezzo ha ottenuto risultati legislativi notevoli, tra cui l’approvazione di tre leggi ambiziose – una per favorire la ripresa dell’economia dopo la crisi pandemica, una sulle infrastrutture, e una per ridurre l’inflazione – che prevedono spese all’incirca per 4mila miliardi di dollari, oltre a uno stanziamento di fondi da centinaia di miliardi per aumentare la competitività di alcuni settori industriali statunitensi con quelli cinesi, approvato peraltro in modo bipartisan.
L’economia statunitense gode di ottima salute e sembra che stia riuscendo a tenere in piedi la crescita nonostante l’aumento dei tassi di interesse per combattere l’inflazione; i dati sull’occupazione ogni mese sorpassano le aspettative. In politica estera, il sostegno politico e militare all’Ucraina raccoglie i consensi di un’ampia maggioranza della popolazione, e in generale all’amministrazione Biden è riconosciuto di aver ricostruito l’alleanza con l’Unione Europea ed essere stato particolarmente duro con la Cina. Le elezioni di metà mandato del 2022 hanno avuto un risultato sorprendentemente positivo per i democratici.
Nonostante questo vari sondaggi nazionali, tra cui quello organizzato da ABC News e dal Washington Post ad aprile, vedono il presidente Biden in difficoltà nella competizione contro i Repubblicani: la maggioranza degli intervistati ritiene Biden troppo anziano per fare un altro mandato (nonostante tra lui e Trump ci siano solo quattro anni di differenza) e secondo il sondaggio il 58 per cento degli elettori Democratici vorrebbe che il partito scegliesse un altro candidato. Ci sono anche alcune perplessità sullo stato della campagna elettorale di Biden, che secondo molti osservatori è in ritardo e debole; Biden è comunque noto anche agli elettori per una certa lentezza e ponderazione nel prendere decisioni politiche rilevanti, oltre che per essere stato sempre molto sottovalutato da analisti ed esperti nel corso della sua carriera.
Inoltre, gli altri candidati non ci sono. I politici del Partito Democratico che potrebbero ambire a una candidatura presidenziale – Gretchen Whitmer, Gavin Newsom, Pete Buttigieg e naturalmente la vice Kamala Harris, per citare soltanto i principali – non hanno intenzione di candidarsi, per evitare di spaccare il partito o compromettere la propria reputazione diventando “la persona che ha sfidato il presidente”. Nemmeno la corrente sinistra del partito, quella di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, intende sfidare Biden.
Gli unici candidati alternativi a Biden nel Partito Democratico al momento sono Kennedy Jr. e Williamson, che hanno alcuni aspetti in comune: la loro esperienza politica è nulla, non hanno mai avuto alcuna carica elettiva e interpretano idee e posizioni marginali anche nello stesso Partito Democratico.
Kennedy Jr. è una figura anomala all’interno del partito: tanto che una cosa ricorrente che si dice di lui nella politica statunitense è che abbia sbagliato partito. Pur avendo sostenuto alcune cause care all’elettorato progressista, specialmente in materia di regolamentazione ambientale, Kennedy Jr. è infatti da vent’anni uno dei rappresentanti più influenti e popolari del movimento antivaccinista statunitense, oltre ad aver contribuito a diffondere numerose teorie del complotto: per esempio sulla relazione tra sparatorie di massa e prescrizione di farmaci psichiatrici. Queste posizioni, oltre a quelle filorusse sul conflitto in Ucraina, lo hanno reso popolare soprattutto tra i conservatori più radicali; nelle ultime settimane ha partecipato a un incontro in diretta su Twitter organizzato da Elon Musk, e ha ricevuto parole di stima da Steve Bannon, il famigerato ex consigliere di Donald Trump, e da Alex Jones, conduttore radiofonico e fondatore del sito cospirazionista Infowars.
Marianne Williamson, principalmente conosciuta come scrittrice e guru spirituale, è invece una figura meno divisiva ma comunque ai margini del partito, con una carriera politica piuttosto breve. Nel 2014 tentò senza successo l’elezione alla Camera dei Rappresentanti; nel 2019 partecipò alle primarie democratiche, che abbandonò dopo pochi mesi prima ancora che si cominciasse a votare. La sua piattaforma politica riprende molti dei “classici” temi del Partito Democratico, con una certa attenzione a limitare l’influenza delle grandi aziende sui processi di decisione politica (il Council on Foreign Relations, un importante istituto di ricerca, l’ha definita “anti-corporate populist”).
Il risultato delle primarie è invece meno scontato per i Repubblicani, anche perché è realistico che alle candidature già annunciate se ne aggiungano altre nei prossimi mesi. Un primo dibattito televisivo organizzato dalla rete Fox News si terrà il prossimo 23 agosto. L’ex presidente Donald Trump e il governatore della Florida Ron DeSantis sono finora i candidati con maggiori possibilità di successo, seguiti dall’ex vicepresidente Mike Pence e dall’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikki Haley.
I sondaggi dicono che Trump – al momento coinvolto in due diverse indagini penali – sarebbe in vantaggio su DeSantis: secondo il Wall Street Journal, a fine aprile il 48 per cento degli elettori era intenzionato a votare l’ex presidente alle primarie, mentre solo il 24 per cento De Santis. Questi risultati vanno comunque presi con grande cautela, e non solo perché mancano più di sei mesi all’inizio delle primarie e gli americani interessati alla competizione sono ancora molto pochi: si tratta infatti di sondaggi che misurano la popolarità nazionale, mentre le primarie si tengono stato per stato, con un calendario che copre diversi mesi. L’andamento del voto stato dopo stato può cambiare molte cose.
Come nel 2016, però, le primarie repubblicane vedono un candidato nettamente più popolare degli altri – Donald Trump – e tanti sfidanti che rischiano di spartirsi i voti di chi non lo vorrebbe. Nel 2016 Trump vinse le primarie in molti stati ottenendo appena un terzo dei voti, visto che gli altri si erano sparpagliati tra tanti altri nomi. A rendere ulteriormente favorito Trump c’è il fatto che al momento pochi tra i contendenti Repubblicani osano criticarlo apertamente, per timore di inimicarsi una parte significativa dell’elettorato presso cui ha un grande consenso, imprescindibile per essere eletti.
DeSantis si è presentato ai propri potenziali elettori come l’alternativa meno imprevedibile, più solida, efficace e coerente rispetto all’ex presidente. Ed è interessante che anche lui, come quasi tutti gli altri, quando critica Donald Trump lo faccia da destra: rimproverandogli per esempio le restrizioni contro il coronavirus oppure la consulenza di Anthony Fauci o il successo della campagna vaccinale.
Gli altri due candidati più rilevanti, Pence e Haley, hanno lavorato a strettissimo contatto con Trump, per poi distanziarsene, specialmente dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Sebbene la loro campagna elettorale sia appena iniziata, entrambi stanno faticando a trovare una propria identità politica. Pence è in una posizione inedita: dal 1800 nessun vicepresidente ha mai sfidato alle primarie il suo presidente. Dopo aver resistito alla pressioni di Trump affinché invalidasse i risultati delle elezioni presidenziali del 2020, Pence si è alienato gran parte della base repubblicana, che lo considera un traditore.
Pur essendo probabilmente il candidato in assoluto più conservatore, per via del suo integralismo religioso, anche tra i fedeli evangelici – che in teoria dovrebbero trovare in Pence, un cristiano radicale che ha abbandonato il cattolicesimo da giovane, il loro candidato naturale – l’ex vice di Trump non sta raccogliendo particolari consensi. Nikki Haley ha un profilo più atipico – e secondo alcuni problematico per una parte dell’elettorato – tra i politici repubblicani: è una donna ed è figlia di immigrati di origine indiana. Ha una lunga esperienza politica, con tre mandati come deputata alla Camera del South Carolina e due come governatrice dello stato; per lungo tempo è sembrato potesse rappresentare una novità in grado di ampliare la base del partito. Ha tuttavia cambiato molte volte idea su Trump – apparendo talvolta opportunista e incoerente – e i sondaggi più recenti la danno dietro Pence.
In aggiunta a questo gruppo di candidati, altri otto repubblicani hanno detto che parteciperanno alle primarie: secondo sondaggi e commentatori, in questo momento, la possibilità che superino le prime fasi sono quasi nulle. Tra questi ci sono politici già noti a livello nazionale, come il governatore del North Dakota Doug Burgum, il senatore Tim Scott del South Carolina (che è anche l’unico senatore afroamericano dei repubblicani), l’ex governatrice dell’Arkansas Asa Hutchinson e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, l’unico che stia criticando Trump molto e con grande durezza; e figure meno conosciute, tra cui il finanziere di origini indiane Vivek Ramaswamy.
I motivi che spiegano questo genere di candidature con poche chance sono vari ma, in generale, conta la volontà di migliorare la propria posizione pubblica: nel caso di politici già conosciuti (come avvenne per Kamala Harris nel 2020) questo può voler dire guadagnarsi la nomina a vicepresidente, o preparare il terreno a una candidatura per un incarico minore; figure più marginali possono aspirare a ottenere un contratto da opinionista in TV o per la pubblicazione di un libro, o maggiore visibilità per le proprie carriere.